giovedì 29 marzo 2018

Phil Campbell and the Bastard Sons, The age of absurdity

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Nel film Wacken 3D, girato nel corso dell'edizione 2013 del notissimo festival metal, Phil "Wizzo" Campbell, il più longevo chitarrista dei Motorhead (la sua permanenza nel gruppo comincia nel 1984 quando vi entra assieme all'altro axeman Michael Burston, portando per un periodo limitato la line-up della band a quattro, e si protrae fino al 2015), nel raccontare Lemmy Kilmster si lanciava in un pronostico tanto rock and roll quanto, purtroppo, infausto. Parlando del mitologico frontman dei Motorhead, infatti Phil sosteneva che: "è indistruttibile, se il mondo fosse spazzato via da una guerra nucleare, sopravvivrebbero solo gli scarafaggi. E Lemmy".
Oggi invece, all'alba del 2018, il buon Kilmster non c'è più (e con lui i Motorhead), mentre Wizzo se l'è cavata e tenta la strada autonoma, mettendo insieme una band dai connotati davvero particolari. Infatti, i Bastard Sons di cui alla ragione sociale sono davvero tre dei figli di Campbell (Todd,chitarra, Tyla,basso e Dane batteria) e vanno a costituire l'ossatura del combo, completato con il gallese Neil Starr (già negli Attack! Attack!) alla voce.
E The age of absurdity è un disco che più roccheroll non si può, con evidenti ed inevitabili rimandi ai Motorhead (Ringleader; Gypsy kiss; Dropping the needle), ma che non si fa mancare puntate nel moderno mainstream rock (Foo Fighters, Alter Bridge).
Insomma, quel già sentito che piace.

lunedì 26 marzo 2018

Auguri per la tua morte (2017)

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La giornata di Tree (Jessica Rothe) comincia come tutte le altre. In un letto che non conosce, dentro un dormitorio del suo campus universitario, senza memoria della serata precedente contrassegnata da bagordi alcolici. Insomma, l'ennesimo hangover di dimensioni cosmiche. Salutato freddamente il ragazzo, occasionale compagno di una notte, si avvia verso la dimora della propria confraternita. Nel tragitto che compie fino alla sua stanza, Tree ci viene subito mostrata come una stronzetta arrogante e superficiale, totalmente priva di affetti reali. Nonostante la ragazza non l'abbia detto a nessuno, in quel giorno ricorre il suo compleanno, celebrazione che, attraverso la sua compagna di stanza, viene divulgata a tutta la "sorellanza". La sera, recandosi ad una festa nel college, Tree viene inseguita da un individuo vestito di nero con il viso coperto dalla maschera della mascotte dell'università (una sorta di infante con un solo dente) che la pugnala a morte. Fine? No, perchè poco dopo Tree si sveglia nello stesso letto della mattina e rivive gli stessi medesimi avvenimenti. Le basta poco per capire che è intrappolata in un loop temporale che finisce sempre con il suo omicidio e che, forse, per uscirne (e sopravvivere), dovrà scoprire chi e perchè vuole ucciderla.

Che Jason Blum, produttore americano di horror a basso costo, abbia nel tempo sviluppato un invidiabile fiuto per le storie da trasportare sul grande schermo, è ormai un dato di fatto. La sua Blumhouse Production si è fatta carico di buona parte dei film di genere più interessanti degli ultimi lustri (Paranormal activity; Sinister; Le streghe di Salem; la trilogia de La notte del giudizio; Sinister) ma anche dell'ottimo Whiplash, fino ad arrivare all'Oscar 2018 per il miglior film indipendente, vinto per Scappa - Get out
Insomma, una sorta di nuovo re Mida del filone, che in qualche modo con il suo nome certifica un livello di qualità sempre medio alto delle produzioni.
La regola è rispettata anche per questo Auguri per la tua morte, horror movie non trascendentale ma sicuramente divertente, che definisco innocuo per l'assoluta mancanza di elementi marci/disturbanti e che si concentra più sul whodunit rispetto all'aspetto splatter (quasi del tutto assente). Brava la protagonista Jessica Rothe che in pratica si prende tutta la scena. 
L'idea di prendere lo spunto narrativo di Ricomincio da capo e girarlo in chiave horror è talmente esplicita che nelle ultime battute del film la circostanza viene addirittura citata da uno dei protagonisti.

