giovedì 30 settembre 2010

A riflettori spenti

Tanto per ribadire il concetto del post qui sotto.


"A scuola porto in bagno mio figlio disabile, è senza aiuto"

Idil

Sarò anche fatto male, ma assisto a degli avvenimenti che vedo celebrati come delle feste e in me producono invece l'esatto effetto opposto.

Mi sembra incredibile e paradossale che, davanti al disinteresse quotidiano di stato e istituzioni in merito ai problemi dell'infanzia, alla povertà di migliaia di famiglie, a bambini che vivono nell'indigenza, a mamme lavoratrici che non riescono a conciliare lavoro e genitorialità, a nuclei familiari di quattro o cinque persone che tirano avanti con un reddito annuo complessivo di quindicimila euro lordi , un equipe di medici abbia commosso questo ipocrita paese per aver estratto una creatura del peso di sette etti dal ventre di una madre in coma irreversibile, tenuta artificialmente "in vita" per portare a termine la gravidanza.
Sarò anche cinico, ma l'impressione è che queste imprese siano più frutto di uno sfrenato narcisismo di taluni dottoroni piuttosto che dal rispetto del giuramento di Ippocrate.


Non ce l'ho con te piccola Idil, anzi, ti auguro ogni fortuna e bene. Visto il mondo nel quale hanno voluto a tutti costi farti vivere, ne hai un fottuto bisogno.

mercoledì 29 settembre 2010

Soul bombs


SOUTHSIDE JOHNNY AND THE ASBURY JUKES
Pills and ammo
self release/Leroy Record Label, 2010



So che è una formula abusata, ma, davvero nel caso di Southside Johnny vale la considerazione che riascoltarlo è come ritrovare dopo tanto tempo un caro, vecchio amico.

Questo inossidabile dinosauro del rock ha forgiato il suo sound da soulman nella seconda metà degli anni settanta quando l'amicizia e gli scambi musicali che lo legavano a Springsteen, Little Steven e il giro della E Street Band erano così intensi, che se non fosse stato per la causa legale che lo bloccò per tre anni (dopo Born to run e fino a Darkness), di certo il boss avrebbe pubblicato un disco di soul / r&b in perfetto stile Southside (la montagna di inediti, solo in parte pubblicata su Tracks è lì a dimostrarlo).

Tra l'altro la straordinaria miscela che John Lyon (vero nome del nostro) aveva shakerato non si esauriva con i tributi al suo sconfinato amore per Sam Cooke, ma utilizzava componenti di rock and roll, di blues, venature boogie e episodi r&b.
Dopo il periodo d'oro (1976/1981), durante il quale, anche grazie alla collaborazione di Springsteen, vennero fuori pietre miliari quali I don't want to go home, This time is for real, Hearts of stone, Havin' a party e il live Reach up and touch the sky, cominciò per lui un lento declino che lo portò a tentare altre strade, perlopiù da solista simil-crooner, fino alla scoppiettante rinascita di Better Days, nel 1992.

Poi un'altro calo di interesse del grande pubblico accompagnato stavolta anche da quello delle major, fino alla recente decisione di vendere i suoi lavori direttamente allo zoccolo duro dei fans, attraverso la rete. Questa scelta ha fatto sì che nella prima decade degli anni zero, tra materiale inedito, dischi di cover e recuperi dal repertorio storico, Southside abbia infilato una dozzina di uscite.

Pills and ammo, pubblicato qualche mese fa, riprende decisamente il canovaccio stilistico del periodo migliore. Quello che lo distingue dall'essere un prodotto un pò patetico riservato a vecchi nostalgici è la qualità delle composizioni e la freschezza del sound.
I fiati pestano giù di brutto già in Harder than it looks, che subito apre la manetta del gas su un refrain (il primo di una lunga sequenza) letteralmente irresistibile. Più sporca e sostenuta in prevalenza dall'elettrica e dal pianoforte è Cross that line, mentre l'armonica blues sorregge Woke up this morning e Lead me on è il primo lentaccio full band.

One more time to rock è un altro torrenziale blues elettrico, mentre il rock and boogie fa capolino in Keep on moving. You can't bury me (rancorosamente autobiografica?) è fatta apposta per amare la voce rasposa di Johnny e la conclusiva Thank you è una delicata love song, indispensabile chiosa per un disco così.

A quasi sessantue anni d'età Southside Johnny riesce ancora a fare scintille insieme ai suoi Asbury Jukes. Con feroce consapevolezza, senza aver più nulla da chiedere e rifiutando ogni compatimento per quello che avrebbe potuto essere e invece non è stato. Come si fa dico io a non volergli bene?



martedì 28 settembre 2010

Please Mr Postman

Mi era sfuggita questa notiziola di qualche settimana fa. Stravolgendo abitudini radicate negli anni, dal mese di maggio 2011 Poste Italiane smetterà di consegnare la corrispondenza al sabato, e si limiterà a farlo nella classica settimana lavorativa (lu-ve). In cambio introdurrà nuovi e più professionali servizi (ad es. la possibilità di concordare l'arrivo di una raccomandata o di sospendere la consegna della corrispondenza durante un periodo d'assenza da casa) e potenzierà i servizi BancoPosta.

Nell'era di internet e delle e-mail, questa decisione (concordata anche con le Organizzazioni Sindacali) è passata quasi inosservata o comunque non ha provocato grandi reazioni. Personalmente riavvolgo il nastro e penso a quante volte ho fatto la posta al postino (ahah) nell'attesa trepitante di una lettera, una cartolina, di un pacco o semplicemente al brivido sottile che provavo nello sbirciare nella mailbox. All'epoca essere obbligati a due giorni di mancata consegna sarebbe stato davvero insopportabile.

