giovedì 31 dicembre 2020

Elegia americana (2020)


Nel 2016 esce Hillbilly elegy, autobiografia nella quale l'autore, J.D. Vance, racconta di sè, della sua famiglia, dalla diffusa povertà della gente che vive nella parte di Kentucky interessata dai monti Appalachi. Non ho letto il libro, ma secondo molti opinion leader, quel testo, che a quanto pare criticava il parassitismo dei locali, che vivevano di sostegno welfare, ha (involontariamente? inconsapevolmente?) contributo se non alla vittoria di Trump alle presidenziali, quantomeno a capire perchè in quelle zone del Paese (bible belt e rust belt) il repubblicano abbia fatto il pieno di voti.

Quindi, mi sono chiesto, nel trarre un film da un libro che è sì di formazione, ma che ha un forte afflato politico/sociologico, Ron Howard terrà in considerazione questi aspetti? Purtroppo no. Elegia americana è solo un melodrammone familiare con più di un'incongruenza nel suo sviluppo, la trasposizione della storia di J.D. è un banale, retorico e a tratti irritante spottone all'american dream, dove i valorosi ce la fanno "no matter what", mentre sono solo gli sfaticati a restare indietro. In un film francamente brutto non faccio tuttavia fatica a salvare le prestazioni attoriali, notevoli, anche se eccessivamente "costruite"(con vista sugli Oscar), di Glenn Close (la nonna di J.D.) e Amy Adams (la madre).

Insomma, per una volta il titolo italiano rappresenta l'opera più di quello originale perchè qui la fotografia di quella popolazione "white trash" è talmente fuori fuoco da far rimpiangere la ben più fedele rappresentazione di questi hillbillies fatta in un prodotto leggero come la serie tv Justified. Per questo Elegia americana è il titolo perfetto. Per chi crede che l'eccezione valga più della regola o che sia normale indebitarsi a vita per laurearsi (secondo indebitamento più diffuso negli States, dopo quello per l'acquisto della casa) gli USA sono ancora la terra delle opportunità. O almeno così vuol farci credere Ron Howard.

Elegia americana è disponibile su Netflix

lunedì 28 dicembre 2020

AC/DC, Power up


Nel mettere assieme i pensieri per organizzare mentalmente la recensione del nuovo album degli AC/DC sono due i concetti che mi frullavano in testa, e nessuno dei due concernente la musica contenuta dentro questo Power up (aka PWR/UP). 

Mi stupisce quasi fino al fastidio (per quanto ci si possa infastidire alla mia età per faccende di rock and roll, si intende) la pressochè totale accondiscendenza con la quale chiunque, tra critica e appassionati, accolga negli ultimi anni ogni nuovo lavoro degli australiani. Si tratta di una benevolenza che nessuno, tra i "competitor" che per storia, impatto culturale e tenacia, rientrano nel benchmark degli AC/DC, arrivano a godere. Pensiamo solo alla scientifica operazione di conteggio dei peli sul culo con relative ondate di indignazione per i nuovi (a detta di chi scrive validi) lavori di Iron Maiden (Book of souls) e Metallica (Hardwired...to self-destruct) o ancora alle reazioni con mignolo alzato di fronte a quelli che erano i nuovi lavori di Lemmy coi Motorhead (che per insistenza stilistica potevano essere paragonati alla band di Angus Young), ed avremmo un campione significativo a dimostrare come nel rock and roll saranno anche tutti uguali ma gli AC/DC sono più uguali degli altri, nonostante non abbiano sostanzialmente mai tentato strade diverse dal solito boogie-hard-rock e il leader del gruppo, a sessantacinque anni suonati, per i live act, si vesta ancora come la caricatura di uno scolaretto. 

Ma che ormai la band sia consapevole di essere diventata un brand, più che un gruppo musicale (e qui arrivo al secondo concetto), e che il suo monicker sia assimilabile a marchi pop-iconografici come la M di McDonald, la conchiglia della Shell o la mela della Apple, lo dimostra la scelta fatta negli ultimi vent'anni per le immagini di copertina, laddove dal 2000 (anno di uscita di Stiff upper lip, ultimo con un immagine artistica), tutti i lavori di questo ultimo ventennio (Black ice, Rock or bust, PWR/UP) - complice anche l'avvento dei Compact Disc e poi quello delle iconcine delle playlist Spotify - hanno orientato l'Azienda-ACDC ad un business plan di estrema sostanza ed efficacia, con il nome/brand a riempire tutto lo spazio disponibile sulla copertina, come se bastasse questo a fare del contenuto musicale una garanzia, analogamente al tuo "Dash di sempre". 

Sul contenuto dell'album cosa posso dire? Due-tre pezzi con il piglio ruffiano che serve (Shot in the dark; Kick you when you're down; Demon fire), ma che ci dimenticheremo subito, esattamente com'è successo per i brani dei due dischi che hanno preceduto questo. Personalmente sono sobbalzato solo ascoltando Through the mist of time, il mio preferito, l'unico brano che si allontana dal solito giro armonico e che rimanda, incredibilmente, all'elegante pop rock dei Van Halen (con Sammy Hagar) di 5150

Chioso solo affermando che la mia severità di giudizio viene dall'affetto che ho per gli AC/DC. Non serve, credo, ribadire quanto ami questa band, basta farsi un giro nel blog. Aggiungo che sono autenticamente felice che Brian Johnson (uno dei personaggi in assoluto più simpatici del music business) abbia superato i suoi gravi problemi all'udito che lo portarono ad abbandonare l'ultimo tour (sostituito da un Axl Rose alla Ironside, una scelta che ho detestato), tuttavia, sono convinto che se questo stesso album fosse stato rilasciato venti o trenta anni fa avrebbe ricevuto un'accoglienza molto più tiepida di quanto accade oggi. Eppure band e brani, gira e rigira, sono pressochè gli stessi, e anzi, forse, pensando a Stiff upper lip o a The razors edge , pure peggiori. 

E dunque, necessariamente, ad essere cambiati siamo noi e il contesto critico, perchè, di certo, gli AC/DC sono sempre gli stessi.

giovedì 24 dicembre 2020

Zombie contro zombie (2017)


Il regista Higurashi sta girando un survival movie con zombie, quando il set viene assalito da veri morti viventi, obbligando la troupe ad una reale lotta per la propria sopravvivenza.

Ho tenuto la sinossi al minimo indispensabile, preferendo correre il rischio di banalizzare la trama del film piuttosto che rivelarne gli incredibili sviluppi. Compenso cercando qui, in fase di commento, di convincere il lettore a non farsi in alcun modo sfuggire la visione di questo Zombie contro zombie, un film letteralmente imperdibile per ogni amante, prima ancora che degli horror, dell'Arte cinematografica.

Mi stupisce sempre come, ad altre latitudini (e penso ad Asia e Spagna, in questi ultimi anni) si riesca a realizzare progetti eccitanti e validissimi attraverso idee semplici ma originali, anche con budget risicatissimi. E' il caso di Zombie contro zombie (One cut of the dead il pressochè perfetto titolo originale, come scoprirete guardandolo) reso possibile da un crowdfounding, per un costo complessivo di venticinquemila euro. 

I tre canonici atti dell'opera cinematografica in questo caso sono suddivisi in modo chirurgico e, assemblati, completano una storia che è un purissimo atto d'amore verso la settima arte e verso le capacità più autentiche ed artigianali di realizzarla. La prima mezzora, tutta girata dal regista giapponese Shin'ichirò Ueda attraverso un frenetico piano sequenza, è solo l'inizio di una spirale avvolgente, a più strati di metacinema, di un'opera geniale, esilarante, appassionante e, per certi aspetti, commovente, che, una volta finita, si ha l'impulso di rimettere daccapo.

Uscito inizialmente in poche sale giapponesi, One cut of the dead, grazie al passaparola, ha visto progressivamente accrescere la sua popolarità, fino a raggiungere un buon successo in patria ed ascendere al rango di opera di culto nel resto del mondo. Io l'ho visto grazie all'ottima piattaforma di streaming fareastream, realizzata dai mai troppo celebrati responsabili del Far East Film Festival di Udine, che tante meravigliose pellicole di quell'area di mondo hanno contribuito a portare in Italia, ma il film si trova agevolmente anche in dvd.

Per un Natale da veri cinefili regalatevi quest'imperdibile gioiello. Sono certo che mi ringrazierete.

lunedì 21 dicembre 2020

Raven, Metal City

 


Quattordicesimo album per i pionieri della NWOBHM, più che nobili "defenders of the faith" (come vengono chiamati gli artisti che portano avanti il registro dell'heavy metal classico) veri e propri operai del metal, che continuano coi loro tempi - negli anni zero due dischi a decennio - a divulgare la loro musica, ad oltre quarantacinque anni dalla loro formazione, avvenuta a Newcaslte nel 1974. La band è creatura dei due fratelli Gallagher (no, non Liam e Noel): John - basso e voce - e Mark - chitarra - , e, a completare il trio alla batteria, dal 2017 troviamo l'ottimo (e trasversale a qualunque genere) Mike Heller. 