giovedì 22 marzo 2018

Machine Head, Catharsis

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Tolto uno zoccolo duro di die-hard fans, saldati attorno ai Machine Head anche grazie agli straordinari live act offerti dalla band (l'inizio del tour di quest'anno ha battezzato la media di tre ore di show a serata), buona parte della critica negli ultimi anni ha cominciato ad imputare alla creatura del cantante chitarrista Rob Flynn di aver sviluppato una certa attitudine alla clonatura degli altrui brand musicali (Pantera su tutti).
Con Catharsis, nono titolo di una discografia iniziata nel 1994 col caposaldo Burn my eyes, Flynn pensa bene non solo di assecondare i suoi detrattori più accesi, ma addirittura di rafforzarne gli argomenti a sostegno delle critiche.
Catharsis si candida così al poco appetibile titolo di disco più ruffiano della storia del metal, con "ispirazioni" che spaziano su tutto l'arco costituzionale, dalla destra più becera alla sinistra radicale, senza negarsi anche qualche puntata nei gruppi extraparlamentari. Difficile capire cosa sia passato per la testa al leader dei Machine Head, considerato che, a prescindere dalle critiche di cui sopra, la sua è stata una carriera tutto sommato molto onesta, durante la quale la band si è costruita una solida reputazione tra il pubblico di genere, diversamente non sarebbe resistito a certi livelli per oltre un quarto di secolo.
E' legittimo pensare ad un tentativo in extremis di raggiungere un più ampio successo commerciale (obiettivo a quanto pare raggiunto), tuttavia le modalità scelte lasciano davvero basiti.
In questo moloch da quattordici tracce e settantacinque minuti di durata trovano posto riferimenti di tutti i generi, con composizioni in salsa Pantera (Volatile), nu metal, crossover (Triple beam), Linkin Park (Beyond the pale), ballatone simil grunge (Behind a mask), e finanche pezzi acustici in crescendo propri del combat folk (Bastards).
Il logico risultato di un'operazione di questo tipo dovrebbe essere il lancio del cd dal finestrino dell'auto in corsa, e invece, fatta la tara all'insincerità del lavoro, il mestiere, ahimè, a tratti paga e anche se il disco avrebbe beneficiato di una sforbiciata di almeno venti minuti, qualche melodia in testa rimane incastrata.


lunedì 19 marzo 2018

La forma dell'acqua

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Con La forma dell'acqua Guillermo Del Toro (regia, soggetto e sceneggiatura) compie ancora una volta un enorme, autentico, appassionato atto d'amore verso il cinema classico, infarcendo il suo ultimo film di elementi che richiamano le opere con cui è cresciuto, filtrate attraverso la classe e lo stile che lo rendono unico e restituite al pubblico.
Data la particolarità della storia, in mano ad un altro regista alcune sequenze avrebbero rischiato la comicità involontaria, e invece Del Toro, grazie ad una messa in scena elegante e una costruzione dei personaggi certosina, rende sempre fluida, naturale la sospensione dell'incredulità.
Nonostante l'handicap del doppiaggio (ma conto di rivederlo in originale), le prove attoriali sono emozionanti: la protagonista Elisa Esposito (interpretata da Sally Hawkins) si ritaglia un posto  nel cuore degli spettatori anche grazie ad uno script che evita di scivolare sui clichè della sua disabilità, dotandola di personalità, passione e, diciamo, esigenze pratiche comuni a tutti (le scene iniziali di lei nella vasca da bagno sono in questo senso un tocco di realismo apparentemente fuori posto nel contesto fiabiesco, e invece rappresentano un colpo di genio). Il suo unico amico e confidente Giles (Richard Jenkins - che per noi è sempre papà Fisher, il capofamiglia impresario funebre di Six Feet Under) è un altro character che sarebbe potuto uscire dalle opere di Billy Wilder, non si trattasse di un omosessuale represso e infelice.
Volendo trovare un difetto nelle prove attoriali, quella di Michael Shannon, interprete che adoro, è forse un pò troppo monodimensionale, i tic e lo stile del suo colonnello Strickland risultano già ampiamente visti, anche se non escludo l'intenzione del regista di rendere di proposito un personaggio con una modalità così "classica".
Ma il capolavoro che compie il film è quello di riuscire ad armonizzare in maniera incredibilmente naturale e spontanea tanti temi diversissimi tra loro con un'amalgama che fa tutta la differenza del mondo tra un mestierante ed un regista di talento. 
Partendo dall'amore dell'autore per la fantascienza dei cinquanta, e in particolare per Il mostro della laguna nera (di cui inizialmente Del Toro voleva girare il rifacimento), il regista costruisce una storia ambientata negli anni cinquanta che tocca disabilità, solitudine, discriminazione degli omosessuali, guerra fredda, spionaggio, arditi esperimenti scientifici, diversità e scelte esistenziali, attraverso un intero spettro di canoni cinematografici (fantascienza, dramma, romanticismo, thriller, spy story, musical). Il tutto con una leggerezza invidiabile, una messa in scena classicissima e una poesia che non lascia mai lo schermo, dai bellissimi titoli di testa alle ultime sequenze con la voce narrante.