Oggi lo slogan potrebbe essere bando ai sentimentalismi, largo al progresso e all'efficienza.
Se, vabbeh.

Qui la notizia riportata dal Corriere della sera

lunedì 27 settembre 2010

MFT, settembre 2010

ALBUM

M.I.A. , Maya
Estere, Città invisibili
Hank III, The rebel within
Southside Jonny and the Asbury Jukes, Pills and ammo

Robert Plant, Band of joy
Black Crowes, Croweology
Fabri Fibra, Controcultura
The Sword, Warp riders
Ray LaMontagne, God willin' and the creek don't rise
Black Mountain, Wilderness heart
Brandon Flowers, Flamingo
Natalie Merchant, Tigerlily
Uochi Toki, Laze biose

LETTURE

John Lansdale, In fondo alla palude

sabato 25 settembre 2010

Album o' the week / Alexander O' Neal, Hearsay (1987)


Erano i tempi in cui Radio Milano International era una gran bella emittente, che mandava prevalentemente musica black americana con Massimo Oldani dietro al microfono ad affascinare e trasmettere ooottiiiiime vibrazioni.

Tra tutti gli artisti che godevano di alta rotazione, Alexander O'Neal aveva una posizione di significativo rispetto. Grazie soprattutto ad un album come Hearsay, che, trainato da singoli quali Criticize, Fake, (What can i say)To make you love me e Never knew love like this, fece il botto nelle classifiche di genere USA.


Il genere del caso è ovviamente è il modern l'r&b che, come ebbi a dire scrivendo dei Boyz II Men, col tempo è diventato marginale nel panorama della musica black o si è imbastardito, contaminandosi con l'hip hop.

Al netto della nostalgia canaglia che mi attanaglia ascoltandolo, mi sembra di poter dire che si tratta oggetivamente di un buon disco: ispirato, ottimamente prodotto e interpretato. E' un festa che, pur risultando oggi un pò kistch e fuori moda, riesce comunque ad essere divertente. Peraltro, proprio le chiacchere e i rumori di sottofondo tipici di un party sono usate da O'Neal come skit nelle pause tra una traccia e l'altra dell'album.

venerdì 24 settembre 2010

Si parte davvero


Il 13 settembre Stefano ha iniziato la sua avventura alle scuole elementari. Abbiamo celebrato la portata dell'evento con il consueto ampio servizio fotografico nel cortile dell'istituto e in classe, ma, visto che la prima settimana è stata prevalentemente utilizzata dalle maestre per capire un pò le capacità generali dei bambini attraverso attività di disegno e di logica,il clima scuola non mi aveva ancora coinvolto appieno.

L'ha fatto ieri, allorchè sono arrivati i sei libri di testo per il primo anno. Che meraviglia. Me li sono sfogliati avidamente, notando da subito l'abisso che li separa da quelli che, per quanto possa ricordare, avevano dato a me più di tre decenni fa.

I testi moderni sono colorati, allegri, accessibili. In qualche caso somigliano più ad una settimana enigmistica per piccoli che ad un serioso libro di didattica.


Oddio, questa è la primissima impressione, ricavata tra l'altro da uno che si emoziona per un nonnulla. Poi c'è da vedere se funzionano meglio dei miei, che all'epoca mi sconvolsero dalla prima lettura. La piccola vedetta lombarda dal libro Cuore di De Amicis...

giovedì 23 settembre 2010

Una tranquilla serata televisiva

Si è rapidamente afflosciata la curiosità di vedere All Stars, nuova sitcom italiana, partita martedì sera su Italia Uno. Nonostante un cast interessante ( Diego Abatantuono, Ambra Angiolini, Fabio De Luigi, Bebo Storti, Paolo Hendel, Gigio Alberti, Antonio Cornacchione, Ugo Conti) e uno spunto che almeno sugli uomini over 40 esercita un certo fascino cameratesco (la vita di un gruppo di amici che ruota attorno al fulcro della partita settimanale di calcetto), mi sono trovato di fronte alla solita produzione provinciale, banalotta, senza dinamismo, con battute scontatissime e una sceneggiatura così povera e prevedibile da risultare disarmante.

E stavolta non mi ha salvato manco con lo zappping, visto che mi sono sintonizzato su X-Factor allo scopo di vedere che look si era inventato a sto giro Elio, ma mi sono invece imbattuto nell'altro giudice, Enrico Ruggeri, che, per incoraggiare un gruppo molto criticato, ha pensato bene di citare una frase di Benito Mussolini (la celebre "tanti nemici tanto onore"). Nessuno è intervenuto, nessuno lo ha contestato, qualcuno ha applaudito.

Risultato:ho spento e mi sono dedicato ad un libro a lungo trascurato. E poi dicono che la tv uccide la lettura.



mercoledì 22 settembre 2010

Una famiglia fuori dal comune


Dopo la conclusione di The Shield, torna con un altro serial Michael Chiklis. Il nuovo progetto,ormai ai nastri di partenza (28 settembre in America su ABC, il 6 ottobre da noi, su Fox, pacchetto Sky), è No Ordinary Family.
La storia è quella di una classica famiglia americana (padre, madre, due figli) che però, a seguito dell'acquisizione di super-poteri, si trova a gestire, oltre alle normali dinamiche familiari, anche la lotta al crimine. Detta così sembra di rivedere Gli Incredibili, il film a cartoni animati della Disney/Pixar (che a sua volta si era ispirato al classico schema Marvel "super-eroi con super-problemi" ed a personaggi tipo I Fantastici Quattro, nei cui film, per uno strano gioco di rimandi, Chiklis aveva recitato nei rocciosi panni de La Cosa).