Metal City arriva a cinque anni dal precedente ExtermiNation, ma, sopratutto, a livello personale, arriva dopo aver scoperto il trio dal vivo nel 2017, a supporto dei Saxon, ed essermene innamorato. Dieci tracce per meno di quaranta minuti di durata di puro Raven style eseguito alla massima potenza, con un bel colpo di spugna alla carta d'identità degli ultrasessantenni Gallagher. E' superfluo, per chi conosce i Raven, chiarire che la tracklist è una frustata, tradotto: non cercate ballate qui dentro. I brani stanno tutti sotto i quattro minuti, ad eccezione della conclusiva, doomeggiante, When worlds collide, che supera i sei. The power apre invece il lavoro, tracciando congruamente le coordinate di uno stile costruito su un tappeto disumano di batteria, la chitarra di Mark e il cantato di John, qua e là punteggiato dai suoi inconfondibili e desueti acuti in falsetto (in effetti credo sia rimasto l'unico a farli). Tanti (tutti?) i pezzi sui cui scatenare l'inferno dell'headbanging: Human race, la title track, Battlescarred, Motorheadin' (indovinate dedicata a chi). 

I Raven si confermano insomma, ancora una volta una garanzia. Fuori dalle mode, dagli schemi, dal marketing e (purtroppo) dal successo commerciale, ma amati alla follia da un manipolo di nostalgici, tengono proletariamente alta la fede del vero metallo.

lunedì 14 dicembre 2020

It's never too late to mend: Warren Zevon, Stand in the fire (1980)



Questo recupero è probabilmente solo un pretesto per parlare di un grande songwriter e rocker, che da madre natura ha avuto in dono, in egual misura, talento e cattiva sorte. Vero è che, nonostante la mia passione per Zevon sia arrivata in ritardo, all'indomani della sua grave malattia e al suo album The wind, uscito proprio qualche giorno prima del suo prematuro decesso (2003), sono comunque oltre tre lustri che ascolto i suoi lavori, con una prevalenza per il periodo settantiano (quello del cofanetto della foto, consigliatissimo anche per il rapporto qualità/prezzo) ed è pertanto bizzarro che non abbia mai posato le mie orecchie sul disco dal vivo che esattamente quella prima fase di carriera si proponeva di sugellare (Zevon debutta discograficamente nel 1969, poi si perde in una deriva tossico-alcolica per tornare nel 1976, anno in cui ricomincia ad incidere con regolarità). 

La tournee del 1980, a supporto di Bad luck streak in dancing school, uscito a febbraio di quell'anno, è un successo e, il 26 dicembre, viene celebrata con la pubblicazione di Stand in the fire, il primo album dal vivo di Warren la cui tracklist sintetizza cinque serate sold-out al Roxy Theatre di Hollywood. La prima versione dell'album contiene dieci tracce, successivamente, con l'avvento del compact disc, il lavoro viene rieditato e passa a quattordici pezzi.

Lo stato di forma di Zevon è debordante, la band (sugli scudi in particolare le due chitarre, David Landau e Zeke Zirngiebel nonchè Bob Harris, al piano e sintetizzatore, oltre allo stesso Warren, che si alterna a basso, chitarra, dodici corde e piano) gira che è una goduria. Nonostante abbia un disco ben accolto da critica e pubblico uscito da pochi mesi (Bad luck streak in dancing school), il cantautore nativo di Chicago inserisce nella scaletta del lavoro solo due brani di quell'album (Play it all night long e Jennie needs a shooter), rinunciando anche al singolo più popolare (A certain girl). Una scelta vincente che fa di Stand in the fire un live come si concepivano una volta, cioè un momento di consuntivo, un punto e a capo della carriera, che resiste all'usura del tempo.

Il rocker sembra quasi irridere all'enorme - sia in termini qualitativi che quantitativi -  songbook a disposizione e si concede il lusso di aprire con un pezzo inedito (la title track) e chiudere (nella ten-tracks version) con una torrida cover/medley: Bo diddley's a gunsilnger/Bo Diddley, senza peraltro proferire una sola parola o invitare ruffianamente il pubblico a banali singalong, "limitandosi" ad infilare una serie di straripanti versioni delle sue canzoni, tra le quali Excitable boy, Werevolfes of London (forse il suo più noto successo) Lawyers, guns and money, Poor poor pitiful me, I'll sleep when I'm dead e quella Jeannie needs a shooter scritta a quattro mani con Springsteen e dai lui recentemente pubblicata su Letter to you  in una versione diversissima, e , a parere di chi scrive, minore, di questa. Nel corso dell'esibizione Warren si diverte anche a cambiare parte dei testi, infilando nelle liriche i nomi degli amici Jackson Brown (che l'ha scoperto e lanciato) e James Taylor.

Una volta tanto i quattro brani aggiunti per la versione in CD non risultano in alcun modo superflui o ininfluenti, dato che ampliano lo spettro della cifra stilistica dell'artista, in particolar modo attraverso una Frank and Jesse James suonata in parte con il solo accompagnamento di un piano in stile ragtime e, soprattutto, con la conclusiva e drammatica Hasten down the wind cui fa finalmente prologo un'introduzione parlata nella quale Warren lascia emergere, non senza ironia, i periodi più oscuri della sua esistenza.

Dopo l'anno di grazia 1980 sembrava che le porte del successo si fossero ormai spalancate, per Warren Zevon. Purtroppo così non sarà. Zevon non sbaglierà mai un disco (ne usciranno altri otto, fino al fatale 2003), ma resterà un artista molto più amato dai "colleghi" e amici (suoi fan dichiarati, oltre ai già citati Brown e Taylor, Linda Ronstadt; Willy De Ville; Bruce Springsteen; Ry Cooder; Don Henley; Dwight Yoakam; Billy Bob Thornton ) che dalla grande massa del pubblico. 

Incredibile da credere, ascoltando la musica superlativa contenuta in Stand in the fire.

giovedì 10 dicembre 2020

Tokyo tribe (2014)


In una Tokyo distopica, folle e anarchica, il sadico gangster Buppa, cannibale capo del quartiere chiamato Buppa Town, intende estendere il suo dominio a tutta la città, e per questo si prepara alla guerra con le gang degli altri blocks. Non sa però che in uno dei raid messi in atto dai suoi sgherri è stata catturata, allo scopo di trasformarla in un'ennesima schiava sessuale,  una ragazza di nome Sumni, figlia in incognito di un potente e temuto sacerdote che la vuole indietro non per amore paterno, ma per sacrificarla in dono a qualche dio. Sumni è suonata alla grande, ma tutt'altro che remissiva, con l'aiuto di un ragazzino dei sobborghi e di Kay, capo della Musashinokuni, la gang meno belligerante e dedita a diffondere pace e amore, cerca di sfuggire dal padre sacerdote e da Buppa Town. In tutto ciò Merra, il braccio destro di di Buppa (che avrebbe anche un figlio ancora più crudele di lui, che usa le persone vive come oggetti di arredamento) vuole Kay morto per un motivo sconosciuto allo stesso Kay e che verrà svelato nell'incredibile finale.

Il rap non è esattamente il mio campo da gioco e sono piuttosto allergico ai musical. Ciònonostante (come direbbero gli Elii dei bei tempi) sono letteralmente impazzito per questo film, nel quale si rappa in misura enormemente maggiore di quanto si usino i dialoghi.

Tokyo tribe (tratto dal manga Tokyo tribes) è infatti qualcosa di mai visto prima, il regista Sion Sono mette in scena una specie di coloratissima versione cyberpunk de I guerrieri della notte, o se preferite una West Side Story sotto acido, lungo le strade di una Tokyo distopica e senza regole, se non quella del più forte, i cui quartieri sono sotto il dominio ognuno di una diversa gang. Ci vuole una "mano" registica non banale a tenere assieme un putiferio anarchico di questa portata, ma Sion Sono dimostra immediatamente di avere tutto sotto controllo attraverso l'incantevole piano sequenza che apre il film e che muove dai tetti delle catapecchie fino alla strada, tra decine di personaggi che si accalcano e si scontrano. Attraverso un moderno cantastorie, un rapper/DJ che lega assieme le varie vicende, il plot scorre di evento in evento fino allo showdown, tra più d'una citazione cinematografica (la più gustosa ruota attorno a Kill Bill e Bruce Lee). 

Un film che definire sorprendente è poco. Un'opera geniale, lisergica, zeppa di ironia, violenza, sesso, ma anche di amore, fratellanza e sottotesti politici (le guerre non si fanno forse tutte per dimostrare di avercelo più lungo?).

