giovedì 31 maggio 2018

La vendetta di un uomo tranquillo (2016)

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Madrid: una rapina in una gioielleria va per il verso storto, i rapinatori si danno alla fuga. Curro, l'autista che dovrebbe portarli in salvo, durante l'inseguimento con la polizia ha un incidente e viene arrestato.
Provincia di Segovia, oggi: in una zona popolare vediamo un uomo entrare in un bar e, col tempo, frequentare i proprietari (la giovane Ana e il fratello Julio) oltre ad un gruppo di avventori. L'uomo, Josè, appare introverso e schivo, ma, nonostante questo, riesce ad entrare in grande sintonia con il gruppo fino ad avere un'avventura con Ana. Solo a questo punto le sue intenzioni saranno svelate.

Per chi non ha visto il film la sinossi dovrebbe fermarsi qui. Peccato che la traduzione italiana del titolo, da sola, vada già oltre, anticipando lo schema del film, a differenza del titolo originale spagnolo, Tarde para la ira (Tardi per la rabbia) che riesce a custodire appieno la dinamica della storia.
A prescindere da ciò, devo dire che la pellicola di Raùl Arèvalo (sceneggiatura e regia) è un gioiellino da non perdere, uno di quei film che per la sua apparente semplicità ti fa smadonnare sul perchè produzioni di questo livello non possano essere girate in Italia.
Partiamo dagli attori: Antonio De La Torre (Josè) offre un'interpretazione per sottrazione semplicemente perfetta, la sua inarrestabile, ossessiva tenacia nel portare a compimento la sua vendetta, cozza meravigliosamente con un comportamento mite e un'indole gentile. Anche nelle esplosioni di violenza più crude (una in particolare) la sua grande capacità è di conservare il profilo del proprio personaggio, senza trasformarsi in Charles Bronson o Liam Neeson.
Ma molto convincenti risultano essere anche Ruth Dìaz (Ana), Luis Callejo (Curro) e Font Garcìa (Julio), a loro agio nei panni di personaggi con facce qualunque, ai margini della società, ma con un forte legame familiare e con la propria identità.
La storia è tesa, regge fino al colpo di scena conclusivo e la fotografia delle periferie spagnole, alternate a quelle della natura selvaggia dell'entroterra, completano le coordinate di un film sospeso fra dramma e tensione.

lunedì 28 maggio 2018

Twisted Sister, Come out and play (1985)

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Per la serie: album insignificanti per il mondo ma responsabili della mia formazione musicale, da qualche giorno sto riascoltando Come out and play dei Twisted Sister.
Come out and play esce nel 1985 con l'ambizione di essere il disco della definitiva consacrazione mainstream di un gruppo che aveva raggiunto una buona dose di riconoscibilità dopo un lunga gavetta (l'esordio discografico con Under the blade è del 1982, ma la band si forma nei primissimi settanta) grazie al look di Dee Snider, ma, essendo in piena era video musicali, grazie soprattutto a MTV, che aveva inserito in altissima rotazione  il video di I wanna rock.
La band capisce che è il suo momento: o la va o la spacca. Assolda così Dieter Dierks, produttore dei lanciatissimi Scorpions, e dopo numerose discussioni interne sulla direzione musicale da intraprendere, rilascia un lavoro che rivela tutte le incertezze di orientamento musicale della band, lacerata fra chi voleva orientarsi al pop rock e chi invece intendeva continuare a pestare duro con irriverenza. Di certo è sbagliato, in un disco che comunque nei suoi due terzi è un ottima raccolta di pezzi hard rock radiofonici, lanciare un primo (e unico) singolo come Leader of the pack, cover del gruppo pop femminile The Shangri-Las, dalle sonorità intollerabilmente zuccherose.
Peccato, perchè, dietro una copertina fantastica con un tombino che si può sollevare per permettere a Dee Snider di uscirne,  risentendolo oggi, Come out and play ha delle discrete frecce al suo arco, come la title track (omaggio al film I guerrieri della notte di Walter Hill, di cui nell'introduzione riprende la celebre sequenza in cui lo stronzone tossico chiama, facendo sbattere ritmicamente delle bottigliette di vetro, i Warriors), You want what we got (sorta di We're not gonna take it, part 2), The fire still burns (forse la migliore del disco), Be chrool to your scuel (scanzonato rock and roll omaggio ad Alice Cooper, presente come featuring) o la conclusiva Kill or be killed.
Il disco segna in pratica la fine della vita discografica della band, due anni dopo uscirà infatti Love is for suckers, che di buono ha esclusivamente l'abbinamento titolo - copertina, ma che è un album davvero fiacco e sbagliato. Da lì in avanti la band non registrerà più brani inediti e continuerà a fasi alterne (Snider tenterà la strada solista o con altre band) l'attività live, fino al definitivo scioglimento suggellato dal farewell tour del 2016. 

