lunedì 31 dicembre 2018

2018: un consuntivo musicale (niente classifiche)

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Torno a postare sul blog dopo un paio di settimane di inattività causato da un periodo di ferie in cui ho fatto altro (soprattutto girare di casa in casa di parenti a mangiare come non ci fosse un domani, oltre a qualche lavoretto domestico) ma, devo ammetterlo, anche per un calo di stimolo creativo.
E allora il modo migliore per riprendere la penna in mano è affrontare subito quello che, storicamente, è sempre stato un obiettivo per me irrinunciabile, al quale mi approssimavo con una tale solennità da mandarmi in fibrillazione già da novembre e fino alle prime settimane dell'anno nuovo: la classifica dei migliori dischi dell'anno.
Nel 2018 è successo però qualcosa di diverso, ma tutto sommato inevitabile.  
Nell'equazione degli ascolti musica nuova/musica stagionata, si è verificato il sorpasso della seconda sulla prima.
Sarà che alla fine "la questione generazionale" ha prevalso (in questo senso il traguardo dei cinquanta ha un significato non solo simbolico) ma, pur prestando l'orecchio a tante, tante, new releases, non ne ho approfondite (che per me significa ascoltarle per un orizzonte temporale minimo di un paio di settimane) poco più di una ventina, e pertanto non aveva molto senso stabilire il disco dell'anno dentro un lotto così limitato di titoli.

L'avessi fatto, il podio sarebbe probabilmente andato ex aequo a Jack White, con il suo spiazzante Boarding house reach e, anche per un'intensa forma d'affetto, a Lindi Ortega, con l'album della rinascita Liberty.
Scelte queste che però non avrebbero rispecchiato il reale mood degli ascolti, che ha visto una prevalenza metal (ben rappresentata dal sorprendente Firepower dei redivivi Judas Priest) oltre a, anche se nel blog non ne esiste praticamente traccia, molto rap/hip hop dei novanta (NWA, 2pac, Wu Tang Clan, Nas, Eminem), in una gratificante sinergia di influenze col mi figliolo.
Da qui la scelta liberatoria di procedere, per la prima volta, a non stilare la top dell'anno.
Che sia questa la futura linea editoriale, o solo un'opzione estemporanea, solo il tempo lo dirà. 
Intanto, nei prossimi mesi, dovrò misurarmi con l'inizio di un nuovo percorso del mio mestiere. Un percorso che un pò mi spaventa, che aumenta il carico di responsabilità e che potrebbe sottrarmi ulteriore tempo ed energie mentali per scrivere delle mie abituali amenità sul blog. 
Que sera, sera. Per il momento, buon 2019 a tutti!

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giovedì 20 dicembre 2018

Nel nome del male (2009)


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Con l'opinione pubblica ancora scossa dall'atroce vicenda di cronaca delle cosiddette Bestie di Satana (gli omicidi compiuti dal gruppo nella zona di Varese si svolsero in un arco temporale che andava dal 1998 al 2004, e la sentenza di condanna definitiva per i colpevoli arrivò nel  2007), Sky commissiona un instant tv-movie in due parti sul tema "satanismo".
I rischi in questi casi sono del pastrocchio perbenista e paternalistico, ma il regista Alex Infascelli evita il trappolone portando a casa un lavoro estremamente valido, che, per confezione e messa in scena, sarebbe stato più che meritevole del passaggio su grande schermo.

Giovanni Baldassi (Fabrizio Bentivoglio) è il classico imprenditore del nord est che si è fatto da solo e che ha raggiunto un ottimo livello di agio e ricchezza per se e la propria famiglia, composta da moglie (Michela Cescon) e due figli. 
Dietro questa patina da famiglia del Mulino Bianco, tutta casa, lavoro e chiesa, si nascondono però profonde crepe, una delle quali rappresentata dal figlio Matteo (Pierpaolo Spollon), sedicenne taciturno ed inquieto che una sera non torna a casa, gettando nel panico i genitori.
Gli inquirenti locali minimizzano l'accaduto, riconducendolo a comportamenti di ribellione adolescenziale, mentre Giovanni non si dà pace e comincia ad indagare per conto proprio, incurante della crisi che si apre nel rapporto con la moglie.