 Visionario e imperdibile.

giovedì 3 dicembre 2020

Fulci for Fake (2019)

Mentre ci si approssima ai venticinque anni dalla morte (avvenuta nella pressochè totale indifferenza il 13 marzo 1996), non si arresta la riscoperta e la rivalutazione, iniziata ormai diverso tempo fa, di Lucio Fulci. Il regista Simone Scafidi (classe 1978), fan della prima ora del cineasta romano, realizza un progetto a lungo accarezzato girando un docu-film che, omaggiando nel titolo F for Fake di Orson Welles, si propone di raccontare vita e opere di colui che si autodefinì terrorista dei generi.

Scafidi ricorre ad un espediente interessante, quello cioè di agire attraverso voce, pensiero e presenza di un attore (l'ottimo Nicola Nocella) che, dovendosi preparare a recitare nel ruolo di protagonista in un ipotetico biopic su Fulci, per entrare nel personaggio decide di indagare sulla vita del regista attraverso una serie di interviste a chi l'ha conosciuto e "vissuto", a partire dalla figlia Camilla, la cui sfortunata esistenza è stata segnata da gravi incidenti e terribili malattie, deceduta poco dopo la realizzazione proprio di questo docu-film.

Posto che siamo al cospetto di un'opera interessante, coraggiosa e per certi versi necessaria e definitiva, sulla figura di Lucio Fulci, una produzione insomma che tutti i fan del maestro non si saranno sicuramente fatti scappare (quella dell'immagine ad accompagnamento del post è la mia copia in blu ray) devo qui confessare una parziale delusione, forse condizionata dalle aspettative elevate che nutrivo per questo progetto. Intendiamoci: per chi non conosce Fulci quest'opera rappresenta un'indispensabile ed illuminante viatico per entrare nel mondo fulciano, nei suoi lavori trasversali ai generi, nella sua maestria tecnica, nella sua capacità di creare frittate gourmet persino senza uova. Il problema semmai si pone per quelli (e col tempo sono diventati tanti) che del maestro sanno già molto. Ecco, per tutte queste persone Fulci for fake aggiunge poco alle informazioni già note sul regista romano, sul suo carattere burbero che sfociava a volte nel sadismo, soprattutto nei confronti di alcune attrici, sulle tante disgrazie che hanno flagellato la sua vita, sull'ostracismo di molta parte della critica, soprattutto quella di sinistra (a lui, che si riconosceva proprio in quella parte politica!) e sulla beffa finale che subì, quando, in quelli che saranno i suoi ultimi giorni di vita sembrava che la sua carriera potesse finalmente essere celebrata e rilanciata (attraverso un progetto con Dario Argento). 

Manca insomma quel taglio di luce inedito, quell'angolazione nuova, quel personaggio chiave capace di rivelare aspetti fin qui sconosciuti dell'uomo Fulci. L'operazione insomma che ha fatto di S for Stanley, grazie al contributo di un testimone come Emilio D'Alessandro, un lavoro straordinario, non riesce appieno con F for Fulci, nonostante gli interessanti contributi dei diversi intervistati (Camilla Fulci su tutti, ma anche l'altra figlia Antonella; il compositore Fabio Frizzi; il suo più fedele direttore della fotografia Sergio Salvati; Enrico Vanzina; Michele Soavi; il primo biografo Michele Romagnoli e lo stesso Simone Scafidi). 

Detto ciò, restano immutati stima e ringraziamento a Scafidi per essere riuscito a portare a compimento questo progetto, la cui visione resta, al netto delle mie dissertazioni da fanboy, fortemente caldeggiata.

lunedì 30 novembre 2020

Ritmo Tribale, La rivoluzione del giorno prima


Con il vecchio frontman Edda ormai definitivamente impegnato nella propria carriera solista, tornano i milanesi Ritmo Tribale, a più di vent'anni dall'ultima uscita discografica (Bahamas, 1999), quando ormai non li aspettavamo più.

E sarà che pubblicare un disco dopo così tanto tempo e giunti ad una certa età può aver levato dalle spalle dei Tribali ansia da prestazione e paura di toppare, ma La rivoluzione del giorno prima riesce ad essere un vero e proprio ritorno a quella stagione forse irripetibile per il rock indipendente italiano, gli anni novanta, senza mai risultare derivativo o auto-celebrativo. Forse perchè i RT, di quella stagione, non recitarono il ruolo di comparse ma di protagonisti.

Provocatoriamente l'album si apre con una intro che avvolge ancora di più all'indietro il nastro del tempo, esattamente a cinquant'anni fa (quando i giovani la rivoluzione volevano farla veramente) e ad uno dei capolavori di Elio Petri, quel Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di cui viene riportato il monologo reazionario di un maestoso Gian Maria Volontè (spero il film sia patrimonio comune, in caso contrario potete guardare qui la sequenza, al minuto 03:25). Poi si parte davvero, con la combo Le cose succedono e la title track, due pezzi che mettono subito in chiaro la situazione, la band non è tornata per finta, l'urgenza comunicativa è intatta, le canzoni trascinanti.

Ovvio, il chitarrista e, dopo l'abbandono di Edda, cantante Scaglia ha una performance vocale diversa da Edda, tuttavia, ascolto dopo ascolto, si entra in sintonia con il suo stile e la sua personalità, a volte debitrice a Manuel Agnelli altre a Giovanni Lindo Ferretti (come nel caso di Resurrezione show, sebbene sia una cover di The death and resurrection show dei Killing Joke), ma dalla cifra complessiva coerente con il mood musicale proposto. Milano muori è l'omaggio corrosivo alla città che ha fatto da palcoscenico all'attività dei Ritmo Tribale, mentre Jim Jarmush, tra White riot dei Clash e Sui giovani d'oggi ci scatarro su degli Afterhours, il punkettone con il ritornello più azzeccato e condiviso degli ultimi anni ("voglio i capelli di Jim Jarmush/voglio i capelli di Jim"), soprattutto per tutti quelli con problemi di alopecia più o meno gravi. Chiude questo viaggio da otto tracce (più l'intro) per una quarantina minuti di durata Buonanotte, un pezzo riproposto dalla band oltre venticinque anni dopo la sua prima apparizione su Mantra. Il tempo l'ha trasformato da un indie-rock tirato e incazzoso in una ballata suggestiva ed delicata. 

Non ha invece scalfito, il tempo, la cazzimma dei Ritmo Tribale, nuovi sotto molti aspetti, ma riconoscibilissimi per classe e tiro. La domanda è: sono tornati per restare?

giovedì 26 novembre 2020

The Boys, stagione due


Dopo la folgorazione della prima stagione di The Boys, devo ammettere che attendevo con una certa curiosità il prosieguo delle avventure di Billy Butcher e soci, minuscoli Davide contro il gigante Golia della Vaught e dei suoi "super", The Seven.

Com'è andata? Beh, onestamente così così. L'elemento di maggiore delusione è stato l'ammorbidimento del gruppo dei buoni che, assecondando il trend canonico della serialità, è passato da comportamenti border-line, cinici e spigolosi a pattern più di prassi che prevedono sentimento, razionalità e precisi codici eroistici. Insomma si è persa un pò di imprevedibilità, puntando decisamente sulla fidelizzazione dello spettatore nei confronti dei characters. Per fortuna ci sono i villain, che nel mondo di The Boys sarebbero poi anche i super-eroi, i buoni. Quelli fortunatamente non hanno smarrito carica reazionaria e strafottenza (in questo Homelander/Antony Starr, episodio dopo episodio, è insuperabile, fino alla sequenza finale della masturbazione sulla cima di un grattacielo, con cumshot sulla città) garantendo piena continuità con la prima stagione. Tra i nuovi arrivi molto efficace l'inserimento nei Sette di Stormfront (interpretata da Aya Cash), che in quanto a sadismo ed "evil agenda" si staglia per distacco su tutti. Altra gradita new entry è quella del nuovo CEO della Vaught, Stan Edgar, interpretato da Giovanni Esposito.

Positive sono anche le varie letture di sottotesto inerenti la modalità di gestione dei leaks (compound V) delle multinazionali, il tema delle fake news e della manipolazione della verità attraverso meme, hashtag e social, qualche gustosa stilettata ai cine-comics e ai loro autori nerd ed infine, attraverso il fato di The Deep e di A-Train,  il subdolo ruolo delle sette religiose simil Scientology.

Devo poi esprimere tutta la mia gratitudine per la scelta della colonna sonora, vista la conferma dell'"endorsement" con Billy Joel, artista che adoro e che canto allo sfinimento, protagonista assoluto del commento musicale nonostante l'utilizzo di pezzi minori del suo fantastico repertorio, quali Pressure (utilizzato in maniera esaltante sulle prime sequenze dell'episodio 2X1); Only Human (Second wind) (per il quale si è addirittura recuperato il francamente inguardabile video ottantiano), un divertente sing-along di Hughie e Starlight su We didn't start the fire, fino alla conclusiva ed inevitabile, Only the good die young.