Insomma, sarà la nostalgia, ma risentendolo oggi, è un disco che gliela ammolla abbastanza.

giovedì 24 maggio 2018

Prisoners (2013)

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La paura più spaventosa e angosciante di ogni genitore è quella che i propri figli spariscano nel nulla, da un momento all'altro, senza lasciare traccia. Quasi certamente vittime di criminali legati alla pedofilia o al traffico di esseri umani, o a profili di assassini seriali.
Purtroppo, questo è il terrificante evento che capita a Keller Dover (Hugh Jackman), e alla sua famiglia, che, mentre festeggiano il giorno del Ringraziamento assieme ai vicini, i Birch, perdono di vista le rispettive bambine, Anna e Joy, per realizzare poco dopo che sono scomparse.
Ne consegue una gigantesca caccia all'uomo, guidata dal detective Loki (Jake Gyllenhaal), che produce un fermo, un ragazzo ritardato di nome Alex Jones (Paul Dano), poi scarcerato per mancanza di prove.
Le famiglie sono devastate dal dolore e dall'angoscia. Keller, in particolare, divorato dai sensi di colpa instillatogli anche dalla moglie (Maria Bello), decide che il ragazzo momentaneamente arrestato è colpevole e che la polizia è incompetente, ragione per cui agisce in prima persona, rapendo Alex e sottoponendolo prima a vari pestaggi e poi a tortura, per estorcergli le informazioni inerenti il luogo dove è tenuta la figlia.

Prisoners è il primo film americano del regista canadese Denis Villenueve, che veniva da due opere acclamate dalla critica: Polytechnique e La donna che canta. Per l'occasione, il cast che la produzione  hollywoodiana gli mette a disposizione è di prim'ordine.
La pellicola merita a mio avviso la visione non tanto per il plot poliziesco, che in effetti inciampa in diversi clichè, ha un primo finale non proprio a sorpresa e pesca qualche dinamica da Il silenzio degli innocenti o da Vanishing (a sua volta remake dell'olandese Il mistero della donna scomparsa). Piuttosto Prisoners trova il suo perchè nella spirale paranoico distruttiva nella quale precipita il protagonista Jackman, di professione falegname, che, per lenire dolore e sensi di colpa, si mette metodicamente a torturare un ragazzo disabile, applicandosi, nella costruzione di un artigianale strumento di tortura, con la stessa indifferenza con la quale assemblerebbe un tavolo per il soggiorno. La storia per lui si concluderà in modo spietato, con un contrappasso biblico a punirlo per le sue azioni. E' chiaro che il messaggio della storia, reso in maniera estremamente efficace dalla messa in scena e dalla fotografia di una Pennsylvania opaca, piovosa, malinconica, vuole mettere a fuoco il diverso stato di prigionia, fisico o mentale, di tutti i personaggi della vicenda: le bambine, Keller, il sospetto rapitore, il detective.

Da questo punto di vista, un grande film.

lunedì 21 maggio 2018

John Wick, capitoli 1 e 2

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John Wick (Keanu Reeves), è stato un killer a pagamento. Il migliore in circolazione. L'uomo nero. Portava a termine qualunque compito gli venisse assegnato. Riusciva dove chiunque altro falliva. Da un pò si è ritirato, per vivere la storia d'amore della vita.Sfortunatamente la sua donna si ammala e muore, lasciandolo solo con un cucciolo di cane da accudire. Il primo capitolo inizia così, con John che conduce una vita solitaria, cercando di elaborare il lutto, fino a quando, per motivi banali, entra in contatto con un gruppo di scagnozzi della mafia russa (da lui in passato servita), tra i quali Yosef Tarasov (l'Alfie Allen già Theon Greyjoy del Trono di spade), il figlio del boss Viggo, i quali gli portano via le ultime cose alle quali è legato da affetto ossessivo: il cucciolo, lascito della moglie, e la sua Ford Mustang del 1969. Gli sgherri commettono però l'errore di lasciarlo in vita. Da qui inizierà la deflagrazione totale della storia, con Wick che torna ad essere implacabile, feroce ed inarrestabile. Nel secondo capitolo, dopo una premessa che altro non è che una coda del primo, il pensionamento del nostro è di nuovo messo in discussione dal boss italo americano della camorra Santino D'Antonio (Riccardo Scamarcio), con il quale Wick ha un debito d'onore, che è costretto a saldare soddisfando la richiesta di Santino di uccidergli la sorella (Claudia Gerini), pericolosa contendente al potere criminale di tutte le cosche italiane. L'azione si svolgerà prima in Italia, a Roma, per poi tornare a New York, con un cliffhanger finale.

