venerdì 30 dicembre 2016

Metallica, Hardwired...to Self-Destruct


I Metallica sono uno degli ultimi gruppi al mondo in grado di scatenare tempeste di opinioni contrastanti ogni qual volta si riaffacciano al mercato discografico. 
Sarà perchè ormai le loro uscite sono estremamente cadenzate (otto anni trascorsi dal precedente Death magnetic, se non si conta Lulu, con Lou Reed, del 2011) o a causa del loro ruolo seminale nella rifondazione del metal negli anni ottanta, ma è bastata l'anticipazione del primo singolo di questo nuovo album (la title track) a far scoppiare il pandemonio in rete, con una predominanza di commenti negativi in merito: alla pochezza del brano, alle rullate stantie di Ulrich, all'abuso di wah wah di Hammeth, alla voce di Hetfield, etc. etc.. Sembra quasi che il pubblico metal veda i Metallica come i ragazzi vedevano i Led Zeppelin nella seconda metà dei settanta: vecchie scoregge superate dai tempi. Stupisce tanto accanimento per questi dinosauri rock, a fronte del fatto che per altri gruppi storici, come ad esempio AC/DC , Iron Maiden o Motorhead, nonostante l'oggettiva ripetitività delle proposte, ci sia molta più accondiscendenza e rispetto.
Per Bottle of Smoke, ad oltre un mese dalla sua uscita, Hardwired...to Self-Destruct è un buon album, se contestualizzato a questa band e a questo tempo, probabilmente il migliore dopo il black album, ad un'incollatura da Load (che tentava un approccio diverso) e Death Magnetic.

E' un tributo, non è dato sapere quanto consapevole, all'heavy metal tutto, gli episodi propriamente thrash sono infatti limitati, mentre quelli più legati allo stile classico di questo genere emergono nettamente. Dei due CD che compongono il lavoro (qui la critica ci sta, visto che il timing complessivo avrebbe permesso di utilizzare tranquillamente  un solo supporto, con relativo prezzo di vendita inferiore) i trentasette minuti del primo filano via che è una goduria, trainati dalla title-track, da una Atlas, rise! davvero ispirata, da una Moth to the flame che è già un instant classic e da un pezzo, Halo on fire, che da mediocre si trasforma in emozionante a due terzi della sua durata. Sul secondo disco si arranca un pò di più, abusando forse un pò troppo dei mid-tempo, ma almeno mezza tracklist resta su buoni livelli (Confusion, ManUNkind e Here comes revenge), in compenso la traccia conclusiva, Spit out the bone è brutale e devastante in maniera totalmente insperata e inaspettata.
Non dico niente di particolarmente originale, se affermo che con una paio di brani in meno l'opera sarebbe stata più coesa, anche se devo ammettere che questa critica valeva forse di più nei primi giorni di ascolto, ora che Hardiwerd...to self-destruct è sedimentato, i quasi ottanta minuti di durata pesano molto meno.
Dietro all'uscita dell'album, un abnorme lavoro di marketing, con video realizzati per ogni singola canzone e rilasciati progressivamente, e con i singoli componenti dei 'Tallica in giro per tutto il globo a promuovere il disco, a ulteriore testimonianza di come, superato a fatica il passo falso dell'affaire Napster, questa band sappia ora maneggiare i media come pochi altri.

Altro che self-destruct, questi sono ancora perfettamente programmati per una minacciosa auto-conservazione.

giovedì 29 dicembre 2016

MFT, novembre e dicembre 2016

In attesa di definire la lista dei migliori album dell'anno, operazione per la quale bisognerà attendere ancora qualche settimana, chiudo il 2016 recuperando in un'unica lista le mie dritte relative ai mesi di novembre e dicembre.