Tornando alla storia, registro la non banale decisione degli sceneggiatori di chiudere tutti i plot aperti nella prima stagione, concludendo sostanzialmente senza cliffhanger la seconda, sganciando così i telespettatori dall' "obbligo" di proseguire la visione per giungere al termine del plot. Una scelta magari dettata dall'incertezza sulla prosecuzione della serie (comunque la terza stagione pare proprio si faccia), ma che, da disintossicato dalla serialità industriale, ho molto apprezzato.

lunedì 23 novembre 2020

Thundermother, Heat wave



Attiva da una decina d'anni, ma fresca di un robusto rimpasto di line-up, la all-female band svedese delle Thundermother (basso, chitarra, batteria, voce) arriva con Heat wave al quarto lavoro di studio.
La ascolto per la prima volta e quindi nulla posso dire sulle loro origini e sulla (eventuale) evoluzione stilistica sviluppata, quindi mi limito a riportare le mie impressioni, che sono quelle di trovarmi al cospetto di un robusto rock/arena-rock con rimandi ai gloriosi anni settanta/ottanta e al revival per un certo tipo di sonorità. Quali sonorità? 
Beh, volendo rimanere nel benchmark del rock al femminile i collegamenti sono doverosi: le Heart del periodo Mutt Lange, le Runaways, Joan Jett (Back in '76 fa scopa con I love rock and roll) pur senza farsi mancare episodi più tosti, che richiamano, nel bersaglio piccolo Danko Jones, e in quello grande gli immancabili AC/DC.
Uno ascolta un disco così e pensa, si carino, ma tutta roba derivativa e già ascoltata. 
Vero. Ma posto che questo discorso varrebbe per il novanta per cento del rock (e del metal) che gira oggi, o, perlomeno, che gira sui miei devices, c'è da puntualizzare come elaborare pezzi dal grande impatto anthemico quali Dog from hell; Back in '76; Into the mud (tra i Motorhead e i Motley Crue, se posso osare); la title track o Mexico (con tributo iniziale agli ZZTOP), beh, non è proprio roba che si compra tutti i giorni dal pizzicarolo.
E poi le ragazze appaiono genuine e non artefatte, che, di questi tempi in cui le major spingono il metal al femminile, non è elemento scontato.

giovedì 19 novembre 2020

S is for Stanley (2016)


Quello che rende significativo un documentario su un personaggio già ampiamente coperto da innumerevoli operazioni analoghe è trovare una chiave di lettura che dica a fan e curiosi qualcosa di diverso, di inedito sul personaggio in questione.

E se è vero che i contributi di approfondimento sulla vita e le opere di Stanley Kubrick non si contano, è altrettanto vero che con S is for Stanley il cineasta italiano Alex Infascelli ha trovato una nuova e sorprendente luce per inquadrarlo. Questa luce si chiama Emilio D'Alessandro, ed è stato l'autista e il tuttofare del Maestro per qualcosa come un quarto di secolo (suddiviso in due periodi), a partire dal 1971 e dalla lavorazione di Arancia meccanica.

Il documentario è tratto dall'autobiografia di D'Alessandro (Stanley Kubrick e me), e narra due vite in parallelo, quella di Kubrick, ovviamente, ma anche quella, non meno avventurosa di Emilio. E se l'interesse iniziale è tutto spostato verso uno dei più importanti registi di tutti i tempi, nel corso della visione lo stesso si sposta verso questo pacato immigrato laziale con il sogno di diventare pilota professionista riciclatosi per una casualità nella persona a cui Stanley affidava le incombenze quotidiane a cui teneva maggiormente.

D'Alessandro racconta (in inglese, probabilmente per una maggiore vendibilità del prodotto nei mercati stranieri, ma forse anche perchè dopo tanti anni vissuti in Inghilterra gli viene naturale) delle tante manie e delle vere e proprie fissazioni del regista, che emergono grazie agli innumerevoli bigliettini che Kubrick lasciava al suo tuttofare (conservati da Emilio e letti in maniera incantevole dal doppiatore Roberto Pedicini, storica ed inconfondibile "voce" di Kevin Spacey), del suo sconfinato amore per ogni vita animale e del suo modo tutto particolare di dimostrare affetto. Come nella fase finale della sua vita, quando, al colmo della gioia per il ritorno di Emilio (tornato al suo paese, Cassino, per alcuni anni), ha voluto regalare a lui e alla moglie due affettuosi cameo nella sua opera finale, Eyes wide shut.

Insomma un documentario riuscitissimo ed emozionante, una testimonianza affettuosa ed incantevole, non solo per i fans di Kubrick.


S is for Stanley è disponibile su Rai Play


lunedì 16 novembre 2020

Justin Townes Earle, The saint of lost causes . Ricordando Justin Townes (1982/2020)


Milano, Rolling Stone, anno 1998. Steve Earle suona con i suoi Dukes nell'ambito del tour dell'album El corazon. Il concerto è coinvolgente, Steve che l'aveva iniziato (come d'abitudine) diffidente ed imbronciato, si è progressivamente sbloccato, dando vita ad una performance memorabile. Sui bis presenta uno speciale chitarrista aggiunto, suo figlio adolescente Justin Townes che, visibilmente felice, emozionato ed anche discretamente impacciato, si produce in un breve assolo. A vederli dal pubblico davano la percezione di un'idilliaca rappresentazione del rapporto recuperato tra un padre problematico (droga, arresti, violenze) e il proprio figlio. 

Quando ripenso a Justin Townes Earle, nonostante nel tempo sia riuscito a ritagliarsi un proprio importante spazio nella musica, è spesso questa l'immagine che mi torna in mente (col beneficio di un dubbio, non sono certo che l'episodio sia avvenuto nel tour di El corazon o invece in quello di Trascendental blues, tre anni dopo, visto che entrambi gli show si svolsero al compianto Rolling Stone ed è passato del tempo). A giudicare da come, nella sua carriera a venire, Justin Townes abbia continuamente tentato di elaborare "il lutto" dell'assenza paterna, si deve essere trattato di una delle poche eccezioni di gioia nel rapporto col genitore. Ma che JT fosse destinato ad una vita di talento e di sofferenze, per chi crede nel destino di un nome (nonchè nella genetica), era forse già scritto proprio nel nome che il padre scelse per lui, quel Townes (Van Zandt) suo maestro di arte e, purtroppo, di dipendenze (anche lui morto prematuramente a causa degli abusi da sostanze stupefacenti), oltre che dalle sue stesse abitudini , praticate almeno fino alla metà degli anni novanta.

L'adolescente felice che saltellava sul palco imbracciando la sua Fender, da lì a poco avrebbe lasciato il posto ad un uomo che non ha avuto paura di mostrare cicatrici e rancore attraverso la sua arte, anche in maniera esplicita, fino alla pubblicazione di due album "gemelli" usciti a pochi mesi di distanza tra il 2014 e il 2015, ed intitolati, quasi a voler dire: "non serve nemmeno che li ascoltiate, il messaggio è nel titolo": Single mothers e Absent fathers.

Devo essere onesto, a parte l'elemento curiosità di ascoltare la proposta del figlio di uno dei miei eroi musicali, non ho mai "coperto" la carriera musicale di JT, limitandomi a dedicargli giusto una recensione, in occasione dell'uscita del suo disco del 2012 (qui) più una playlist monografica l'anno successivo. Lo stile che si era ritagliato Earle jr, comprendente old time music, folk, ballate, country e blues (molto in analogia con l'ultima parte della carriera del padre), coniugato a liriche spesso malinconiche e suggestive, era certamente interessante e rientrava appieno nella mia tazza di tè, pur tuttavia senza riuscire, per quanto mi riguarda, a stagliarsi con personalità sulla folta concorrenza.

Non di meno, per ragioni che forse non sarei in grado di spiegare, la sua prematura morte mi ha colpito.

Questa recensione è quindi, in parte, solo una scusa per parlare di un (altro) artista che non è sopravvissuto ai suoi demoni, facendosi probabilmente (la causa di morte non è stata definita, anche se si sospetta un overdose) sopraffare da quello che assumeva per alleviare il dolore. 

Quando è stato trovato morto nella sua abitazione di Nashville, il 20 agosto scorso, Justin Townes aveva 38 anni. Un anno prima aveva rilasciato l'ottavo disco (in dodici anni) della sua produzione, a detta di molti recensori, il suo migliore. A riascoltarlo oggi è facile cadere nella trappola di individuare indizi che potessero condurre al suo "desiderio di morte", tuttavia, più verosimilmente, al netto di una copertina davvero premonitrice, l'album non è altro che la continuazione, in musica e versi, della sua arte, contraddistinta da una folta coltre di malinconia.

E' un personaggio da noir anni quaranta, il primo che emerge dalla title track, deputata all'apertura del disco, certamente uno dei pezzi più struggenti dell'intera tracklist, splendido nell'inquadrare un protagonista indurito e reso cinico dalla vita ("First you get bad/ Then you get mean / Then there's nothing else but grow cold / And prey the saint of lost causes"). Un personaggio insomma che avrebbe fatto un figurone su Darkness on the edge of town di Springsteen, ma anche su The hard way, del babbo. 