John Wick ha senza dubbio dato un bello scossone all'asfittico panorama degli action americani, che sembravano ormai agonizzanti tra l'ennesimo film con Jason Statham e uno dei tanti Attacchi al potere. Con John Wick, è vero, siamo ancora all'uomo solo contro tutti, ma la produzione ha dalla sua più di un'intuizione innovativa. Innanzitutto le scene di combattimento, per le quali si introduce la tecnica del "gun-fu", sorta di kung-fu con la pistola, che, in un contesto (il corpo a corpo) nel quale abbiamo visto ormai di tutto, ci permette di assistere a qualcosa di diverso. E poi, altro elemento vincente, l'introduzione di una sorta di sindacato mondiale per i criminali, che offre rifugio sicuro ai delinquenti di livello nei suoi Continental Hotel di tutto il mondo, dove si paga in monete d'oro e dove vigono regole rigorose, la prima delle quali è che non si possono commettere atti violenti all'interno degli hotel. 
Insomma, se John Wick, pur essendo un prodotto di puro intrattenimento, riesce ad emergere con personalità tra le proposte di un genere tanto amato quanto inflazionato e in decadimento, è per merito di trovate narrative divertenti, di momenti d'azione innovativi, oltre che, naturalmente, per la recitazione monoespressiva, ma molto in parte, di un ritrovato Keanu Reeves. 
Gli amanti dell'action non possono perderlo. 
L'anno prossimo è prevista la conclusione della trilogia.

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giovedì 17 maggio 2018

Meshell Ndegeocello, Ventriloquism

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Puoi anche passare una (ennesima) fase metal intensa e totalizzante, che ti monopolizza gli ascolti 24/7, ma quando esce un nuovo disco di Meshell Ndegeocello i blast beat si placano, le chitarre distorte si fermano, i growling si fiaccano, il tempo stesso rallenta, e hai orecchie solo per lei.
Quattro anni dopo il sublime Pour une Ame Souveraine, dedicato alle composizioni di Nina Simone, l'artista americana (nata però a Berlino da padre militare USA) torna con un altra raccolta di brani altrui, che, se da un lato hanno caratteristica più leggera, trattandosi di cover degli anni ottanta in ambito R&B mainstream, dall'altro sono collocate in un contesto di impegno sociale, dato che parte dei profitti delle vendite dell'album è destinato a finanziare l'American Civil Liberties Union (ACLA).
Il lavoro, composto da undici tracce, rielabora con classe cristallina pezzi abbastanza noti di artisti che perlopiù hanno vissuto la loro stagione migliore proprio negli eighties, e che evidentemente hanno rappresentato qualcosa a livello di formazione emotivo/musicale di Meshell, classe '68, che in quegli anni viveva adolescenza e maturità.
Si ripescano personaggi dimenticati come Al B. Sure con la sua Nite and day; le TLC con Waterfall, una Janet Jackson d'annata, con Funny how time flies (When you're having fun), e li si reinterpretano in versioni meravigliosamente sensuali ed elegantissime, dove Ndegeocello ormai privilegia l'interpretazione vocale alle dimostrazioni di tecnica al basso (con le uniche eccezioni del funky iniziale I wonder if I take you home, originariamente interpretato da Lisa Lisa & Cult Jam feat. Full Force, e di Smooth operator di Sade).
Ci sono poi una manciata di brani che dallo status di semplice eccellenza si elevano ulteriormente a quello di capolavori. E' il caso di una canzone di Prince, considerata minore, ma che personalmente, quando attraversavo il mio periodo princiano, ho sempre adorato alla follia: si tratta di Sometimes it snows in April, dal disco Parade (album noto per i successi di Kiss e Girls & boys), che solo per il fatto di essere stata celebrata meriterebbe un giudizio fuori scala. L'interpretazione fa poi il resto.
Ma se nel caso di Prince il gioco poteva essere facilitato dall'avere per le mani un pezzo già straordinario di suo, l'infinita suggestione dell'altra gemma del disco è solo ed esclusivamente merito dell'ispirazione di Meshell, che ci regala una Private dancer (Tina Turner) da groppo in gola, dove finalmente, grazie ad un arrangiamento scarno ed un approccio dolcemente malinconico, emerge in maniera sublime la bellezza del testo firmato Mark Knopfler. Autentico masterpiece.