Pare che dopo il recente flop di Flash Forward la ABC punti molto su questo telefilm per tornare al centro dell'attenzione mediatica (e degli ascolti) come ai bei tempi andati di Lost. Staremo a vedere.

Nel cast figura anche Julie Benz (è la moglie di Chiklis), uscita dopo quattro stagioni da Dexter e reduce da qualche episodio di Desperate Housewifes.
Anche per lei vale il discorso fatto a proposito dell'ex Vic Mackey, fa sempre piacere rivederla.

martedì 21 settembre 2010

Ecs


Non c'è niente di peggio che uno sdolcinato lieto fine, per un film che si proponeva di essere caustico sui rapporti di coppia. Silvio Orlando come sempre una spanna su tutti (fantastico nelle t-shirt indossate durante il periodo di separazione dalla moglie, Fuzzstones, Guns n' Roses, Misfits), a seguire De Luigi. La Capotondi tanto bellilla quanto insopportabile, Bisio sempre sfasato, Gassman che, as usual, fa Gassman.

In due ore di film si salvano giusto un paio di battute, come quella che urla Orlando alla moglie: - se ti avessi ammazzata venticinque anni fa, la prima volta che l'ho pensato, adesso sarei già fuori! - .


Vabbeh.

lunedì 20 settembre 2010

Flashback

Prima di fare il sindacalista, in aeroporto facevo assistenza a terra agli aeromobili. L'omino che sta sottobordo con il walkie talkie, in pratica. La mansione prevedeva anche una parte di attività da svolgere, alternativamente a quella esterna, in ufficio, dove ci si occupava del controllo del volo e della produzione dei documenti che ne attestavano carico e pesi.

L'ufficio nel quale si svolgevano queste operazioni era esattamente come dovrebbe essere una sala di controllo di un aeroporto importante. Un grande salone con una decina di scrivanie, telefoni, computer, telex, stampanti, manuali operativi. Dava direttamente sul piazzale aeromobili che si ammirava attraverso un'enorme vetrata che occupava un'intera parete. Ricordo che la prima volta ci entrai, appena ventenne, con tutto quel vociare, il rumore degli strumenti di lavoro, i telefoni che suonavano, le discussioni che riempivano l'aria, mi affascinò in maniera indescrivibile, mi sembrò incredibile poter far parte di quel mondo.

All'epoca la mia azienda seguiva tutte le compagnie che venivano in aeroporto, oggi in pratica solo Alitalia. Ragion per cui gli operatori di quell'ufficio sono stati spostati in uno spazio più piccolo ed economico e quello splendido open-space è rimasto vuoto.
Dopo moltissimi anni (oggi la mia sede è in un altro edificio) qualche giorno fa ci sono tornato. Il tempo di aprire la porta e la vista del locale vuoto e in disarmo ha fatto da agente scatenante, investitendomi come un treno merci in corsa con un flashback violento, da film. L'ho visto prendere vita, animarsi, ho rivisto persone, frenesia, attività. E' durato un solo momento, una frazione di secondo, poi sono tornato alla realtà.

Prima di andarmene ho indugiato un ultimo istante, il tempo di cercare (vanamente) di rievocare il piacere del flashback di un attimo prima e di scattare questa foto. Poi sono uscito.


sabato 18 settembre 2010

Album o' the week / Carmen Consoli, L'anfiteatro e la bambina impertinente (2001)


Non sono esattamente un fan di Carmen Consoli. Proprio per questo forse ho apprezzato particolarmente L'anfiteatro e la bambina impertinente, disco dal vivo registrato al Teatro Greco di Taormina, nel quale il repertorio della cantantessa siciliana viene rivisitato grazie al contributo di un'intera orchestra filarmonica.
Già la partenza, con la bellissima Per niente stanca, arrangiata con un andamento tipo Bolero, coglie nel segno.

Poi beh, la tensione non regge allo stesso modo per tutta la durata dell'album, qua e là emerge forse qualche momento di stanchezza, ma nel complesso credo si possa parlare di un live veramente riuscito.

venerdì 17 settembre 2010

Canta Lotta Ama


M.I.A.
Maya
N.E.E.T. Recordings, 2010


E' arrivata alla terza prova discografica Mathangi Maya Arulpragasam, meglio conosciuta come M.I.A., interessantissima artista che nasce nei sobborghi di Londra da genitori dello Sri Lanka.

Il suo marchio di fabbrica, che nel frattempo ha dato il via ad uno vero e proprio filone musicale, è una miscela di suoni e stili che abbracciano l'etnico, l'hip-hop, la dance, il reggae ed altre ispirazioni di cui non so nemmeno tracciare le coordinate, oltre ad un impegno sociale verso i popoli terzomondisti veicolato da buona parte delle liriche.

Anticipato dai singoli XXXO (dal sound più commerciale, tanto che al remix ha lavorato Jay-Z) e Born free, Maya prosegue su questo personalissimo solco, riuscendo ancora una volta a colpire nel segno.