Il disco (che sfiora l'ora di durata) è ben assemblato dentro l'alternanza dei pezzi, assecondando un'amalgama che lo fa scorrere in maniera coerente. Se non mancano i brani introspettivi (oltre alla citata title track dico Morning in Memphis; Frightened by the sound; Over Alameda), JT non fa mancare nemmeno il divertimento, con due irresistibili tracce di revival rock che farebbero la felicità di Wayne Hancock (Flint City shake it e Pacific Northwestern blues); un vivace folk rurale su liriche ecologiste (Don't drink the water); un languido bluesettone (Appalachian night) e un punk-folk da perfetto busker (Ain't got no money). 

Un album insomma che ben rappresenta la summa stilistica di un artista. Difficile poi mantenere la giusta distanza critica ed evitare di cadere in meste riflessioni da senno del poi quando le ultime strofe che Justin Townes Earle ha lasciato al pubblico, in coda all'ultimo brano della tracklist del suo ultimo disco (Talking to myself) sono: "I just can't remeber when / All the drugs begin to fail me / Left me only with a lonely child to fend / Cause I tried to love and I failed / I've put my heart on a shelf / These are things I say only when I talk to myself / These are things I say only when I talk to myself". 

giovedì 12 novembre 2020

Forgotten


Una famiglia, padre, madre e due figli maschi adulti, apparentemente felice, sta viaggiando in auto verso la propria nuova casa. Jin-seok, il più piccolo dei due figli, si sveglia di soprassalto da un incubo, ma viene subito rasserenato dalla madre, seduta accanto a lui. Jin-seok vive nel mito del fratello maggiore, che, nonostante un incidente gli abbia messo fuori uso una gamba, è un autentico fuoriclasse in ogni campo e disciplina. La famiglia arriva alla nuova, bellissima abitazione, e Jin-seok viene avvisato dai genitori del divieto di entrare in una stanza dove il precedente proprietario ha lasciato effetti personali che recupererà in un secondo momento. Quella stanza provocherà in Jin-seok incubi ricorrenti.

Film sul quale ci sarebbe da dire il meno possibile, come ho tentato di fare nella sinossi, per godersi colpi di scena, tensione e una sceneggiatura ad orologeria che ne accompagna la visione. Scritto e girato da Jang Hang-jun, Forgotten è un film di vendetta (sotto-genere che torna spesso nel cinema asiatico) originale ed avvincente, nel quale lo spettatore, già dai primi istanti di visione, come in un viaggio onirico, capisce che quello a cui sta assistendo non torna, ma, anche il cinefilo più agguerrito, che con l'inarrivabile Old Boy di Park Chan-wook pensa di averle viste tutte, deve attendere il terzo atto della pellicola perchè l'intreccio riveli tutti i suoi diabolici ingranaggi. 

Non mi stanco di ripeterlo e forse i lettori del blog si sono stufati di leggerlo, a conferma del momento di superiorità del cinema di quelle latitudini (Corea del Sud, in questo caso), la prova attoriale collettiva è maiuscola, così come tutto il comparto tecnico: regia, fotografia, montaggio, commento sonoro. Nonostante la tensione e l'angoscia guidino la visione della storia, nemmeno in questo caso il regista dimentica il passaggio di denuncia sociale, citando la terribile crisi finanziaria che ha sconvolto quella regione del mondo nel 1997, gettando nella povertà milioni di persone (consiglio il l'efficace film di denuncia coreano Default, con Vincent Cassel, del 2018).

Anche questo è un film da non perdere, a patto di essere consapevoli di correre il rischio di entrare nella dipendenza da film asiatici, come è successo, ormai da tempo, a me.

P.S. Forgotten è disponibile su Netflix

lunedì 9 novembre 2020

Hellbound glory, Pure scum

Dietro un oltraggioso titolo da punk rock (non a caso gli Hellbound Glory dichiarano tra le loro influenze, oltre ai "doverosi" Hank Williams Sr e Jr, i Nirvana) torna, a tre anni dal precedente Pinball, la band di Leroy Virgil, una delle migliori e più sottovalutate (forse per la loro provenienza, che non è il Tennessee e nemmeno il Texas, ma il più marginale Nevada) formazioni country USA.

Pure scum, il sesto disco in dodici anni di carriera è il "solito" gioiellino di roots country dalle melodie irresistibili che sovente si intrecciano con testi fortemente debitori all'outlaw, infarciti come sono di temi legati ad esistenze alla deriva, abuso di droghe e quotidiana disperazione. Le carte sono subito messe in tavola con l'opener Ragged but alright, midtempo trascinante che potrebbe diventare la risposta di chiunque di noi alla domanda "come va?" formulata in questi tempi bastardi. Un disco con queste caratteristiche, concedetemelo, non può che raccordarsi vistosamente anche al terzo grado della stirpe hankwilliamsiana, cioè quel Hank III, perso da sette anni in chissà quali abissi esistenziali, che viene evocato nell'attacco di violini di Loose slots, così come nelle liriche di Dial 911 (dal pattern che più classico non si può). 

Il disco è ottimo, qualunque amante del pure country sono certo non se lo sarà fatto sfuggire. Visto che sugli Hellbound Glory ci ha puntato forte Shooter Jennings, qui alla sua seconda volta da produttore, speriamo questa grande band raggiunga la visibilità che merita.

giovedì 5 novembre 2020

MFT, settembre & ottobre 2020

ASCOLTI

Hellbound Glory, Pure scum
Justin Townes Earle, The saint of lost causes
Fontaines D.C., A hero's death
Sturgill Simpson, Cuttin' grass
Kyle Nix, Lightning on the mountain & others short stories
Enslaved, Utgard
Protest the hero, Palimpsest
Raven, Metal city
Dead Lord, Surrender
Armored Saint, Punching the sky
Benediction, Scriptures
Incantation, Sect of vile divinities
Faster Pussycat, ST
Bruce Springsteen, Letter to you
Carlos Vives, Cumbiana
Raul Malo, The Mavericks en espanol
Ritmo Tribale, La rivoluzione del giorno prima
Eels, Earth to Dora
Elvis Costello, Hey, clockface
Rev. Greg Spradlin & The Band of  Imperials, Hi-Watter


VISIONI

Zero Dark Thirty
(3,5/5)
Outrage (3,75/5)
Mission Impossible - Fallout (2,75/5)
La notte ha divorato il mondo (3,75/5)
Genitori quasi perfetti (3/5)
Unit 7 (3,5/5)
Dolor y gloria (3/5)
Fraulen (2,5/5)
The Outsider (2018) (3,25/5)
La sindrome di Stoccolma (3,5/5)
A beautiful day (2017) (3,5/5)
The host (3,75/5)
The chaser (4/5)
Bianca (3,5/5)
L'ufficiale e la spia (3,75/5)
Matinee (3/5)
The Zero Theorem (3,5/5)
Solo gli amanti sopravvivono (4/5)
Pusher II - Sangue sulle mie mani (3,5/5)
The rhythm section (2/5)
Memories of murder (3,75/5)
Paul, Mick e gli altri (3,75/5)
Message from the king (2,5/5)
Georgetown (3/5)
Moon (3,75/5)
Diamanti grezzi (4/5)
Immortals (3,75/5)
Hit - La vendetta (3,25/5)
Cristian e Palletta contro tutti (2/5)
JoJo Rabbit (3,5/5)
Clockers (4/5)
Anon (3,75/4)
7 psicopatici (3,75/5)
Fino all'inferno (D'Antona)  (3/5)
A mano disarmata (2,5/5)
Un figlio di nome Erasmus (2/5)
Tre colori: Film blu (3,75/5)
Brightburn - L'angelo del male (3/5)
Postcards killings - Cartoline di morte (2,5/5)
Forgotten (4/5)
Gamberetti per tutti (2,5/5)
Palm Springs - Vivi come se non ci fosse un domani (3/5)
Fulci for fake (3/5)
DjangoUnchained (3,75/5)
Frank Costello faccia d'angelo (3,75/5)
S for Stanley (4/5)
Kill zone - Ai confini della giustizia (3,75/5)
Lenny (4/5)
Sono solo fantasmi (1,5/5)
Bronson (3,75/5)



Visioni seriali

The Boys, 2 (3/5)
Perry Mason (2020) (3,5/5)



lunedì 2 novembre 2020

Karen Souza, Essentials (2011)/ Essentials II (2014)

Argentina di La Pampa, Karen Souza inizia la sua carriera nel music business prestando la propria voce a composizioni di musica elettronica, per poi esordire a proprio nome nel 2011 attraverso uno smooth jazz elegante e mainstream, e con il primo di quelli che saranno due album di cover, Essentials.

Mi sono imbattuto in lei grazie alla cover, particolarmente suggestiva, di Creep dei Radiohead, posta sui titoli di coda dell'ottimo The zero theorem di Terry Gilliam, e da lì ho voluto approfondire, concentrandomi su questi due dischi di reinterpretazioni ed ignorando invece i tre di inediti che fanno da corredo agli ultimi dieci anni di produzione della Souza.