Ci sono modalità e motivazioni diverse di registrare un disco di cover, quelle di Meshell Ndegeocello, restano un inarrivabile punto di riferimento.

lunedì 14 maggio 2018

Bullet, Dust to gold

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Altra band svedese di retro rock, i Bullet si formano a Vaxjo nel 2001. Qualche anno dopo (2006) esordiscono con il primo full lenght (Heading for the top) che subito li segnala come grandi appassionati di tutto ciò che è metal anni ottanta: dal look, alla copertina del disco fino, ovviamente, allo stile, che richiama, tra gli altri, AC/DC, Judas Priest e Accept.
La band cresce nei consensi di pubblico e raggiunge probabilmente il suo apice creativo con Bite the bullet (2008) e, soprattutto, Highway pirates (2011), che consolidano il marchio di fabbrica musicale, confermato poi dai successivi Full pull (2012) e Storm of blades (2014).
Ci vogliono quattro anni perchè il combo, ben saldato attorno all'imponente singer Hell Hofer e all'ascia Hampus Klang, rilasci l'oggetto di questa recensione, la settima fatica: Dust to gold.
Chiaro che ogni valutazione su un genere musicale così derivativo si basa fondamentalmente su due elementi: la capacità di replicare credibilmente le sonorità di riferimento, attraverso canzoni nuove che incarnino la filosofia ispiratrice e, elemento del tutto soggettivo, la predisposizione dell'ascoltatore a lasciarsi andare senza troppe menate.
I Bullet con Dust to gold centrano appieno questi due obiettivi, regalandoci un disco che è la quintessenza del roccherrol metallaro degli eighties, con uno stile che è il figlio bastardo di AC/DC e Accept, tanta attitudine e refrain killer come da manuale. 
L'opener Speed and attack mette da subito le cose in chiaro, Ain't enough le sancisce in bolla papale e così via via fino alla conclusiva title track, passando per il tamarrissimo finto live di Highway love, che nonostante tutto, riesce a starci dentro alla grande.

Fun, fun, fun.




giovedì 10 maggio 2018

The walking dead, stagione 8

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Nel caso ve lo stiate chiedendo: sì, qui si spoilera.

Bizzarro come l'unica serie tv superstite da quando ho deciso di sottrarre le scarse porzioni di tempo ai serial per dedicarle ai film, sia anche quella qualitativamente più discutibile: The Walking DeadUna ragione ovviamente c'è, ed è riconducibile a Stefano, che l'anno scorso si è appassionato all'epopea di Rick & soci, trasformandone così la visione in un rito di famiglia.

The walking dead è sicuramente la serie action che ha maggiormente i tempi delle soap, ma in generale anche dei fumetti USA di lungo corso (gli appassionati Marvel o DC sanno di cosa parlo): eventi che occuperebbero poco spazio sono dilatati all'inverosimile e diluiti dentro storie, conversioni, controconversioni ed introspezioni ardite, non sempre in linea con la costruzione dei personaggi. Insomma, un serial che nasce da un fumetto e che dalla serialità dei fumetti prende tempi e modi narrativi.

Anche l'ottava stagione segue questo canovaccio ormai consolidato, con gli autori che si avvitano su se stessi facendo assumere decisioni talvolta strampalate e prive di logica a qualche characters: gente che da sanguinaria diventa pacifista (o viceversa), nel giro di qualche sequenza (Morgan, Tara, Daryl, Rosita, Ezekiel) oppure l'evidente difficoltà di gestire il personaggio Negan attraverso maldestri tentativi di "umanizzazione" che stonano parecchio con la sua precedente riduzione a semi caricatura. 
Però qualcosa di buono, di molto buono, in questa stagione c'è stato:  l'eredità che Carl ha lasciato ai suoi cari e al suo gruppo. Ad un Rick sempre più lontano dalla moralità dell'eroe buono e sempre più pericolosamente border line e accecato dal desiderio di vendetta, gli showrunner affiancano infatti l'attitudine di un ragazzo cresciuto precocemente che gli spiega (il figlio al padre) la strada della riappacificazione. Molto interessante anche l'alternarsi di flash forward assieme a sequenze che si scopriranno essere state solo sognate da Carl, i cui autentici significati non saranno svelati fino all'ultimo episodio.