Nel nome del male è un opera che si muove efficacemente dentro un argomento che, come detto, non è semplice da maneggiare in maniera credibile. Infascelli è molto abile nel fotografare la realtà superficiale ed ipocrita della provincia italiana (veneta nel caso specifico), dove l'apparenza conta più di ogni altra cosa e il marcio viene tenuto occultato agli occhi della "gente", persino se si tratta di attività delittuose. 
Lo script evita miracolosamente quasi tutti i clichè del genere thriller/horror (giusto qualche incappucciato di troppo e magari la fine preannunciata di un testimone che vuole spifferare ciò che sa, ma di contro, il tema musica black-metal non è buttato lì a cazzo), conducendo Giovanni dentro una spirale di allucinata disperazione dentro la quale, più di una volta, rischia di andare alla deriva. 
Bentivoglio interpreta in maniera esemplare il dramma di un padre devastato dai sensi di colpa, che vede il suo mondo, quello per cui ha lavorato una vita, andare in mille pezzi. L'attore lavora, come lui e solo pochi altri sanno fare, per sottrazione. Con poche linee di dialogo, le emozioni sono veicolate più da sguardi, espressioni, linguaggio non verbale.
Altro elemento apprezzabile nella trama è rappresentato dalle indagini che Giovanni compie autonomamente, infatti, diversamente da altre opere simili, il protagonista non riesce mai ad andare oltre la superficie delle cose (il satanismo), venendo continuamente depistato dai personaggi che trova sul suo cammino, che lo manipolano, senza che lui se ne avveda, fino alla drammatica conclusione. 
La fredda fotografia dei paesaggi locali (girati tra la provincia di Trieste e quella di Torino) è estremamente coerente con la cifra stilistica, e, assieme ad essa, alcune sequenze, realmente disturbanti, permeano il film di una tensione, un senso di angoscia e di catastrofe incombente che non ti lascia mai. 
Se poi guardi Nel nome del male da genitore di un figlio con l'età dello sfortunato protagonista Matteo, e rifletti su quanto davvero puoi sapere di tuo figlio adolescente, il mix emotivo diventa dirompente.

Di recente, Sky l'ha rimesso in rotazione. A mio avviso è senz'altro da recuperare.




martedì 18 dicembre 2018

Bloodbath, The arrow of Satan is drawn

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I Bloodbath sono un superguppo che raccoglie elementi della scena svedese per dare forma e sostanza ad un death-metal decisamente old school.
Contrariamente a quanto succede per molte operazioni di questa natura, i Bloodbath sono attivi da oltre quindici anni, periodo nel quale sono stati sfornati cinque dischi in studio più un paio di, rispettivamente, EP e testimonianze dal vivo.
Ad oggi sono della partita, chitarra e basso dei Katatonia (Anders Nystrom e Jonas Renkse), la batteria degli Opeth (Martin Axenrot), la seconda chitarra, dei Craft (Joakim Karlsson) e il mitologico Nick Holmes dei Paradise Lost alla voce.
Personalmente li avevo approcciati con il precedente Grand morbid funeral del 2014, ma è con questo The arrow of Satan is drawn che ci ho preso veramente gusto.
Potrebbe valere il discorso fatto per il recente I loved you at your darkest dei Behemoth, vale a dire che è l'elemento accessibilità dentro un'opera di metal estremo a fare breccia nel gusto di uno che normalmente bazzica poco il marciume sonoro (e che per il ragionamento inverso lascia indifferenti i fan integralisti del genere), a fare la differenza, tuttavia, anche qualora pezzi quali Deader, Levitator, Fleischmann o Bloodicide (che vede la gradita ospitata di Jeff Walker dei Carcass, John Walker dei Cancer e Karl Willets dei Bolt Thrower) sgorghino più dal mestiere che dall'urgenza comunicativa, il piacere nel suonare e risuonare il disco resta immutato.
Nel giudizio complessivamente positivo rientra anche l'apprezzamento per la copertina, elegante e disturbante al tempo stesso.

giovedì 13 dicembre 2018

Un lupo mannaro americano a Londra (1981)