The shape of water potrà anche essere accusato di essere il film più ruffiano e meno riuscito di Del Toro, e vivrà anche di tante imperfezioni, ma io ci ho visto un'opera incantevole che ti fa innamorare dei suoi personaggi, di una fotografia e di una messa in scena indimenticabile, in sintesi: del grande cinema.

giovedì 15 marzo 2018

Saxon, Thunderbolt

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Immarcescibili. Inossidabili. Imperituri. Per i Saxon si può tranquillamente utilizzare qualunque aggettivo che stia ad indicarne la longevità, a dispetto dei tempi e delle mode. Certo, ormai le band heavy metal che hanno debuttato nei settanta e che sono ancora in giro non si contano più, ma il combo dell'aristocratico frontman Byff Byford, pur non raggiungendo mai il successo planetario di colleghi come gli Iron Maiden e, in misura minore, dei Judas Priest (in uscita anche loro con una nuova release), hanno dalla loro, con ogni probabilità, la migliore reputazione possibile. Incarnano infatti il ruolo di autentici, granitici defenders of the faith, tra i pochissimi a non aver quasi mai derogato al credo metallico (al massimo qualche incursione nel glam/AOR, ma nella seconda metà degli ottanta era quasi impossibile non scivolarci sopra). I Sassoni sono soprattutto tra i pochissimi a non essere mai incappati in iato artistiche, macinando album su album, incuranti degli scenari musicali e delle stagioni che passavano, con una periodicità cronometrica, riuscendo a non fare mai passare più di tre anni tra un full-lenght di inediti e il successivo. Così facendo, dal 1979, anno di uscita del debutto eponimo, a questo Thunderbolt,  hanno messo in fila ben ventidue titoli.

Potrebbe bastare questa premessa per fare intuire il contenuto dell'ultimo lavoro del gruppo, e invece voglio evidenziare come, pur restando entro un perimetro stilistico limitato (heavy metal con qualche incursione nel power e nell'epic), il lavoro di songwriting e di composizione messo insieme in cooperazione da tutti i membri del combo riesce ancora una volta ad essere convincente e graffiante, con un crescendo che raggiunge a mio dire il suo acme a metà tracklist, con il mid-tempo a tinte gotiche Nosferatu (The vampire waltz), il doveroso saluto al sincero amico di una vita Lemmy e ai suoi Motorhead, They play rock and roll e Predator, un'inedita collaborazione con Johan Hegg, singer degli Amon Amarth, che con il suo growling introduce un elemento di novità, ben amalgamandosi con il cantato classico di Byff. Da segnalare anche un pezzo dedicato a quei soggetti, anche loro in parte mitologici, che accompagnano le band nei loro interminabili tour: Roadie's song

Come sempre, hats off for the Saxon!

lunedì 12 marzo 2018

La classe operaia va in paradiso (1971)