Come spesso accade in operazioni analoghe a questa, nelle due tracklist convivono rivisitazioni efficaci, che donano nuova linfa a pezzi noti, assieme ad altre più fiacche e prevedibili, che configurerei sotto la definizione di musica per ascensori. Nella prima categoria, oltre alla già citata Creep, troviamo una sorprendente e confacente (alle liriche) versione di Do you really want to hurt me? dei Culture Club, nonchè una New Year's day degli U2 offerta in una evocativa versione da night club e una convincente doppietta blues pescata da due artisti agli antipodi: Ian Dury (Wake up and make love to me) e Creedence Clearwater Revival (Have you ever seen the rain).

I miei personalissimi highlights del secondo volume partono invece dalla felice intuizione di reinterpretare un pezzo, Skin trade dei Duran Duran, che adoro, come tutto l'album nel quale era contenuto (Notorius), seguito da The sound of violence del duo elettronico francese Cassius e da Everyday is like sunday, di Morrisey.

Consapevole che la curiosità derivante da queste operazioni si sfoga nell'andare ad ascoltare le versioni proposte di pezzi altrui (e spesso lì si esaurisce), mi sono limitato a citare i brani che mi hanno maggiormente colpito, lasciandovi il piacere di scoprire gli altri, che coprono in maniera trasversale il pop-rock prendendo in prestito il repertorio di artisti quali Bruce Hornsby,Beatles, Fleetwood Mac, Soft Cell, Police, Michael Jackson, Elvis Presley, REM, INXS e, ovviamente, Depeche Mode (da qualche anno a questa parte sembra impossibile proporre un disco di cover, a prescindere dal genere, senza di loro).




lunedì 26 ottobre 2020

Deep Purple, Whoosh

Illustrato da una copertina davvero suggestiva e "vinilica", è approdato ormai da qualche mese nei negozi il ventunesimo album dei Deep Purple, il quinto rilasciato dalla formazione Mark VIII (Gillan; Glover; Paice; Morse e Airey) che si fregia di una media d'età di settantadue anni (media abbassata da Steve Morse, unico nato nei cinquanta, a differenza dei sodali, tutti nei quaranta). Un nuovo disco quindi, a tre anni di distanza dal precedente InFinite. Ogni volta sembra si tratti dell'opera conclusiva di una carriera meravigliosa, iniziata nel 1968 (unico superstite il batterista Ian Paice), e ogni volta questi attempati musicisti ci spiazzano con altri pezzi inediti, soprattutto in questo ultimo decennio, dove i purples sembrano aver trovato nuova coesione e giovinezza.

Questo Whoosh (abbinate la parola onomatopeica alla copertina, con l'uomo che si dissolve, ed avrete il senso del titolo) gira sostanzialmente col motore automatico, sulle solide basi tessute dalle chitarre di Steve Morse, dalle tastiere di Don Airey e dalla voce, che non sale più sulle tonalità di Speed King ma che si è fatta calda e rotonda, di Ian Gillan. Tutte e tredici le composizioni si muovono su velocità di crociera mid-tempo, e trasmettono, come dire, una sorta di saggezza musicale, veicolata da chi si prende tutto il tempo necessario per raccontare il proprio progetto. Qualitativamente il disco è forse un passo indietro rispetto a InFinite, la tracklist sembra spaccata in due con una prima parte (Throw my bones; Drop the weapon; We're all the same in the dark; Nothing at at all; What the what) che, pur in assenza del pezzo killer, si imprime in testa, e la seconda più anonima, anche se sempre di gran classe. Whoosh insomma si ascolta volentieri, ma sembra che manchi di qualcosa, dell'intuizione che fa la differenza, del cambio di marcia, della sorpresa nascosta tra i titoli che emerge col tempo.

La classe c'è, come scrivevo poco sopra, ma quando si tratta dei Deep Purple la si dà per scontata, e quindi non può bastare da sola per raggiungere l'eccellenza.

giovedì 22 ottobre 2020

Fino all'inferno (2018)


A causa di un debito d'onore contratto con il boss locale Vincent Costello, Rusty (Roberto D'Antona) e la sua banda di criminali devono mettere assieme una grossa somma economica per evitare che uno del gruppo, l'ingestibile cugino, venga ucciso per ritorsione. Rapina dopo rapina i tre si avvicinano alla cifra necessaria, fino a quando, a seguito di una sparatoria rocambolesca, si imbattono in una donna e in suo figlio adolescente, anche loro in fuga, ma da qualcosa di ben più terribile.

L'ho detto e lo ripeto fino allo sfinimento: chiunque in Italia abbia l'ardire di provare a rilanciare gli antichi fasti del cinema di genere, per quello che vale, ha il mio appoggio incondizionato. In questo caso poi si tratta di Roberto D'Antona, che questo progetto ce l'ha in mente da sempre, avendo diretto e interpretato anche una serie tv crime (The reaping), un horror (The wicked gift) e un fantasy (The last heroes), a dimostrazione di un'inesauribile passione per il cinema d'intrattenimento.

Nel caso di Fino all'inferno, action con sfumature horror e passaggi comedy, l'entusiasmo di D'Antona nel girare questo film a basso budget, chiaro omaggio ai classicissimi d'azione americani ed orientali degli anni ottanta (John McTiernan; Richard Donner; Mark L. Lester o John Woo, più che i citati Carpenter e Raimi), è totalmente contagioso e fa passare in secondo piano una recitazione simpaticamente amatoriale e dei dialoghi (volutamente?) scolastici, garantendo quasi due ore di divertimento fuori dagli schemi (italiani).

Spiace solo non essere riuscito a vederlo al cinema, per contribuire in maniera fattiva a sostenere questo nuovo cinema nostrano che tenta faticosamente di crescere. Sarà, spero, per la prossima pellicola di Roberto. Per il momento lo abbraccio forte e gli auguro una lunga e prosperosa carriera.


P.S. Fino all'inferno, così come The wicked gift e The reaping , è disponibile su Amazon Prime Video.

lunedì 19 ottobre 2020

Zakk Sabbath, Vertigo


Ricordate il remake del capolavoro (uno dei tanti) di Hitchcock, Psycho, rifatto da Gus Van Sant? Il regista indipendente decise di riconoscere un tributo ad uno dei più rilevanti maestri del cinema rifacendo "shot by shot" il suo celebre film.

Il chitarrista/cantante Zakk Wylde, fan dichiarato dei Black Sabbath e qualcosa come vent'anni assieme ad Ozzy Osbourne, ha deciso di fare qualcosa di simile, qualcosa non di totalmente irrituale, ma insomma nemmeno così frequente nel mondo rock. Assieme al basso di Blasko (anche lui in passato con Ozzy, oltre che con Rob Zombie) e alla batteria di Joey Castillo (tra gli altri Danzig e Queens Of The Stone Age), ha riproposto fedelmente l'epico debutto self titled dei Black Sabbath, il disco insomma, che, per convenzione, ha inventato l'heavy metal. La versione ricalcata dagli Zakk Sabbath è, ovviamente, quella uscita negli Stati Uniti, la cui tracklist diverge sia nella forma (cinque brani di cui due lunghi medley, invece di sette tracce) che nella sostanza (Wicked world sostituisce Evil womanda quella europea.

Il disco (pubblicato solo in formato fisico, per scelta filosofica della band) inizia con l'inconfondibile rumore di pioggia e tuoni dell'originale, e quando Zakk attacca la prima strofa "What is this that stands before me?" l'effetto copia/incolla, dovuto anche dal timbro vocale di Wylde, identico a quello di Osbourne, è totale. Ma, come Gus Van Sant nel suo remake aveva in realtà adottato delle soluzioni non praticabili ai tempi dell'uscita del film originale (lo zoom iniziale), così anche gli Zakk Sabbath, nello sviluppo del disco si fanno prendere la mano, in particolar modo nelle parti strumentali, fino ad arrivare al lungo medley della conclusiva traccia numero cinque (oltre quindici minuti), che racchiude A bit of finger, Sleeping village e Warning nel quale liberano l'esplosione di tutti gli stili del proprio bagaglio tecnico, con una sventagliata senza soluzione di continuità di hard-rock, doom, blues, folk e persino stoner. Un pezzone da far resuscitare i morti (a patto che in vita fossero amanti della buona musica).

