lunedì 29 aprile 2019

Ammore e malavita (2017)

Locandina italiana Ammore e malavita


Sopravvissuto all'agguato di un clan rivale, Don Vincenzo Strozzalone (Carlo Buccirosso) si lascia convincere dalla moglie Maria (Claudia Gerini), a fingersi morto per cambiare identità e vita, lontano, in qualche paese esotico.
Le cose si complicano quando l'infermiera Fatima (Serena Rossi) scopre casualmente che in realtà il boss è vivo e in convalescenza presso l'ospedale in cui lei lavora.
L'infermiera è condannata a morte dal boss, che manda ad ucciderla il suo uomo più fidato, Ciro (Giampaolo Morelli), che però, al momento di premere il grilletto, realizza che Fatima altri non è che il suo grande amore di gioventù, abbandonato per intraprendere la carriera criminale dopo l'uccisione del padre.

Come spesso amano fare, i Manetti mischiano le carte dei generi cinematografici lasciando lo spettatore senza punti di riferimento confortevoli. 
Cominciamo col dire che Ammore e malavita è un musical, imperniato perlopiù sul genere melodico napoletano. Ma se, come me, detestate questo genere (il musical, non la canzone napoletana), dategli comunque una chance, perchè, per una volta, le canzoni e le coreografie che interrompono il flusso degli eventi si armonizzano magnificamente con il contesto.
Tolta quest'unica definizione stilistica, il film si muove tra diversi canoni: inizia come una commedia del paradosso, letteralmente geniali in questo senso le scene in cui il sosia di Don Vincenzo, ucciso solo per essere sostituito a lui nelle funzioni funebri, comincia a cantare dall'interno della bara mentre viene portato a spalla fuori dalla chiesa, oppure l'idea del tour guidato, organizzato per turisti americani, a Scampia nei luoghi "dove è stato girato Gomorra".
Ma Ammore e malavita è anche altro. E' un drammone sentimentale, ma anche un omaggio ai poliziotteschi nostrani. E' una "crime story" ed è anche un "action" non banale (vedi i rallenty delle pallottole modello Matrix), grazie alla tecnica  eccelsa dei registi italiani, che emerge in maniera chiara.
Gli attori e i caratteristi fanno la loro porca figura. Sugli scudi una fantastica Gerini, un sempre affidabile Buccirosso, ma, soprattutto, ottime prove sono fornite da Raiz degli Almamegretta (Rosario, il partner di Ciro) e il cantante Franco Ricciardi (Gennaro, il "luogotenente" del boss), le cui parti cantate sono, anche per pathos, le più convincenti.

Un film intelligente, stratificato e divertente che ancora una volta mette in luce il talento e la creatività dei Manetti nel reinventare la tradizione cinematografica italiana, donandogli freschezza, colore e dinamicità.

martedì 23 aprile 2019

Tesla, Shock

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Parafrasando quello spot di una banca, i Tesla erano una band differente.
A partire dal nome. Infatti, nel periodo d'oro del glam metal (seconda metà degli ottanta) con i nomi delle band infarciti di X e Z, questi cinque ragazzi di Sacramento, California scelsero, sconsigliatissimi, il cognome dell'inventore serbo/americano Nikola Tesla.
E poi perchè, ed è l'aspetto che più conta, nella distanza con quel metal leggero ed effimero preceduto dal prefisso "hair" si misurava tutto lo stile musicale del combo. Tecnico eppure mainstream, accattivante ma profondo. 
Da non dimenticare tra l'altro che i Tesla avviarono (inconsapevolmente?) la moda degli show unplugged su MTV con il loro, leggendario, Five man acoustical jam del 1990.