I dodici brani (sedici nell'edizione deluxe) presenti nell'opera, ad eccezione dell' ossessiva cavalcata di Teqkilla , si attestano intorno ai tre minuti o poco più, trascinandoci in uno speziato melting pot musicale guidato dal suono che produce il dinamismo frenetico di una metropoli nell'ora di punta abbinato però ai colori e agli odori di un mercato popolare di Calcutta.


Per accompagnare i suoi testi sghembi M.I.A. utilizza qualunque sorgente di suoni: dal trapano elettrico per la filastrocca Steppin' up, ad inattesi riffoni di chitarra elettrica campionati su Meds and feds. Per Story to be told invece l'artista pianta semi di certificata origine reggae/ragamuffin dentro l'arida terra elettronica e li guarda germogliare felice. La musica di Kingstown fa capolino anche nella successiva It take a muscle.

Verso la fine (parlo della versione a dodici tracce, che io prediligo) le battute rallentano, e così ci si può lasciar andare ai lontani echi sixties di Tell me why e alla fluttuante Space.

Uno dei dischi dell'anno.





mercoledì 15 settembre 2010

Of union and men


E' già qualche anno ormai anni che faccio sindacato a tempo pieno. Conoscendomi come mi conosco, sembra impossibile che, con tutte le difficoltà che ho sempre avuto a risolvere i miei problemi personali e a prendere decisioni importanti, io riesca a svolgere un'attività che prevede la gestione e la risoluzione di problemi altrui.

E invece... E invece eccomi qui a discutere con la gente, spesso a tentare di convincere gli imprenditori a cambiare idea, a intervenire, a negoziare, a parlare in pubblico in assemblea o in mezzo a gruppi di lavoratori infoiati. Ad alternare ruoli da pompiere a quelli da incendiario. Riuscendo non di rado a farmi anche ascoltare. Davvero incredibile.

Nella mia azienda (una grande impresa di servizi uscita a pezzi dalla fine del monopolio del settore)il sindacato è sempre stato parte integrante del sistema. Ti accorgi del suo ingombro quando parli con amici o conoscenti che lavorano altrove, in altri settori privati. Da noi se ti rifiutano un giorno di ferie chiami il sindacato; se ti mandano in mensa troppo presto o troppo tardi chiami il sindacato; se hai l'impressione di lavorare più dei tuoi colleghi chiami il sindacato; se un capo ti riprende chiami il sindacato, mentre negli altri posti in linea di massima se hai il posto fisso t'incazzi ma poi te ne fai una ragione, se sei precario fai buon viso a cattiva sorte.


Le organizzazioni sindacali qui presenti sono per molti lavoratori (per fortuna non per tutti) al pari di assicurazioni a basso costo, è sempre opportuno averne una in tasca, quale sia, spesso non fa nessuna differenza, l'importante è che confaccia alle tue esigente individuali.


L'ipocrisia più evidente si palesa nei momenti assembleari. In privato la gente dà magari fiducia ai sindacati più abietti e incapaci ma capaci di garantire clientela col padrone (che si ottiene attraverso cessione di diritti collettivi, sennò in che altro modo?!?), mentre in pubblico si slogano i polsi ad applaudire i esponenti di organizzazioni autonomie che dal pulpito fanno interventi tipo Breda anni settanta, attaccando più "i confederali" che l'azienda, ma non raccogliendo, all'atto pratico, alcuna adesione tra i dipendenti.


Certo, non fossero queste le condizioni generali, difficilmente Cgil, Cisl, Uil, Ugl e gli altri avrebbero tanti iscritti, visto che con le recenti leggi sulla regolamentazione dei conflitti e in generale sui diritti dell'impresa, l'agire sindacale tradizionale in questo settore è frantumato. Di conseguenza c'è chi si è adattato perfettamente al clima e chi, seppur tra contraddizioni e compromessi, cerca di svolgere il suo ruolo.


Tra i lavoratori invece ognuno si gestisce come meglio può, come se fosse un libero professionista. Alla fine a posto io, degli altri chi se ne fotte.


Non l'hanno inventato loro questo modello di vita, si sono semplicemente limitati a prendere esempio da molti (per fortuna non tutti) sindacalisti a tempo pieno.

martedì 14 settembre 2010

A gangster tale



Probabilmente non è molto professionale recensire la seconda parte di un dittico di pellicole senza aver visto la prima, ma sostanzialmente me ne frego, considerato che col mio modo schizofrenico di vedere i film non so se e quando completerò l'opera.

Il nemico pubblico numero uno del titolo è Jacques Mesrine, delinquente francese molto noto negli anni settanta, qui interpretato da Vincent Cassel.
Rapinatore di banche, amante della bella vita e delle belle donne, spietato quando si trattava di aprire il fuoco contro le forze dell'ordine, con un'abilità speciale nei travestimenti, il criminale transalpino è entrato nella storia anche per le sue spettacolari evasioni (quattro) e per il rapporto con i media, che usava precorrendo i tempi come cassa di risonanza per suo mito.

Spaccone, orgoglioso ed egocentrico al punto di andare in bestia se i giornali omettevano di citarlo dopo un'impresa, Mesrine ha vissuto buona parte della sua esistenza tra carceri di massima sicurezza e vita alla macchia, non negandosi comunque mai nessun privilegio e riuscendo anche, durante la detenzione, a scrivere un libro autobiografico.

La narrazione del film illustra le sue imprese e il contesto storico parallelo (il golpe in Cile, le Brigate Rosse in Italia), fino alla deriva di onnipotenza che porterà Jacques a sparare (non prima di averlo massacrato di botte) ad un giornalista (che si salverà miracolosamente) reo di aver pubblicato un feroce articolo su di lui. Sconvolgente l'epilogo, che, essendo cronaca, è di certo la parte più fedele alla realtà di tutta la pellicola. Mesrine viene praticamente giustiziato per strada da un plotone di quattro agenti , senza che gli venga initmato di arrendersi o data la possibilità di consegnarsi. Veramente agghiacciante.