Contrariamente alle aspettative di molti, la stagione non termina con Negan ucciso nel modo più cruento possibile da Rick, ma con un'imprevedibile riconciliazione tra i due gruppi e  con una speranza di nuovo sviluppo nell'armonia collettiva.
Il messaggio molto poco americano è quello della ricostruzione di regole di convivenza civili, la fine della rappresaglia, la misericordia verso gli sconfitti.
A Negan viene quindi salvata la vita e comunicata una condanna all'ergastolo, quale esempio di un nuovo mondo che sta per nascere (e, surrettiziamente, per tenere nel cast uno dei villain più iconografici degli ultimi tempi). 
Maggie, Daryl e Jesus (quest'ultimo in maniera del tutto incomprensibile, visto il ruolo di colomba che ha sempre avuto) la pensano diversamente e preparano nell'ombra il primo colpo di stato dell'era The Walking Dead. E in questo sì, che gli americani hanno da insegnare a tutti.

E' superfluo ribadirlo: in autunno arriva la nona stagione.

lunedì 7 maggio 2018

Nemesi (2016)


Sul mio podio degli eroi cinematografici di gioventù siede saldamente il signor Walter Hill, classe 1942 e stile (all'epoca) innovativo ed imitatissimo, capace, dal 1978 al 1984, di sfornare un capolavoro dopo l'altro con i quali ha ridisegnato completamente il significato di action americano: Driver l'imprendibile; I guerrieri della notte; I cavalieri dalle lunghe ombre (western); I guerrieri della palude silenziosa; 48 ore e ultimo ma non ultimo il connubio cinema/musica rock in gran parte responsabile della mia formazione: Strade di fuoco (senza considerare il ruolo di Hill in qualità di produttore per l'intera saga di Alien). 
Spentisi i riflettori di quel periodo che ha segnato la storia del film di genere (USA, ma non solo), Hill ha sempre continuato a fare il suo cinema, con incursioni nella commedia (Chi più spende più guadagna), omaggi al blues (Mississippi adventures), action thriller nerissimi (Johnny il bello), lavorando via via con tutti gli attori di riferimento per il genere (Rourke, Stallone, Willis, Schwarzenegger, Sniper, etc.).
Come per tutti quelli della sua generazione, gli anni duemila gli hanno imposto un semi pensionamento, laddove Hollywood li ha sostituiti con registi fracassoni ma intercambiabili uno con l'altro, al servizio di budget milionari ed effetti speciali sempre più invadenti. Sono infatti solo tre i film che il regista riesce a girare in quindici anni, dal 2000 al 2015. Nel 2017, in maniera del tutto anonima e "a fari spenti", esce anche da noi il suo ultimo film: Nemesi. Le sale italiane lo ignorano, viene distribuito in piena estate e resta in programmazione solo qualche giorno, al punto che è quasi impossibile riuscire a vederlo. Urgeva un recupero in dvd.

Il plot: Frank Kitchen (interpetato da Michelle Rodriguez, che si misura con un personaggio maschile) è un killer a pagamento al soldo del miglior offerente. Su commissione del boss Honest John (Anthony LaPaglia), uccide un uomo per la mancata restituzione di un prestito. La vittima è però l'amatissimo fratello di Rachel Jane (Sigourney Weaver), svitata medico chirurgo radiata dall'ordine e pertanto operante nella clandestinità, che, per vendicarsi, mette in atto un agghiacciante modalità ritorsiva. La storia si apre con la Weaver internata in un istituto psichiatrico, impegnata a sostenere un colloquio col professor Galen (Tony Shalhoub) in merito ad un massacro avvenuto nella sua clinica clandestina, dal quale lei è emersa come unica sopravvissuta e sospettata principale. Da qui parte, attraverso l'alternanza di flashback e racconto presente, tutta la vicenda.