ASCOLTI

Matt Woods, How to survive
Metallica, Hardwired to self destruct
Wayne Hancock, Slingin' rhythm
Sixx: A.M., Prayers for the blessed
Alejandro Escovedo, Burn something beautiful
Cody Jinks, I'm not the devil
ABC, The lexicon of love II
Airbourne, Breakin outta hell
Rolling Stones, Blue and lonesome
Garth Brooks, Gunslinger
The Mavericks, All live long, volume 1
Brujeria, Pocho Aztlan
Dee Snider, We are the ones

Compilazioni estemporanee, ovvero: raschiando il fondo del barile della nostalgia

Queen
Billy Idol
Duran Duran
The Cure

Wayne Hancock


VISIONI

Terminate rispettivamente la terza stagione di Power, The night ofWestworld e la seconda di Daredevil, sono su The affair (terza), The Young Pope, Treme (terza) e Quarry.

LETTURE

Con mio grande apprezzamento, più di una persona mi ha regalato libri, per Natale. Conto pertanto di uscire dal mio ciclico stallo grazie a Born to run, l'autobiografia di Bruce, e alla Trilogia di Holt, di Kent Haruf
Stay tuned!

lunedì 26 dicembre 2016

ABC, Lexicon of love II



Il pop elegante degli ABC non ricorre abitualmente nei miei ascolti, anche se rappresenta bene un periodo spensierato della mia vita, nel quale, oltre ai dischi baricentrati essenzialmente sulle varie sfumature del rock, si ascoltava anche molta radio che mandava generi musicali più diversificati.
Oggi della band che ci ha regalato grandi singoli come Poison arrow, (How to be a) Millionaire, Be near me, S.O.S. e When Smokey sings è rimasto il solo Martin Frey, stilosissimo vocalist storico, che si gioca una carta alla quale normalmente sono allergico: quella di titolare un disco nuovo come parte due del proprio lavoro di maggior successo. Così, se The lexicon of love nel 1982 aveva acceso un faro su una nuova band rientrante nella new wave inglese, forzare un link quasi trentacinque anni dopo, oltre ad apparire come la carta della disperazione, poteva finire per contaminare anche l'innocente ricordo dei fasti passati.
Fortunatamente non è andata così, perchè The lexicon of love II si muove in punta di piedi ma con efficacia su di un brand stilistico all'epoca riconoscibilissimo, rilanciandolo con classe. Già a partire dall'opener The flames of desire e dal successivo Viva love, il primo singolo estratto, per buona parte della tracklist (fatto salvo qualche inevitabile filler), ci si muove infatti sulle stesse coordinate che ci avevano fatto scoprire e apprezzare gli ABC, conducendo così in porto un operazione solo apparentemente semplice,

Un modo elegante per restare aggrappati alla gloria del passato.


lunedì 19 dicembre 2016

Airbourne, Breakin' outta hell


Con una buona percentuale del rock moderno che si misura su elementi fortemente derivativi, quello che fa la differenza tra una band e l'altra è la qualità delle canzoni. Nessun rimprovero pertanto agli australiani Airbourne se hanno scelto di suonare come i conterranei AC/DC, piuttosto qualche critica se dopo due album convincenti come Runnin' wild e No guts no glory, con Black dog barkin' la loro formula ha cominciato a mostrare la corda.
Opportuno dunque qualche anno di assestamento prima di tornare in sala di registrazione per i lavori che hanno prodotto questo Breakin' outta hell, che ci regala una band in risalita e che già dalla copertina svela la passionaccia per l'hard rock e l'heavy metal degli anni ottanta.
L'ispirazione per la band di Angus Young continua a dominare lo stile dei fratelli Joel e Ryan O'Keeffe (rispettivamente chitarra solista/voce e batteria degli Airbourne), come testimonia la title track che apre il lavoro, ma già con la successiva Rivalry, sebbene si resti nella classica coerenza stilistica del combo, si affacciano sonorità immediatamente riconducibili alla prima metà degli ottanta, che tanto hanno dato all'heavy.
Il manifesto It's never too loud for me è un'altra frustata che promette di diventare un discreto anthem dal vivo, in ottima compagnia con le altre tracce del mazzo che non abbassano mai la tensione. In sostanza, se cercate una ballata strappamutande, guardate altrove perchè questi ragazzi non conoscono nemmeno il significato del termine.