Impossibile non tracciare un parallelo tra la storia di questo malvivente d'oltralpe e il nostro Renato Vallanzasca, parallelo che va dalla tipologia di criminali (belli e dannati) alle produzioni cinematografiche. Se quella di Placido (in uscita) ancora non possiamo giudicarla, almeno possiamo fare una riflessione sulle contestazioni che da sempre hanno accompagnato le iniziative artistiche legate alla vita del bel Renè. Chissà perchè si sono potuti fare da sempre, in Italia e altrove, film o serial tv su criminali di varia natura senza che venisse giù il mondo, mentre quando si parla del bandito della Comasina si scatenano inevitabilmente polemiche moralistiche a non finire.

Comunque, tornando a Nemico pubblico numero uno - L'ora della fuga, la mia valutazione dell'opera è senza dubbio positiva. Al netto del realismo della trasposizione, il film, che omaggia anche i noir francesi dei settanta, mi è parso buono, con un ottimo ritmo, un'interessante ricostruzione del periodo storico e una buona prova di Cassel, seppur alle prese con un ruolo "facile". Ultimo ma non ultimo, mi sono preso una cotta per Ludivine Sagnier, attrice che interpreta l'ultima compagna di Mesrine.

lunedì 13 settembre 2010

Lo strano caso di P. e F. / 2

Aggiorno la situazione delle nipoti agli antipodi ( qui la prima parte) .

Dunque, entrambe fanno ora le scuole medie, ma mentre P. (figlia di mia sorella) fa le statali, F. (figlia dei cognati) frequenta un istituto privato religioso.

P. continua ad essere appassionata di lettura (fumetti, libri, qualunque cosa), e cinema e ha scritto un racconto fantasy di una cinquantina di pagine. Però siccome non voglio fare lo zio che si vanta della nipote fenomeno, aggiungerò che è una chiaccherona a livelli logorroici e che ha sempre più della maestrina.

F. continua ad essere nella spirale del fashion. Quest'estate ha chiesto ai suoi genitori di essere portata da Abercrombie, negozio stratrendy di Milano (ne aveva scritto Lisa qui), dove all'entrata si fa la fila manco fosse lo Studio 54 e a riceverti trovi un modello palestrato a torso nudo che si presta a farsi fotografare con te.
I genitori l'hanno accontentata, consegnandole con scioltezza una cifra che mi vergogno a riportare, chiedendomi la cortesia di accompagnarla a Milano, visto che ero in ferie a settembre. L'ho scaricata in fila e sono andata a riprenderla circa due ore dopo. Aveva azzerato l'enorme budget a disposizione e con le sue borse colme di roba firmata era felice come Capezzone quando gli fanno fare il portavoce.

(Forse) continua...

sabato 11 settembre 2010

Album o' the week / Aretha Franklin, Aretha in Paris (1968)



Era il sessantotto a Parigi, fate un pò voi. Per lei erano anche tanti chili fa e una voce divina. Era Satisfaction versione soul (via Otis Redding). Erano i tempi in cui, non si sa perchè, molti artisti di musica nera americana si trovavano benone nel vecchio continente e soprattutto in Francia(e non solo per sfuggire al fisco, come per gli Stones).

Era all'Olympia che si consumò questo rito mistico, che questi canti di liberazione e gioia trovarono perfetta collocazione.

Erano Respect, Chains of fools, (You make me feel like) A natural woman, Dr. Feelgood, I never loved a man (The way i love you).
Era un delirio annunciato, fiori sul palco, spiriti che si elevavano.



venerdì 10 settembre 2010

Free at last


Con un pò di ritardo sulla programmazione in real time, ho concluso la visione di Prison Break, serial di cui avevo già parlato, a proposito delle prime stagioni, qui e qui.

Nella sua quarta e conclusiva stagione (che consta anche di una "coda" di due ulteriori puntate), il telefilm che ha come protagonista Wentworth Miller conferma e amplifica al massimo tutti i suoi punti di forza e i suoi difetti, sospeso com'è tra soap e action-movie.

In questa ultima parte del serial, Michael Scofield e soci vengono reclutati dalla Sicurezza Nazionale per recuperare un congegno nelle mani degli oscuri complottisti già intravisti in precedenza, che si fanno chiamare "La Compagnia". Ovviamente non è tutto come sembra, e fra tradimenti, colpi di scena, clamorosi ritorni e rivelazioni sensazionali, si arriva al lieto fine che gli autori hanno avuto la decenza di spruzzare di malinconia. Ancora una volta la parte del leone la fanno i cattivi, monodimensionali, perfidi e feroci come characters da cartoni animati. Così appaiono Il Generale e la rediviva signora Scofield, subdola come Crudelia Demon, ma anche Don Self, l'uomo del governo (un bravo Michael Rapaport).

La quarta serie si conclude con un flash sulle vite dei protagonisti quattro anni avanti nel futuro, mentre l'epilogo "The final break" ci svela l'avvenimento centrale di quel lasso di tempo e il fato di Michael.