Primi anni settanta. Ludovico, detto Lulù (Gian Maria Volontè) è un operaio metalmeccanico appena trentenne. Reduce da un divorzio, vive con Lidia, anch'essa separata, e con il figlio di lei. Conduce un'esistenza sempre precaria dal punto di vista economico, zoppicante da quello della stabilità affettiva e incerta per l'aspetto della salute. In fabbrica però si trasforma in un drago. Oggi verrebbe definito il più performante di tutti i dipendenti: è l'indiscusso campione del cottimo, le sue prestazioni stabiliscono tempi di produzione e ritmi di lavoro a cui tutti devono adeguarsi, per questo è portato ad esempio dai capi ed, ovviamente, inviso agli altri colleghi. Vive una vita di totale indifferenza ai temi sociali, politici o sindacali. Tira dritto con la testa bassa per la sua strada di lavoro massacrante e straordinari per arrivare a fine mese ad una retribuzione decente, senza curarsi di niente e di nessuno. Tutto ciò fino a quando un grave infortunio sul lavoro non sconvolgerà la sua routine, obbligandolo ad un impietoso consuntivo della propria magmatica esistenza.

Tutti conoscono il titolo di questa seminale opera di Elio Petri, effettivamente geniale nella sua intuizione. Non sono invece convinto che lo stesso numero di persone, purtroppo, abbia poi effettivamente visto un film che, storicamente, vive di contraddizioni e paradossi.
Infatti, la pellicola, uscita nel 1971 poco dopo il varo dello Statuto dei Lavoratori (Legge 300 del maggio 1970), già solo dieci anni dopo risultava irrimediabilmente datata: nei primi ottanta, quando tutela dei lavoratori e potere sindacale si avvicinavano al loro zenith e la conquista di nuovi diritti sembrava inarrestabile, La classe operaia va in paradiso sembrava un reperto archeologico. 
Rivedendola oggi, l'opera di Petri, coadiuvato dal suo interprete feticcio Volontè (anche qui una superba lezione attoriale, è pleonastico ribadirlo), incredibilmente affronta quasi dei temi da instant movie. Certo, lo scenario dell'epoca era quello di una delle sterminate fabbriche metalmeccaniche onnipresenti sul territorio del nord Italia, mentre oggi gli stessi argomenti, ripresi paro paro se non peggiorati, sono presenti nei grandi centri logistici altrettanto preponderanti nei panorami che scorgiamo dal finestrino della macchina, ma per il resto, i ritmi di lavoro disumani, il cottimo, l'asticella della produzione sempre più alta, che caratterizzavano il lavoro dell'epoca, oggi hanno nomi più eleganti come l'algoritmo o il range, ma nel concreto si tratta di evoluzioni del cottimo. Non serve scandalizzarsi per il braccialetto inventato da Amazon, basta confrontarsi con un lavoratore dei magazzini che operano per i grandi colossi dell'e-commerce per sentirsi dire che, braccialetto o non braccialetto, i ritmi di lavoro ai quali sei quotidianamente sottoposto li puoi sostenere al massimo per tre-quattro anni, poi arriva inesorabilmente il crollo sia a livello fisico che mentale.

Tornando all'opera di Petri, il regista romano non si limita a mostrare il suo punto di vista sull'argomento fabbrica, ma accende un faro sulla società, e in questo senso lo smarrimento di Lulù, la sua alienazione, il percorso che compie a piedi, nel paesaggio inospitale e innevato che lo divide dalla fabbrica, tagliando in due i presidi, del sindacato confederale e dei più radicali studenti policitizzati, che chiamano schiavi gli operai, sembra quasi un viaggio epico, periglioso, che comunque Ludovico e i suoi colleghi compiono in maniera indifferente, rassegnata, apatica. In questo stato mentale, neanche l'avventura che il Massa si concede in auto con la giovane e avvenente operaia Adalgisa illumina l'esistenza del protagonista. Petri rende questo atto in maniera fredda, spogliato di ogni scintilla di trasporto o passione, consumato come si consumano caffè e sigaretta ai distributori automatici, nelle pause rubate al controllo dei capi reparto. 
A rivelare il profondo stato di alienazione del Massa anche la sua vita familiare, le cene nella penombra della cucina illuminata solo dal bagliore della televisione con una compagna (Mariangela Melato) a pretendere attenzioni che il guscio vuoto in cui si tramuta Ludovico, una volta fuori dalla fabbrica, non è in grado di concedergli.