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Avevo visto per la prima ed unica volta Un lupo mannaro americano a Londra in televisione, a metà anni ottanta, qualche tempo dopo la sua uscita al cinema. 
Riguardando in questi giorni il film di John Landis (su un dvd ricco di extra, che hanno aggiunto fascino alla magia della pellicola) c'è ancora da rimanere sbalorditi da quanto grandiosa sia quest'opera.
In pratica mi sono accorto che della mia visione giovanile (parliamo di oltre trent'anni fa...) ricordavo solo l'ancora oggi insuperabile sequenza della trasformazione in licantropo dello studente David Naughton (David Kessler) e l'amarissimo finale. 
Capiamoci, tanta roba già così, ma che piacere rituffarmi nelle atmosfere della brughiera inglese, nello sconfinato godimento per una sceneggiatura esemplare, nei dialoghi perfetti, in un bilanciamento inedito tra toni leggeri, dramma e horror e in almeno mezza dozzina di scene memorabili (come le conversazioni del protagonista con le sue vittime, post mortem), senza parlare dei tempi perfetti e di una messa in scena da scuola di cinema.
Piacere nel piacere, la possibilità, oggi, di apprezzare la scelta delle canzoni inserite nella colonna sonora, tutte a rigoroso tema lunare, con la parte del leone rappresentata dallo standard Blue moon (originariamente composto da Rodgers e Hart) proposto in tre differenti versioni interpretate da Bobby Vinton, Sam Cooke e The Marcels, ma anche dai Creedence di Bad moon rising e dal Van Morrison di Moondance.
Geniale poi la scelta del mitologico John Landis di accompagnare gli ultimi istanti del film accostando ad un finale drammatico e unhappy l'allegra e spensierata versione doo-wop che i The Marcels fecero proprio di Blue moon.

Non aggiungo altro se non: capolavoro!

lunedì 10 dicembre 2018

U.D.O., Steelfactory

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Se ci fosse una graduatoria dei più improbabili fisici da metal singer, Udo Dirkschneider la vincerebbe a mani basse. Il sessantacinquenne ex frontman degli Accept non è mai ricorso a nessun tipo di intervento estetico per mitigare gli effetti del passare del tempo sulla sua immagine. Basso, tarchiato, con una pancia da birra di tutto rispetto, sembra più un pensionato che ha passato quarant'anni a fare il fabbro ferraio, piuttosto che una rockstar.
Ma forse è proprio questo l'elemento che me lo rende più vicino e simpatico. Al motto di "bando alle ciance e ai look elaborati, if you want heavy metal, you've got it", il buon Dirkschneider assieme alla sua ormai fidata band U.D.O. ha dato da poco alle stampe il suo diciassettesimo album in trent'anni.
E, beh, non serve che mi dilunghi troppo sullo stile di Steelfactory: classici riffoni che vanno giù dritti, ritornelli intonabili anche dopo averli ascoltati mezza volta e nessuna paura di cadere nel kitsch, al punto da inserire, durante il guitar solo di una traccia (Blood on fire), un classico fraseggio da tango di balera.

Insomma, via col lissio. Pardon, col metal.

giovedì 6 dicembre 2018

Il boss (1973)

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Con Il boss, Fernando Di Leo, dopo Milano Calibro 9 e La mala ordina, chiude la sua trilogia del milieu consegnando alla storia del cinema di genere (e non solo) italiano (e non solo) un capolavoro secondo solo al primo capitolo del trittico di film.
Rispetto alle prime due pellicole, l'azione si sposta da Milano a Palermo ma ancora una volta la narrazione si apre con una grande sequenza iniziale: vediamo infatti un uomo (Lanzetta, interpretato da Henry Silva) introdursi nella sala proiezione di un piccolo cinema e fare fuoco con un lanciagranate sul pubblico presente, composto per intero dalla famiglia mafiosa Attardi.
La mattanza, eseguita su commissione di Daniello, boss di Lanzetta, è l'inizio di una vera e propria guerre da famiglie mafiose siciliane, nel quale si inserisce il calabrese Cocchi (Pier Paolo Capponi), scheggia impazzita della mala,  che per ritorsione fa rapire l'unica figlia di Daniello.
Referente di tutte le famiglie e "capo dei capi" è Don Corrasco (Richard Conte), il quale è chiamato ad intervenire per appianare gli attriti e riportare l'ordine in Sicilia, anche su pressione dello Stato, con il quale si intuisce avere un accordo di lunga e reciproca collaborazione. Anche le forze dell'ordine sono allertate, ma in questo caso le complicazioni aumentano perchè il questore (Vittorio Caprioli) deve guardarsi dal commissario Torri (Gianni Garko), al soldo della mafia.

Se l'impronta politica di Milano Calibro 9 era orientata alla disamina sociale, con riferimenti alla repressione degli studenti, alla criminalizzazione degli immigrati meridionali e all'orientamento politico di destra di prefetture e questure, con Il boss Di Leo affonda con precisione il colpo della denuncia delle connivenze tra Stato e mafia con una sceneggiatura e, soprattutto, dei dialoghi coerenti e credibili. L'avvocato Rizzo (Corrado Gaipa) che tiene i rapporti con i boss mafiosi per conto dello Stato è in questo senso una figura centrale, si rivolge a Don Corrasco con deferenza ma anche con fermezza e sciorina i conti in merito a quanto voti porta la mafia e in quanti parlamentari queste preferenze si traducano. Il film ci mostra una mafia radicata ovunque: istituzioni, governo, forze dell'ordine e persino nella Chiesa. La verosimiglianza degli eventi all'epoca andò di traverso a qualcuno, se è vero che un ministro presentò querela per diffamazione , provocando un iniziale sequestro della pellicola. 