Mi trovo ancora una volta dall'altra parte della barricata rispetto ad una critica che ha sostanzialmente snobbato Nemesi (The assignment in originale). Dentro questo film c'è tanta dell'arte di Hill. Il cineasta racconta una storia oscura, a tratti anche sgradevole e con tematiche più prossime all'horror che al thriller, rinunciando completamente all'ironia e affidando molto della riuscita dell'opera alle due meravigliose donne protagoniste, Weaver e Rodriguez, che lo ripagano appieno della fiducia. La messa in scena è asciutta ed essenziale, il ricorso alle tavole fumettistiche per inframezzare il racconto dona una cornice epico-avventurosa ad una storia che per molti versi è quasi onirica. La sequenza conclusiva che mostra la contro-vendetta di Frank, è il colpo da maestro.

Nemesi dimostra che mr Walter Hill ha ancora tanto da dare al cinema moderno. Speriamo vivamente ne abbia ancora le possibilità.



giovedì 3 maggio 2018

Avengers, Infinity War

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CONTIENE SPOILER!

La Marvel, dopo aver sostanzialmente inventato i comic movie del nuovo millennio, si prende la libertà di cambiargli radicalmente le coordinate. Se già prima non c'era partita nella competizione con le produzioni cinematografiche della DC Comics, una più inguardabile dell'altra, a maggior ragione non ce ne può essere adesso che con Infinity War la Casa delle Idee ha ridefinito le regole del gioco. 
Il tutto avviene grazie all'attesissimo avvento di Thanos (Josh Brolin), villain cosmico che già tramava dietro le quinte da diverso tempo (il primo Avengers) la distruzione dell'universo. Anzi, per meglio dire, l'equilibrio dell'universo. Infatti la filosofia alla base delle azioni di questo affascinante super cattivo si basa sulla constatazione che i pianeti siano tutti sovraffollati, di conseguenza non ci siano abbastanza risorse per tutti, di conseguenza, è indispensabile lo sterminio della metà della popolazione dell'universo perchè i superstiti vivano agiatamente. Il ragionamento non fa una piega (oltre a richiamare una simile strategia messa in atto da Ozymandias, nei Watchmen). Per mettere in atto il suo piano però non bastano più gli attacchi ai singoli pianeti, il semi dio deve recuperare le sei gemme dell'infinito con le quali avrà a disposizione la vera onnipotenza divina. La ricerca, con i relativi combattimenti, si sviluppa tra lo spazio sconfinato e la terra (due delle sei gemme sono custodite da Visione e Dr. Strange), coinvolgendo buona parte del pantheon superoistico (Iron Man, Thor, Captain America, Spider-Man, Guardiani della Galassia, Vedova Nera, War Machine, Visione, Scarlet, Bucky, Pantera Nera, Falcon, oltre ad un Bruce Banner in crisi di identità che non riesce più a trasformarsi in Hulk) che sembra comunque non avere chance contro un nemico come Thanos.

Infinity War si limiterebbe ad essere "solo" un film divertente, con un ottimo bilanciamento tra azione, dramma e leggerezza (anche se forse a volte alcune battute sono un pò forzate), non fosse per il finale che gli conferisce una spinta propulsiva tale da, come detto, rivoluzionare il genere. Sì, perchè proprio quando sembra che la trama si avvii alla canonica conclusione, con la vittoria dei buoni, gli autori piazzano il colpo di genio: basta uno schiocco delle dita del mega villain, evidentemente annoiato dai troppi combattimenti, e metà della popolazione di tutto il cosmo (inclusa buona parte della fauna supereroistica) cessa semplicemente di esistere. Le ultime sequenze, con Thanos che finalmente può riposarsi con dipinto sul volto un sorriso di compiaciuta soddisfazione, in qualche modo riescono addirittura a creare empatia con questo mostro.

Trattandosi di un prodotto pensato per un pubblico di massa, con protagonisti i personaggi più popolari e amati anche dai bambini, che campeggiano su ogni merendina o snack del pianeta, aver avuto, da parte degli autori, il coraggio di concludere un film in questo modo è un atto a suo modo rivoluzionario. 
E pazienza se nel sequel, nel quale, a giudicare dalla breve sequenza dopo i titoli di coda, sarà introdotto Captain Marvel, assecondando la tradizione fumettistica, con ogni probabilità assisteremo alla "resurrezione" dei tanti eroi sterminati: Infinity War resterà comunque una pietra miliare nel genere.
Vi garantisco che vedere tanti bambini ammutoliti assistere alla polverizzazione di Spider-Man ed il resto della platea attonita durante il cupissimo accompagnamento musicale dei titoli di coda, non è roba da tutti i giorni.
Ci voleva la Marvel. Ci voleva Thanos. Ci voleva Avengers Infinity War.