Come stanno i Tesla nel 2019? Benino, grazie.
Hanno perso a mio avviso quell'unicità degli anni d'oro (dal 1986 al 1991 l'inarrivabile trittico Mechanical resonance, The great radio controversy, Psychotic supper), ma, con questo Shock, sono ancora in grado di farsi riconoscere, grazie soprattutto al timbro vocale di Jeff Keith e le linee di chitarra di Frank Hannon, nonostante la produzione affidata al chitarrista dei Def Leppard Phil Collen, com'è facilmente prevedibile, conferisca al lavoro una patina estremamente easy listening.
E' in questo senso assolutamente spiazzante la title track, un tuffo nelle sonorità più pop metal di "quegli anni", nella quale il trademark defleppardiano emerge in maniera prepotente. Il resto della tracklist non è tuttavia così compromesso, nel sound. 
Certo, emergono reminiscenze degli Aerosmith (You won't take me alive; Love is a fire), dei "Van Hagar" (Taste like) o di nuovo dei Def Leppard (The mission), ma senza mai cancellare del tutto l'identità dei Tesla che alla fine comunque viene fuori, inconfondibile, in un pezzo come Tied to the tracks.

Un album divertente che raggiunge la sufficienza piena, d'altro canto è dura per tutti mantenere trent'anni dopo la qualità di quando si era giovani e innovativi.

giovedì 18 aprile 2019

Fitness da fifties

La sera stessa in cui mollavo il calcetto, dopo un quarto di secolo passato a calcare i terreni sintetici, assumevo la perentoria decisione di iscrivermi subitissimamente, la mattina successiva, in palestra.
Con giusto un pelino di ritardo, un anno dopo, eccomi varcare il tornello della palestra vicino casa.
L'ultima volta che avevo sollevato un manubrio circondato da gente sudata e sbuffante ricordo che ascoltavo in cuffia, ovviamente con il Walkman Sony, un disco appena uscito di un gruppo emergente:erano i Nirvana di Nevermind. Per dire.

Tutto sommato l'ambiente della palestra in quasi tre decenni  non è poi così cambiato. I soliti fanatici/fanatiche, persone comuni, outfit rivedibili assieme a roba pro, giovani, giovanissimi, falsi giovani e qualche cariatide di ambo i sessi.
Se proprio vogliamo, rispetto a trent'anni fa, la novità ovvia è rappresentata dallo smartphone, che ho visto molti tenere sullo "schermo" della cyclette o del tapis roulant per guardare i video durante l'attività fisica.
La prima sessione è stata molto soft (il tizio che mi ha preparato la prima scheda ha subito avuto pietà del mio stato fisico), ma nonostante ciò, al termine dell'oretta di fitness, avevo braccia, gambe e addominali anestetizzati. 
In pratica mi sono sentito come Neo, in Matrix, quando scopre di avere muscoli talmente inutilizzati da non conoscerne nemmeno l'esistenza.

Però dai, si tiene duro.

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lunedì 15 aprile 2019

Deicide, Overtures of blasphemy

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Quanto mi faceva paura Glen Benton quando ero un ragazzetto! 
In un periodo in cui il metal estremo (death-black) era circondato da un'aurea satanica davvero oscura e spaventosa, questo tizio che si era tatuato una croce rovesciata sulla fronte mi appariva come un autentico fanatico del demonio.
Trent'anni dopo, ora che il death metal non spaventa più nessuno, i suoi interpreti storici fanno tenerezza e il buon Glen si è pagato un'operazione di chirurgia plastica per rimuovere quell'obrobrio inciso sulla fronte, possiamo tranquillamente concentrarci solo sull'aspetto musicale dei Deicide.
Overtures of blasphemy è il dodicesimo album della band di Tampa, Florida. Esce a cinque anni di distanza dal precedente In the minds of evil e, come spesso accade quando membri storici escono polemicamente da una band per formarne un'altra (parliamo dei fratelli Hoffman), i superstiti (oltre a Benton il batterista Asheim) vanno al recupero di una confort zone musicale che coincide con un ritorno ad un mood aggressivo e ad una rinnovata cazzimma.
Overtures of blasphemy rientra perfettamente nello schema. Death metal classico e godibilissimo da sparare al massimo quando hai le balle in giostra, testi rigorosamente anti cristiani e, musicalmente parlando, evidenti influenze dal doom (l'attacco dell'opener One with Satan) e dal thrash (su tutte, Excommunicated).
Fin qui, il lavoro death più divertente dell'anno.