Insomma, serviva questa operazione per conoscere la grandezza dei Black Sabbath o la tecnica mai fine a se stessa di Zakk Wylde? Certamente no, tuttavia raramente un disco si è rivelato così superfluo e al tempo stesso dannatamente entusiasmante, come Vertigo.

mercoledì 14 ottobre 2020

The chaser (2008)

 


Eom Joong-ho (Kim Joon-seok) una volta era un poliziotto, ma oggi svolge la "professione" di pappone e per giunta della peggior specie. Quando le sue donne cominciano a sparire una ad una la sua sola preoccupazione è che siano passate alla concorrenza, privandolo così della sua unica fonte di guadagno. Per questo, a corto di "risorse", obbliga la febbricitante prostituta Yeong-min, madre single di una bimba, a rispondere alla chiamata di un cliente. Quando si perderanno anche le sue tracce, progressivamente, Joong-ho si renderà conto che non sono i competitors la causa della sparizione delle ragazze ma un assassino seriale, nel quale si imbatterà per caso e con il quale, nel parziale disinteresse della polizia, intraprenderà una sfida disperata.

Questo di Na Hokg-jin (The yellow sea; Goksung) è uno dei più bei film di tensione con al centro un serial killer che mi sia capitato di vedere da moltissimo tempo. Convinzione la mia che è sostenuta da ogni aspetto che va a comporre l'opera, a partire dalle atmosfere, con la macchina da presa che si muove nei bassifondi di una Seul disperata, piovosa e notturna, che, sebbene rientrando appieno nel canone (il riferimento più evidente è a Seven), è qualcosa di incantevole. Il banalissimo vicolo che ospita le sequenze d'apertura e nel quale continua a tornare l'azione dei protagonisti acquisisce un significato quasi metafisico, come fosse una spirale, un luogo di espiazione dei peccati dell' (anti) eroe e del villain. 

Poi c'è lui, Joong-ho, l'ex poliziotto, che se il film fosse stato scritto da sceneggiatori americani avrebbe sicuramente previsto che  la macchia sul suo passato (l'espulsione dalla polizia) fosse nobilitata da motivazioni virtuose, probabilmente anti-sistema, mentre in un contesto orientale, nel quale bene e male non sono mai separati in maniera netta, il character è una vera chiavica di persona, espulso dalla polizia in quanto semplicemente corrotto. Per lui gli sceneggiatori non prevedono alcuna redenzione, ma solo sensi di colpa che si porterà dietro per sempre. 

Infine, dentro questa storia di prostitute che spariscono nel nulla non manca come di consueto nel cinema di genere asiatico la critica sociale alle istituzioni, infatti il riflettore è ben puntato anche sulle forze dell'ordine, troppo impegnate a sedare manifestazioni politiche contro il primo ministro e a difendersi dall'accusa di violenza per curarsi di dell'incolumità dei cittadini.

Il film vive di una tensione ormai rarissima di questi tempi, gioca coi luoghi comuni delle dinamiche dei thriller, insinuando uno sviluppo per poi ribaltarlo fino ad arrivare ad una conclusione durissima, carica di angoscia ed amarezza, in un tripudio di bravura per il cast principale (oltre a Kim Joon-seok, è strepitosa l'interpretazione dello psicopatico assassino fornita da Ha Jung-woo).

Imperdibile.

lunedì 12 ottobre 2020

Corey Taylor, CMFT


Quanto si sarà stufato degli Slipknot (e forse anche della side-band degli Stone Sour) Corey Taylor? Parecchio, a giudicare dal tempo che ormai passa tra un album e l'altro di ciascuna formazione e dal sound che permea il debutto solista, CMFT (Corey Mother Fucker Taylor?), completamente avulso dallo stile di quelle due band.

E, sebbene abbia un senso compiuto registrare un disco a proprio nome con sonorità che si affrancano da quelle di provenienza, davvero non si riesce a capire cosa abbia trovato Corey (o i suoi produttori) in una raccolta di canzoni come quelle qui contenute. Siamo infatti davanti perlopiù ad una tracklist di quello che una volta si sarebbe definito rock radiofonico e fin qui niente di male, se non si trattasse di materiale stucchevole e fuori tempo massimo persino per chi ha gusti vintage come il sottoscritto.

Sul serio, pezzi dal pattern totalmente prevedibile (HWY 666; Black eyes blue; Halfway down; Culture head), o ballate bollite (mi permetto l'allitterazione) come Home o Silverfish mettono quasi in imbarazzo, data la statura del personaggioHai voglia di ascoltare e riascoltare l'album alla ricerca della fulminazione: chest'è, come direbbero in Gomorra. Per trovare minimi motivi di interesse bisogna trascinarsi fino all'ultima parte della tracklist con la tirata Everybody dies on my bithday, l'hardcore di European tour bus bathroom song o la contaminazione col rap di CMFT must be stopped (featuring Tech N9ne e Kid Bookie). Anche qui tutto già ampiamente sentito, ma almeno ci si diverte un pò. Insomma, un disco che se fosse uscito a nome di un anonimo interprete non se lo sarebbe filato nessuno.

Peccato per Corey, che, senza mascheramenti, ispira istintiva simpatia, ma questo è proprio un lavoro talmente inutile che...boh!

giovedì 8 ottobre 2020

Perry Mason (2020)


Totalmente disinteressato ai reboot che ultimamente stanno affollando un asfittico e privo di idee panorama televisivo americano "generalista" (Magnum PI; MacGyver) avevo inizialmente sottovalutato il rilancio di un brand che ha fatto la storia della televisione quale è, oggettivamente, Perry Mason. Non considerando però in questo che la produzione era HBO, la "madre" di tutti i serial adulti. E infatti. 

Il Perry Mason 2020 non ha davvero niente a che vedere coi ricordi d'infanzia che abbiamo dello storico telefilm con Raymond Burr. Il protagonista di questa serie (interpretato da Matthew Rhys, volto poco noto nonostante le tante apparizioni tra cinema e tv) è un reduce della prima guerra mondiale (i fatti sono ambientati nel 1931) disilluso, arrabbiato, cinico e sempre pronto alla scorciatoia illegale per raggiungere i suoi scopi (quella conclusiva è davvero vigliacca, anche se a fin di bene). All'inizio della narrazione lo vediamo alla deriva, senza un soldo, con la fattoria di famiglia messa all'asta, indossare sempre gli stessi vestiti sporchi e stropicciati mentre svolge il mestiere di detective privato per conto delle major hollywoodiane in cerca di scandali che coinvolgano i propri attori, allo scopo di avere elementi sufficienti a non onorare i contratti di lavoro. Mason è inoltre divorziato, con moglie e figlio lontani, ed è ancora angosciato dalle azioni che ha dovuto compiere in guerra, oggi si direbbe che soffre di disturbo da stress post-traumatico. L'occasione per emergere da questa situazione senza speranza gli arriverà da E.B. Jonathan (un incantevole John Lithgow), anziano avvocato e amico di vecchia data che ha assunto l'incarico del rapimento con omicidio di un neonato.

Sullo sfondo un'America agli ultimi spasmi del proibizionismo in cui tutti nascondono una fiaschetta di whiskey nella giacca e due problemi grandi come un elefante in salotto, ma che nessuno vuol vedere: la corruzione della LAPD e la questione razziale.

Come si usa nelle produzioni moderne, gli sceneggiatori si tengono rigorosamente nel solco del politically correct e della equa distribuzione dei ruoli delle (termine improprio) "minoranze", infatti nei ruoli storici del fidato detective di Mason, Paul Drake (bianco) troviamo il nero Chris Chalk (12 anni schiavo; Detroit), mentre la storica segretaria Della (interpretata da Juliet Rylance, già vista in Sinister; The knick e McMafia) nonchè il procuratore Hamilton Burger (Justin Kirk, di recente in Molly's game e Vice - L'uomo nell'ombra) sono entrambi omosessuali. Anche l'aspetto femminista della storia è molto caratterizzato, grazie alle storylines proprio di Della, di Sorella Alice (Tatiana Maslany), della vittima/imputata Emily (Gayle Rankin) e di Lupe Gibbs (Veronica Falcòn) l'amante messicana di Perry.

La serie è senza dubbio avvincente, e i personaggi tutti molto ben costruiti, sia nelle caratteristiche caratteriali che nella scelta degli attori (va assolutamente citato anche l'amico di Perry Mason ed investigatore Pete Strickland, interpretato dal notissimo caratterista Shea Wigham), c'è la decadenza, c'è il sottofondo jazz, c'è il sesso e la violenza. Come dicevo, del Perry Mason storico non resta praticamente nulla, nemmeno le famosissime arringhe che facevano crollare i colpevoli sul banco dei testimoni, marchio di fabbrica e momento più atteso del vecchio telefilm. Nel Perry Mason 2020 brandizzato HBO anche questo feticcio viene strappato alla tradizione, perchè, come gli sceneggiatori fanno affermare al procuratore Burger: "nella realtà nessuno confessa alla sbarra". 

E così il delitto perfetto, quello di resuscitare un'icona televisiva uccidendone il ricordo, è compiuto. Un altro punto segnato dalla HBO.

lunedì 5 ottobre 2020

It's never too late to mend (un disco del passato mai ascoltato prima): Enuff Z'Nuff, Strenght (1991)


Nuova rubrichetta che, come sempre ricordo quando ne inauguro una, potrebbe terminare oggi stesso o trascinarsi nel tempo. La premessa è che ci sono una montagna di dischi del passato che, per ragioni diverse, non ho mai ascoltato. Ragion per cui mi approccio a loro e alla relativa recensione con orecchie vergini e spirito libero.