Lo sa, Lulù, che bisogna tenere sempre la testa bassa e continuare a lavorare, senza concedersi slanci o sognare un'esistenza migliore, perchè quando lo si fa, il risveglio della realtà sarà più doloroso di un'intera esistenza di fatica e rassegnazione. Ribellandosi alla "macchina", Lulù riceverà proprio questa tremenda lezione, e quando sarà reintegrato al proprio posto di lavoro, lo smarrimento che vediamo sul suo volto rappresenta il tradimento subito da un'intera generazione.

venerdì 9 marzo 2018

MFT, Gennaio Febbraio 2018


ASCOLTI

JD McPherson, Undivided heart and soul
Jack Russell's Great White, He saw it coming
Converge, The dusk in us
Parkway Drive, Horizons
Mr Big, Defying gravity
Brian Fallon, Sleepwalkers
The Night Flight Orchestra, Amber galactic
Machine Head, Catharsis
Saxon, Thunderbolt
Phil Camblell and the Bastards Sons, The age of absurdity
Phil H. Anselmo and the Illegals, Choosing mental illness as a virtue
Starcrawler, ST
Carl Brave x Franco126, Polaroid
Tyler Childers, Purgatory
AA/VV, 30 years of Nuclear Blast
H.E.A.T., Into the great unknown
Hardcore Superstar, The party ain't over til' we say so



VISIONI

M - Il mostro di Dusseldorf
Sciopero!
Fahrenhait 451
Allied
L'uccello dalle piume di cristallo
L'ombra del sospetto
E tu vivrai nel terrore... L'aldilà
Logan
Clerks
Il poliziotto è marcio
Grindhouse: Planet terror
Todo Modo
L'ora legale
La classe operaia va in paradiso
This must be the place
La polizia ringrazia
La zona morta
Hooligans
Il gatto a nove code
Vestito per uccidere
Essi vivono
Tenebre
L'uomo senza sonno
Driver l'imprendibile
Demoni
La maschera del demonio (Mario Bava)
Cosmopolis
L'ombra del dubbio (Hitchcock)
Trainspotting 2
Reazione a catena (Mario Bava)
Dark Shadows
The Black Dahlia
Sleepless, Il giustiziere
Monolith
Black Panther


LETTURE

Paul Auster, 4321
George Saunders, Lincoln nel bardo

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mercoledì 7 marzo 2018

Black Panther


Da qualche anno le produzioni cinematografiche della Marvel hanno preso una piega imprevista ma assolutamente intrigante: laddove i progetti legati ai nomi dei personaggi più noti (Fantastici Quattro, Hulk, Devil, lo Spider-Man post Raimi) hanno arrancato nel gradimento del pubblico e della critica, characters fin qui del tutto marginali hanno invece fatto letteralmente il botto. Super-eroi "di riserva" come Ant-Man, Deadpool o i Guardiani della Galassia sono stati protagonisti probabilmente delle migliori trasposizioni Marvel di sempre. Perchè allora non provare con un altro eroe minore dello sconfinato portfolio del mitico duo Stan Lee/Jack Kirby?

Cinematograficamente parlando, Pantera Nera (Black Panther) era stato introdotto in Civil War, l'ultimo film degli Avengers, dove avevamo assistito all'uccisione causata da un attentato terroristico del primo Black Panther, l'anziano re del Wakanda T'Chaka e di come il figlio T'Challa (interpretato da Chadwick Boseman) ne abbia preso posto e costume. In questo film assistiamo ad una premessa collocata in America nel 1992 che condizionerà gli eventi futuri. Tornando ai giorni nostri, T'Challa viene ufficialmente incoronato successore al trono del Wakanda, uno stato che decenni prima aveva scoperto di avere un'enorme ricchezza nel sottosuolo (un metallo chiamato vibranio) e aveva però deciso ti tenere il mondo all'oscuro di questa preziosa risorsa. Così, mentre il Paese è diventato ricchissimo e tecnologicamente talmente all'avanguardia da essere un passo avanti nel futuro, agli occhi esterni il Wakanda appare come uno dei tanti poveri Stati africani. Il vibranio è però oggetto del desiderio di molti, dalle organizzazioni criminali alla Cia, e questo, unito al desiderio di vendetta di Killmonger (Michael B. Jordan, già la Torcia Umana nel reboot dei Fantastici Quattro e il figlio di Apollo in Creed di Stallone), per i fatti narrati in premessa, condurrà il Paese ad una guerra civile, e T'Challa ad una situazione drammatica.