Confermo la mia prima valutazione, per godersi al massimo Prison Break occorre staccare il cervello, non porsi troppe domande sulle innumerevoli incongruenze degli avvenimenti, la poco verosimiglianza, i buchi di sceneggiatura e tutto quanto fa la differenza tra un prodotto che cerca il realismo e uno di pura evasione (ahah). Fatto questo, ci si può lasciar trasportare dal ritmo, dai cliffhanger e dai numerosi ribaltamenti di scena, godendosi un buon intrattenimento televisivo.
Questo in fondo è stato Prison Break.

P.S. Una curiosità per gli amanti di Lost. Curiosamente, in un paio di episodi appaiono in un breve cameo sia Mark Pellegrino che Titus Welliwer, rispettivamente Jakob e Blackman dell'Isola.

mercoledì 8 settembre 2010

Metalogy

THE SWORD
Warp Riders
Kemado, 2010

Quello che chiedo ad un disco metal è di certo un sound feroce, riff come se piovesse, basso e batteria che ti rovesciano come un calzino, un cantato appropriato. Ma anche accessibilità, una certa ricerca della melodia, un senso compiuto, la potenza e il controllo insomma. E' per questo che fatico ad andare oltre una certa soglia di brutalità (i confini sono da tempo tracciati da Sepultura e Pantera).

Un'esaltante riassunto delle caratteristiche di cui sopra è concentrato dentro Warp Riders, terza prova dei texani (vastissima ed eterogenea la scena del lonestar state, lasciatemelo dire) The Sword. Un disco potente, epico (attenzione, non in senso epic-metal), che nasce già così classico che più classico non si può. A partire dalla sua concezione, visto che parliamo di un concept album, operazione d'altri tempi, quando l'impegno richiesto all'ascoltatore era qualcosa che era più vicino alla lettura che allo scorrere di un puntatore di mouse su una lista di files.

Dal punto di vista dei riferimenti musicali, è indubbio che il baricentro delle scosse telluriche provocate dalla band sia quello dei Black Sabbath di Osbourne, ma poi i palazzi vengono giù ad ondate successive che richiamano i magnitudo dei primi Iron Maiden (l'open track Acheronunleashing the orb e Night city) e dei migliori 'Tallica (Astrea's dream). Ma, aldilà delle coordinate di riferimento, la forza degli Sword è riuscire ad essere unici e originali pur reintepretando un canovaccio che è l'abecedario di quasi tutti i gruppi che iniziano a suonare metal.

Warp riders nasce masterpiece, un disco senza tempo e per questo sempre attuale, laddove invece il rischio di suonare convenzionale o di mestiere era elevatissimo. E a proposito di unicità, prendete la portentosa copertina (opera di Dan McPharlin), sembra più la cover di un'Urania o di libro di Asimov, al punto che persino i 10cmq del packaging del cd gli stanno stretti, l'unica resa soddisfacente per enfatizzarne la grandezza è quella del vinile. Tra l'altro anche il numero dei brani e la loro durata è nostalgico di quando si ragionava di side A e B: dieci tracce per meno di cinquanta minuti.

Un album perfetto, dannazione. Un classico. Ah, ma questo l'ho già detto.


martedì 7 settembre 2010

The Shield a NYC


Quanti film/serial sulla corruzione della polizia sono stati girati in America? Secondo me sono la maggioranza rispetto a quelli con i good cops. L'esatto opposto di quanto avviene in Italia con le Squadre e Distretti vari, dove gli agenti sono sempre ineccepibili e ligi alle regole, a dispetto della realtà.


Pride and glory - Il prezzo dell'onore, si inserisce nel filone USA di cui sopra. Ci sono Edward Norton (buono, con una macchia nel suo passato che lo strugge), il fratello Noah Emmerich (buono ma ambizioso), il cognato Colin Farrell (corrotto), e il patriarca, pezzo grosso della Polizia, Jon Voight ("mai denunciare un collega").

Si inizia con un massacro di agenti che volevano fottere un trafficante e ci rimangono invece secchi, quindi le indagini, con Voight che richiama in pista Norton, ritiratosi in ufficio dopo l'episodio a cui facevo cenno sopra. Farrell occulta le prove, confonde le piste, si comporta da aguzzino con delinquenti, testimoni e persino con i neonati figli dei criminali, ma il suo destino, si sa, è segnato.


Film mediocre, anche se sostenuto da un'atmosfera adeguata (riprese notturne, realismo, squallore delle suburbs di New York) e da una discreta tensione narrativa. Di coraggio e denuncia non so se parlarne, visto la premessa al post.



Per fan del genere (e di Norton, magari).

lunedì 6 settembre 2010

Se questo è il futuro...


Per un pò il suo agire è stato interessante, dopotutto era l'unica opposizione presente in parlamento, anche se interna alla coalizione di governo.
Ma dopo il discorso fiume di ieri a Ferrara, per me Fini ha la credibilità di una banconota da due euro.


A sentirlo parlare come un giovane leader di un nuovo partito all'opposizione non sembra un quasi sessantenne che ha governato con il centro-destra per gran parte degli ultimi sedici anni; a sentirlo affermare "mi piange il cuore che un giovane su quattro sia disoccupato e gli altri precari" non sembra uno che votò la legge 276/03 (che qualcuno, sbagliando, chiama legge Biagi); a vederlo darsi arie da progressista non sembra uno che ha mandato a morire centinaia di immigrati con la legge che ha onorevolmente siglato insieme a quello che adesso individua come suo nemico, Bossi. A sentirlo lamentarsi di eccessivo autoritarismo, riferito al modo di governare di Berlusconi, viene da pensare che in questi ultimi tre lustri si sia distratto, perchè il cav. ha sempre gestito così il potere, peraltro con il suo assenso.