Gli Enuff Z'Nuff sono di norma inseriti nell'ambito metal (glam, hair, per la precisione) ma ho sempre avuto l'impressione che da buona parte della popolazione di quel mondo non siano mai stati presi troppo sul serio. Forse per il loro look da figli dei fiori o per la scelta della "mascotte" di riferimento, che non era certo cool, infatti, in un contesto in cui le più famose erano lo psicopatico assassino Eddie degli Iron Maiden o l'iconografico Snagletooth dei Motorhead, gli EZN optarono per un improbabile simbolo della pace. Oppure, molto più probabilmente, la ragione della freddezza del metalhead medio nei loro confronti è da ricondurre al fatto che il glam metal che veniva attribuito al combo era più una sorta di  MacGuffin dentro una strategia stilistica che in realtà traguardava altri lidi.

Basta ascoltare Strenght, secondo disco licenziato dalla band che se la gioca con il successivo Animals with human intelligence per la palma di migliore della loro discografia, per rendersi conto che la canonica grammatica del glam-metal è solo sfiorata, mentre ad emergere è l'enorme amore dei leader del gruppo (Chip Z' Nuff, ad oggi l'unico superstite della formazione originale, con il ruolo fino al 2016 di lead guitar e poi anche quello di voce, e il singer titolare Donnie Vie, che ha lasciato definitivamente il gruppo nel 2013) per i Beatles. Una passione che trasuda in maniera più o meno esplicita in pressochè tutte e quattordici tracce dell'album. Oltre a ciò emerge netta la volontà di non darsi steccati o perimetri stilistici definiti, è così che agli anthem pop metal Heaven or hell o Something for free fanno da contraltare viola, violino e violoncello alla maniera dei Waterboys, nella title track e in Goodbye e mellotron, sempre nella title track e in The way home/Coming home.

Insomma un disco lontanissimo dall'ignoranza e dalla rozzezza di band tipo Motley Crue e Ratt (che ci piacciono, com'è noto) ma ricco di raffinatezza, eleganza e cultura pop. Un disco che arriva sugli scaffali dei negozi negli ultimi giorni che precedono l'esplosione del grunge (Ten, Nevermind e Badmotherfinger, rispettivamente di: Pearl Jam, Nirvana e Soundgarden, usciranno solo qualche mese dopo Strenght) e che anticipa in maniera clamorosa il revival del sound dei Beatles. Purtroppo, come spesso accade, essere troppo in anticipo sui tempi o non avere uno scaffale definito dove collocarsi spesso non paga in termini di consenso mainstream.

lunedì 28 settembre 2020

Hank Von Hell, Dead

 

A meno di due anni dal precedente esordio solista (Egomania), torna Hans Eric Dyvik Husby, l'ex frontman dei Turbonegro che si è scelto il nome d'arte di Hank Von Hell. Il solco stilistico tracciato con quel lavoro, un rock-metal con poche asperità, costanti aperture melodiche, ritornelli a presa rapida, viene confermato in pieno in questo Dead e anzi, in qualche modo la componente ruffiana è forse ancora più calcata del recente passato, elemento questo che mi ha fatto apprezzare in misura inferiore il disco. Dentro le tredici tracce che compongono la tracklist (dieci canzoni e tre "skit") ritroviamo il grande talento pop di questo divertentissimo istrione ma, forse, una voglia eccessiva di avvicinarsi al celebrato suono dei Ghost, dai quali Hank prende in prestito il produttore Tom Dalgety che calca un pò troppo la mano rispetto al mood vincente di Egomania

Dead ad ogni modo si fa ascoltare più che volentieri, sopravvive il coraggio di contaminare generi lontani (la disco-metal, con Disco) e il gas del rubinetto dei ritornelli marpioni è sempre aperto al suo massimo, con la title-track (la mia preferita); Blackned eyes; Crown (ospite Guernica Mancini delle Thundermother) e Forever animal, solo per citare gli episodi più clamorosi.

Insomma un altro disco divertente ma a mio avviso, contrariamente alle opinioni della critica che ho letto in giro, un passo indietro in personalità rispetto ad Egomania.

giovedì 24 settembre 2020

The host (2006)

 


A chi fosse interessato a comprendere il significato più virtuoso di "film di genere", assieme ai noti classici di Carpenter, Romero, Friedkin, Melville o del nostro Di Leo, suggerirei convintamente di vedere The host, terzo lavoro di Bong Joon-ho, uno dei registi più interessanti e poliedrici della sua generazione. Dentro una vicenda che richiama quella di Godzilla, cioè di un mostro creato dall'inquinamento causato da mano umana, Joon-ho inserisce una spietata critica agli effetti nefasti del sistema capitalistico sudcoreano, in relazione agli ampi strati della popolazione che vive per strada, ai bambini abbandonati, alle famiglie povere che ricorrono alla pratica diffusa, del "seo-ri" , vale a dire il furto di generi alimentari necessari alla sopravvivenza. In questo senso c'è una scena molto efficace, con due fratelli, uno adulto e l'altro bambino, che si introducono in un chiosco per rubare del cibo e, di fronte al bimbo che trova del denaro e vorrebbe tenerselo, il fratello gli dice che quello non si fa, quello è rubare, mentre procurarsi il cibo per sopravvivere non lo è. Non mancano critiche feroci agli USA, responsabili dell'inquinamento massivo nel prologo del film, e del trattamento disumano riservato al protagonista (Song Kang-ho, autentico feticcio del regista, presente in quasi tutti i film di Bong Joon-ho, fino a Parasite, dove interpreta il padre/autista) nei laboratori in cui è stato portato.

Per tutti quelli che vogliono invece semplicemente godersi l'intrattenimento di un thriller con mostri, The host (campione assoluto di incassi in Corea del Sud) resta comunque una produzione senza rivali (di sicuro non ne ha nella Hollywood attuale), con una creatura anfibia spaventosa e spettacolare, nonchè un utilizzo della computer grafica realistico e non invasivo, una perfetta creazione della tensione, che flirta in maniera efficace con il tono leggero, e tutti gli aspetti tecnici (regia, fotografia e montaggio) superlativi. La trama, infine, con il suo crescendo ad orologeria ed un finale al tempo stesso amaro e poetico, sono la classica ciliegina sulla torta che suggella, da una parte il momento di grazia e di superiorità di gran parte del cinema orientale, ricco di idee, innovazione, coraggio, su quello del resto del mondo occidentale, e dall'altra il talento trasversale ai generi di un grande regista.

lunedì 21 settembre 2020

Dee Snider, For the love of metal - Live!


Nulla può togliere a Dee Snider la sua immensa statura di entertainer guadagnata sudandosi i palchi di tutto il mondo per quasi mezzo secolo, nemmeno un'ultima fatica discografica un pò meh. Tuttavia bene ha fatto l'ex leader dei Twisted Sister a ricordarcelo con un disco dal vivo (doppio CD più DVD) elaborato dal tour del 2019.

I diciotto pezzi contenuti (nella versione deluxe) sono salomonicamente suddivisi tra il repertorio della Sorella Svitata (per un totale di otto brani, tra i quali gli immancabili I wanna rock e We're not gonna take it, ma anche la sorpresa di The fire still burns, uno dei miei preferiti in assoluto), la nuova carriera di Dee (sette) e tre chicche: Highway to hell degli AC/DC, Ready to fall, proveniente dall'effimero progetto parallelo dei Widowmaker ed infine Prove me wrong, un inedito.

Ad accompagnare Snider una band che risponde ai nuovi criteri stilistici (un modaiolo groove metal) di questa fase della carriera del nostro. Quindi sezione ritmica che picchia duro (batteria a doppia cassa) e chitarra cattiva. Lascio da parte la nostalgia per il sound dei vecchi TS e affermo che se il disco è degno di nota lo si deve alla istrionicità del frontman, che cerca continuamente lo scambio col pubblico, tra provocazioni, esaltazione e divertimento puro, come nell'occasione in cui insegna ai metalheads come si fanno le "metal-horns" , cioè con il pollice chiuso e non aperto e "fanculo a quello che dice Gene Simmons", o ancora quando, presentando il mood della serata, anticipa che saranno suonati pezzi della Sister (boato), e anche pezzi nuovi (un pò di indifferenza), precisando: "non fate che quando suono le canzoni del nuovo album andate a pisciare. Fate come me, andateci sull'assolo di batteria".

Insomma un grande, non solo nelle perfomance e nei pezzi storici (ma qualcuno dei nuovi, dal vivo, gliel'ammolla) ma anche nell'autorionia. 

Preservatecelo così ancora un pò, vorrei avere la possibilità di vederlo dal vivo, sperando si possa ancora farlo, prima o poi.