Lo dico subito: Black Panther non è, come da molti, soprattutto oltreoceano, affermato, il "miglior film Marvel di sempre". A mio avviso non ci si avvicina nemmeno. La dinamica della storia è assolutamente prevedibile e in linea con la maggior parte dei film di genere, con l'aggravante che, da spettatore, si parteggia senza esitazione per i villains (oltre a Killmonger, un irresistibile Klau - l'attore Andy Serkis - ). Le spezie che dovrebbero insaporire il plot sono inefficaci in quanto avare di sapore: un pò di Shakespeare nei rapporti familiari, una spruzzata di questione razziale, orgoglio nero quanto basta, qualche metafora sulle risorse minerarie africane sfruttate dall'occidente, un pizzico di riflessione sulle diseguaglianze in (ipocrita) salsa disneyana. Effetti speciali e computer grafica nella norma, scene d'azione ormai consolidate. 
Insomma un film semplicemente piacevole, confezionato con una ruffianeria verso gli afroamericani che dovrebbe irretire. E invece, da Kendrick Lamar che cura la colonna sonora, a chi ci vede i semi della rinascita della blaxpotation (come se, dal punto di vista di cultura pop, Black Panther sia il nuovo Superfly o il moderno The harder they come) a quanti gli attribuiscono il rilancio della moda etnica africana, sono tutti lì a spellarsi le mani.
Il tempo ci dirà. Gli incassi intanto assicurano sequel plurimi.

lunedì 5 marzo 2018

I miei dischi preferiti del 2017

Il 2017 è stato un altro anno musicalmente interessante, capace di regalarmi tanti dischi di buono/ottimo livello, ma con pochi picchi fuori spettro. 
Per questa ragione fino all'ultimo sono stato indeciso se pubblicare gli otto titoli senza graduatoria, ma in totale parità e rigoroso ordine alfabetico. 
Alla fine, riascoltandoli tutti, ho deciso che un podio in realtà poteva esserci, anche se in coabitazione. 



POSIZIONE NUMERO DUE (ax aequo)


Dream Syndicate, How did I find myself here

Fabri Fibra, Fenomeno

Gang, Calibro 77

Little Steven, Soulfire

Tyler Childers, Purgatory

Waterboys, Out of all this blue



POSIZIONE NUMERO UNO (ax aequo)

Carl Brave x Franco126Polaroid

Converge, The dusk in us



Fuori per un'inezia:

Avatarium - Hurricanes & halos
JD McPherson - Undivided heart and soul
Tossers - Smash the windows
Warrior Soul - Back on the lash 


E anche per quest'anno è andata.

venerdì 2 marzo 2018

80 minuti, Speciale le migliori canzoni del 2017

Come preannunciato, a seguire i ventidue brani che vanno a comporre il mio meglio del 2017 saturando ogni secondo disponibile del tempo concesso da un ipotetico CD-R. Un'avvertenza, la classifica degli album che pubblicherò il prossimo lunedì conterrà artisti o band non necessariamente presenti in questa playlist.

Il link associato ai titoli conduce ad una pagina youtube dove potete ascoltare la traccia (o almeno così dovrebbe essere se non ho fatto casini).

1. Lindi Ortega, Til the going gets tough

2. The Dream Syndicate, Filter me through you

3. Prophets of Rage, Hail to the chief

4. John Mellencamp, Grandview

5. The Waterboys, If the answer is yeah

6. Bob Wayne, 420 bound

7. Avatarium, The starless sleep

8. Chuck Berry, Big boys

9. Gang, Non è una malattia

10. Flogging Molly, The hand of John L. Sullivan

11. Steve Earle, So you wanna be an outlaw

12. Warrior Soul, I get fucked up

13. Marty Stuart and His Fabulous Superlatives, Lost on the desert

14. Deep Purple, One night in Vegas

15. Little Steven, Soulfire

16. Alice Cooper, Paranoiac personality

17. The Mavericks, Damned (If you do)

18. The Tossers, Drinkin all the day

19. Thunder, Rip it up

20. Converge, Broken by light

21. Tyler Childers, Tattoos

22. JD McPherson, Let's get out of here while we're young