E a proposito del premier. Ma cosa avrà fatto mai di così grave e peggiore di quanto ha sempre fatto in passato con l'assenso dell'ex leader di AN, per provocare questa spaccatura ?


E detto per inciso, è ovvio che chi lo sostiene nel PDL è in malafede come il lupo che vuole aiutare cappuccetto rosso a trovare la nonna, ma a questo punto Fini dovrebbe immediatamente dimettersi dalla carica di Presidente della Camera dei Deputati. Sennò agisce come i suoi vecchi partner, che piegano leggi e morale alle loro necessità. E questo non va bene per un nuovo leader di un nuovo partito alternativo, vero Gianfranco?

Shrek ever after


Probabilmente la differenza commerciale più evidente tra i i cartoni della Disney Pixar e quelli della Dreamworks è che i tipi dell'azienda di Spielberg e soci quando hanno una buona idea la sfruttano fino all'osso. E l'orco Shrek è stata all'inizio un'ottima idea, una strepitosa intuizione. Il rovesciamento impertinente di tutti i clichè delle favole classiche. Re, principi, fate madrine che diventano perfidi. Orchi e draghi protagonisti positivi. Il gioco ha tenuto bene per i primi due episodi, che metto praticamente sullo stesso piano, mentre ha dolorosamente collassato per il terzo.


Lo spunto al quale si sono aggrappati quelli della DW per sfornare il quarto, è quello che impedisce ad una saga che non ha più nulla da dire di affondare, uno dei più abusati nel mondo dei comics seriali, l'unico possibile a questo punto. Quello cioè di fare un bel what if, vale a dire un racconto slegato dalla continuità narrativa dei personaggi e sbizzarrirsi a piacimento.
E beh, la cosa funziona abbastanza, anche se si sacrifica la peculiarità di Shrek, quella di prendersi gioco delle fiabe canoniche. Qui l'orco verde è un eroe con tutti i crismi, abbastanza convenzionale e brandizzato.
Fatti i conti con questo, il film risulta anche divertente, dinamico e spensierato.



Il fondo è grattato, non dovessero fermarsi, si comincerebbe a scavare.

sabato 4 settembre 2010

Level 42



Il programma della giornata è questo: scartavetrare un pezzo di muro del corridoio dove si era concentrata una macchia d'umidità a causa di un guasto idraulico, poi verniciare, sperando che il colore sia uniforme a quello del resto della parete, altrimenti ridipingere tutta la parete.

Poi devo rimuovere il silicone tra il bordo della vasca da bagno e la parete,che mi hanno messo da cani, e riposarlo in maniera decente. Sistemare il garage, lavare le macchine, cambiare l'olio alla Clio, mettere in ordine i segni della mia presenza in casa (cd, libri), che sono sparsi un pò ovunque. Se avanza tempo vorrei anche farmi una corsetta, che lunedì si ricomincia col calcio.

Fisicamente sto abbastanza bene, almeno rispetto ad un mesetto fa, quando ho probabilmente toccato il fondo. Pancia gonfia e fiato corto come mai prima (oddio, non partità mica lo spot dell'Activia, eh?). Così ho provato a mangiare un pò più regolato, eliminando roba stracondita, intingoli, junk-food e bibite gasate e l'effetto è stato quasi immediato, è davvero incredibile la velocità con la quale il mio corpo si è ripreso dalle tossine che aveva accumulato in mesi di regimi alimentari suicidi .


Che altro? Ah sì. Con l'odierno 5 settembre sono quarantadue.




Album o' the week / Afterhours, Non è per sempre (1999)



Gli Afterhours si smazzano con stile la trappola del "difficile terzo album" (in italiano). Non era scontato, visto che il predecessore (Hai paura del buio?) era diventato quasi subito oggetto di culto della scena indie nostrana che aveva consacrato il suo pezzo più noto, Male di miele, quale corrispettivo italico nientepopodimeno che di Smell like teen spiritis dei Nirvana.

Come si gestiscono tali aspettative senza lasciarci le penne? Semplice (ma anche no), con tanta ispirazione, un grande songwriting e un sapiente bilanciamento tra pezzi post-punk e oscure ballate. Apre Milano circonvallazione esterna ( lo devo dire che è figlia bastarda di Open all night di Springsteen?), poi la title track, splendido esempio di pop-song che si attacca addosso peggio di una sanguisuga in una palude, come Tutto fa un pò male, del resto. Si segna facile anche con Baby fiducia e La verità che ricordavo. Anche se probabilmente i ricordi più immediati ed eccitanti sono legati all'inno anti-generazionale Non si esce vivi dagli anni ottanta.

Pensate, tutta sta roba in un solo disco. Questi erano gli Afterhours.

venerdì 3 settembre 2010

E baldoria sia



Nelle playlist che ho finora amorevolmente compilato per Stefano, l'equilibrio nelle scelte pendeva sempre dalla parte della musica per bambini (sigle tv o classici dell'infanzia) con qualche progressivo inserto pop-rock. L'ultima invece ha cominciato a registrare un'inversione di tendenza. I pezzi adulti hanno superato gli altri, registrando sempre con il suo apprezzamento. Certo, si parla comunque di cose easy-listening, e non di roba pesa, mica gli metto su i Sodom. Però ho notato che gli piace la musica un pò truzza, che va ascoltata alta, sia essa dance o rock. Probabilmente apprezza basso e batteria, le vibrazioni nello stomaco.