Defenders of the faith.




lunedì 12 dicembre 2016

Garth Brooks, Gunslinger


Con Gunslinger Garth Brooks si scrolla di dosso la ruggine di tanti anni di inattività e i rancori verso il music business che avevano caratterizzato il buono ma un po' farraginoso  comeback del 2014, .
Qui invece, già a partire dalla copertina, che riprende lo stile fotografico dei grandi successi dell'artista di Tulsa, siamo in piena Garth Brooks's comfort zone.
E infatti Honky-Tonk somewhere, la traccia che apre il lavoro,  è finalmente un sontuoso honky tonk, materia nella quale il nostro ha sempre avuto pochissimi rivali, creato scientemente per infuocare i grill bar preferiti da tutti i redneck americani.
Ogni cosa è al suo posto, in questo lavoro: il timing che varia dai trentacinque ai quarantadue minuti a seconda delle versioni del disco, il numero delle tracce (dieci/dodici), il bilanciamento tra le diverse anime country dei pezzi, che viaggiano tra sentimento (Ask me how I know; Whiskey to wine - l'immancabile duetto con la moglie Trisha Yearwood - ), honky tonk (Baby let's lay down and dance, oltre alla già citata opener), ma anche prove muscolari (BANG! BANG!) e una riuscita incursione nello stile classico di John Mellencamp (Sugar cane).
Nella versione deluxe, inoltre, il rifacimento di uno dei pezzi più noti di Brooks, Friends in low places, verniciato di nuovo grazie al lussuoso contributo di George Strait, Keith Urban ed altre star country.
 
La quasi contemporanea uscita del doveroso (in ambito country) album natalizio, il quarto in carriera, in duetto con la gentile consorte, certificano che Garth Brooks ha ripreso il giusto ritmo discografico.
La cosa ci fa un enorme piacere.

martedì 6 dicembre 2016

The Mavericks, All live long - Volume 1



Anche se si tratta di un disco dal vivo, questo All night live - volume 1 è un'altra dimostrazione che il ritorno dei Mavericks (al terzo album in quattro anni) è cosa seria e che la band, superata la boa dei venticinque anni, vuole dare assidua continuità alla propria carriera.
La particolarità di questo live, il terzo nella discografia del gruppo, è quella di fotografare la produzione più recente di Raul Malo e soci, prendendo in considerazione in pratica solo composizioni dagli ultimi In time e Mono.
Non trovano spazio pertanto, ne l'ottimo country degli esordi e nemmeno l'unica hit del combo, quella Dance the night away contenuta nel capolavoro Trampoline del 1998.
Ormai la dimensione della band è quella old fashioned delle grandi orchestre anni cinquanta, con una sezione fiati a sostenere le strutture melodiche sempre splendidamente in bilico tra le due americhe: lo swing e il rock and roll da una parte, i ritmi latini: la salsa, la rumba, la cumbia dall'altra, con risultati che regalano immancabilmente fascino e nostalgia.
Le sedici tracce che compongono l'album restano fedeli alle versioni originali, con qualche eccezione, come il crescendo finale dei fiati su As long as there's loving tonight o la versione interminabile di Come unto me che farebbe venire voglia di scendere in pista anche ad un tocco di legno (quindi a me).
Unico difetto di un live che fotografa perfettamente lo straordinario stato di forma della band, la qualità audio non impeccabile che pialla un po' i suoni, non facendo emergere a dovere l'inimitabile voce di Malo.
Peccato veniale, quello che conta è la musica e qui dentro c'è il meglio immaginabile in questo ambito artistico.