Ma anche se ci limitassimo alla qualità dell'intreccio noir il film è solido come una roccia, con svariati twist e scene di azione non banali. Le interpretazioni sono di livello, con attori magari monoespressivi, ma perfetti alla bisogna (mi riferisco ovviamente ad Henry Silva) assieme ad altri che invece, attraverso un'interpretazione convinta, donano spessore ai propri personaggi, come Pier Paolo Capponi/Cocchi e uno strepitoso Vittorio Caprioli nei panni di un questore onesto ma disilluso, che usa il sarcasmo per sottolineare tutta la sua impotenza e le stridenti contraddizioni di quella terra.
Discorso a parte per i personaggi femminili, anche qui tratteggiati  in una modalità che oggi si definirebbe misogina, attraverso la parte di Antonia Santilli (Rita, la figlia di Don Daniello) raffigurata come un'odiosa  ragazzina viziata, ninfomane e decerebrata.
La messa in scena, al solito, pur nella povertà dei mezzi (ma la sequenza iniziale rimane straordinaria facendo passare in secondo piano l'evidente l'uso di manichini in luogo dei cadaveri), è spettacolare. Di Leo, che oltre alla regia firma soggetto (tratto dal romanzo Il mafioso, di McCurtin) e sceneggiatura, si muove con disinvoltura dentro il genere, regalandoci anche qui sequenze memorabili e scene plastiche.

Il film si chiude dopo uno dei tanti colpi di scena della storia e con la scritta "continua", chissà se Di Leo avesse effettivamente in mente di dare un seguito alla narrazione, magari accarezzando l'idea di una saga in più capitoli, o se quella scritta fosse una sorta di epitaffio al film con il monito che comunque quelle dinamiche "di fantasia" sarebbero continuate imperterrite nella vita reale.

Un fulgido esempio di come lo stile popolare del cinema di genere poteva graffiare allo stesso modo, se non più, di quello di impegno civile. Con la differenza che, essendo il genere privo di connotazioni ideologiche, imprimeva ad un elevato numero di spettatori "indifesi" un messaggio politico ben chiaro ed orientato.

lunedì 3 dicembre 2018

Salmo, Playlist

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Anche se Bottle of smoke ha tutt'altro orientamento musicale, seguiamo con una certa attenzione la scena rap italiana, soprattutto quella parte che potremmo definire old school e che esula dalle fenomenologie del momento (trap e compagnia bella).
E' pertanto bizzarro essere arrivati solo ora ad approfondire la musica di uno dalla forte personalità come Salmo, che, con Playlist, è arrivato al quinto lavoro in sette anni.

In ritardo o meno, è già un paio di settimane buone che questo album è in alta rotazione nei miei ascolti senza che sia venuto a calare interesse e voglia di metterlo su da capo.
Diciamo che condivido con l'artista sardo (all'anagrafe Maurizio Pisciottu) la critica verso quell'ostentazione dell'eccesso, tema costante dei colleghi di rime cafoni arricchiti, che Salmo mette alla berlina nelle tracce Ricchi e morti e Dispovery channel. 
Tuttavia, oltre questo aspetto, Playlist si è guadagnato la mia attenzione anche in virtù di altre tracce dirette e potenti, quali 90min o Stai zitto (feat. il Fibra nazionale che nel suo pezzo "assolve" la trap sostenendo che "a 18 anni mica scopi se ascolti gli Slayer"). 
Restando nei fenomeni giovanili, totalmente evitabile  il featuring con Sfera Ebbasta, una sorta di coalizione in polemica risposta con la rivista Rolling Stone, che aveva messo un pò artificiosamente l'uno contro l'altro. Il brano in questione (Cabriolet), anche se si sente canticchiare in ogni dove, è a mio avviso debolissimo, soprattutto rispetto alla media del disco.
Verso la fine della tracklist Salmo si toglie anche lo sfizio di inserire Tiè, un breve pezzo strumentale nel quale torna al suo primo amore, la batteria.

Sarebbe facile per me definire Playlist disco rap italiano dell'anno, visto che non ne ho ascoltati altri. 
Mi limito allora ad affermare che con questo album ho appagato la mia personale esigenza del genere, per l'anno 2018.