Quando siamo in auto da soli facciamo i tamarri alla grandissima. Su un pezzo come I like to move it di Will. I. am le portiere della macchina vibrano come se dovessero schiattare, idem su Bad reputation di Joan Jett o Ever fallen in love dei Buzzcocks (entrambe pescata da Shriek), mentre su Ob-la-di Ob-la-da dei Beatles il volume può anche scendere, tanto il gradimento resta alto. Poi si torna a girare in su la manetta per All star e I'm a believer dagli Smash Mouth, sull'immancabile Real gone di Sheryl Crow, l'evergreen Il rock di capitan Uncino di Bennato e ancora Boom boom pow dei Black Eyed Peas e Surfin bird dei Ramones.

Il grido di battaglia, il via alle danze, la deflagrazione degli altoparlanti è una frase convenzionale. "Fare baldoria" la chiama lui.
Il posizionamento prevede: braccio fuori dal finestrino, occhiali da sole, sguardo da duri incurante delle occhiatacce degli altri automobilisti e movimento ritmato della testa.
Oddio, forse sembriamo un pò Beavis and Butt-Head, ma in fondo che ci frega, che baldoria sia!


giovedì 2 settembre 2010

Serial empire


Nella carica dei 101 nuovi serial (esagero, ma neanche troppo) della stagione americana che sta per iniziare, l'attesa più frenetica è certamente per Boardwalk Empire, telefilm di HBO prodotto da Mark Wahlberg e Martin Scorsese (che dirige anche il pilota) con Steve Buscemi, Michael Pitt, Kelly MacDonald e Gretchel Mol.

La storia (ideata da Terence Winter, creatore dei Soprano) è un gangster movie ambientato ad Atlantic City durante il proibizionismo. Dalla collaborazione di due "menti" dal background così diverso, ci si aspetta tanto, anche se una saga in costume parte con qualche rischio di audience in più rispetto a produzioni collocate nel presente.



Altro serial di cui si è molto parlato anche sui media italiani è The Big C, dove C sta beh, per Cancer. In breve alla protagonista viene diagnosticato un tumore che le lascerebbe solo pochi mesi di vita e la storia narra delle sue decisioni a seguito di questa drammatica notizia. In USA pare che le associazioni dei malati abbiano avuto reazioni diametralmente opposte, che sono andate dall' apprezzamento alla contestazione. Da segnalare nel cast, un piccola parte per Gabby Sidibe, già protagonista di Precious.


Non è ancora chiaro chi (e se) trasmetterà questi serial in Italia. In ogni caso, grazie alla rete, credo riusciremo a recuperarle entrambe.

mercoledì 1 settembre 2010

Broken hearts


Non inganni la locandina da commedia all'italiana, Questione di cuore è sì un film che offre momenti di leggerezza (soprattutto nella prima parte) ma la sua mission primaria è quella del dramma esistenziale, svolto attraverso la rappresentazione di due personaggi agli antipodi, Angelo (Rossi Stuart) e Alberto (Albanese), entrambi costretti da un infarto (è proprio nella terapia intensiva dell'ospedale che si conoscono) a misurarsi con l'eventualità di non sopravvivere, e quindi a fare prematuramente il punto sulle proprie esistenze.

Alberto nella vita scrive soggetti per il cinema (una delle scene più divertenti è quella in cui Verdone, Sorrentino, la Sandrelli, Virzì e Lucchetti, interpretando se stessi, lo vanno a trovare in ospedale e Verdone si cimenta nell'ipocondriaco che dicono sia anche nella vita) ed è in crisi creativa ed affettiva (le cose con Carla, la sua fidanzata, vanno male). E' uno che ha un grande talento letterario ed una feroce intelligenza che lo porta ad essere nichilista, diretto, saccente, perentorio. E profondamente infelice.

Angelo, al contrario, ha un'attività di officina per auto d'epoca che va bene, è sposato con due figli e un terzo in arrivo. Bonario, sereno, soddisfatto, orgoglioso della sua famiglia e della posizione che è riuscito a raggiungere con il lavoro.

Lo stesso drammatico contrattempo (un grave attacco di cuore), offrirà ad uno di loro la possibilità di una nuova partenza e all'altro un'imboscata letale.


Sarà pure che un soggetto così ha gioco facile nell'intercettare le corde più intime e sensibili del pubblico, però devo confessare che questo film della Archibugi mi ha emozionato profondamente, arrivando a più riprese a commuovermi. Avrà contribuito l'identificazione con i personaggi, entrambi poco più che quarantenni?

E a proposito di personaggi, i due attori protagonisti sono fantastici, perfettamente nella parte. Kim Rossi Stuart è pallido con le occhiaie, emanciato, debole, si muove come se camminasse sott'acqua e parla sottovoce, a fatica. Antonio Albanese è straordinario nel rappresentare l'alternanza dei momenti di enfasi contagiosa a quelli di inconsolabile depressione, caratteristici del suo personaggio.

Certo, la pellicola non è esente da imperfezioni, rappresentate un pò dai luoghi comuni (eddai cazzo, l'infermiera - una brava Chiara Noschese - che la dà via facile potevate risparmiarcela) a temi sociali accennati ma lasciati lì (le tensioni razziali nella periferia romana), al cameo di un Paolo Villaggio impresentabile (e lo dico io che lo apprezzo davvero tanto)ad una rappresentazione di una romanità un pò da cartolina. Il saldo finale resta comunque ampiamente positivo, con rilevanti picchi emotivi.

Tenete i kleenex a portata di mano.