lunedì 8 aprile 2019

John Mellencamp, Other peolple's stuff (2018)

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A metà degli ottanta, anche se era una disputa tutta americana e tuttalpiù riservata a nerd italiani appassionati di blue collar rock (come chi vi scrive), la contesa per il trono di true rocker era tra Springsteen e Mellencamp. Poi entrambi hanno virato. Bruce prima sull'introspezione di Tunnel of love e poi smarrendosi e ritrovandosi, John in maniera più salda anche se meno redditizia, sulle radici popolari della musica a stelle e strisce. 
Negli anni l'ex coguaro ha continuato su questa sua personale ricerca, assumendo il ruolo, pressochè incontrastato, di traghettatore delle tradizioni, che propone amalgamandole al suo inconfondibile sound.
Così i violini e la fisarmonica si armonizzano con le sue ritmiche, i suoi refrain ancora irresistibili, la sua meravigliosa voce che il tempo ha reso ancora più roca e struggente.
Al volgere del 2018, dopo aver pubblicato il non meno che ottimo Sad clowns and hillbillies, Little Bastard licenzia un secondo lavoro, oggetto della presente recensione.
A dirla tutta Other people's stuff non è un disco di canzoni nuove, bensì un patchwork con brani altrui (da qui il titolo) pubblicati nel corso degli anni da Mellencamp sui propri lavori o su vari tribute album.
A differenza dello strepitoso Rough Harvest (1999), le tracce non sono nemmeno re-incise, ma solo selezionate e messe in fila una dietro l'altra.

Con queste premesse, in teoria nemmeno il più accanito fan potrebbe trovare motivi di interesse nell'ascolto di questo lavoro. 
E invece il disco suona come se fosse un'uscita a sè stante, e non una raccolta, in qualche caso ci riporta alla memoria grandi canzoni del passato, come To the river, da Human wheels, Teardrops will fall (di Wilson Pickett) o Stones in my passway (di Robert Johnson) da Trouble no more; in altre si pesca dal nuovo Sad clowns and hillbillies (Mobile blue) o dal già citato Rough harvest, come per il traditional In my time of dying, tuttavia è indubbio che, per quanti conoscono a memoria il repertorio dell'ex Cougar, gli spunti interessanti arrivino dai brani regalati negli anni alle varie compilazioni di tributo, come Dark as a dungeon (resa celebre da Johnny Cash), Wreck of the old 97 (interpretata da Guthrie, Seeger e lo stesso Cash), Eyes on the prize (traditional ripreso anche da Springsteen) e I don't know why I love you di Stevie Wonder.
Stupisce, visto il profilo del lavoro, l'assenza di Wild night di Van Morrison, la cover più famosa di Mellencamp contenuta in Dance naked.

In conclusione Other people's stuff sarà anche un disco prescindibile, ma sfido chiunque ad ascoltarlo restando indifferente.


lunedì 1 aprile 2019

Thunder, Please remain seated

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Ecco un altro disco convenzionale, banale nella sua idea, ma che tuttavia si è rivelato longevo ed emozionante.
I Thunder, di recente tornati alla ribalta con una doppietta di ottimi lavori (Wonder days e Rip it up), celebrano i trent'anni dalla loro nascita con un disco acustico, nel quale rivisitano una dozzina di proprie composizioni, opportunamente scelte anche dal repertorio dei pezzi meno famosi.
Non una novità per i Thunder (ed in particolare per il frontman Danny Bowes) proporre musica con la spina degli ampli staccata, ma Please remain seated è la prima occasione per dare finalmente a questa forma di presentazione dei brani una visibilità propria. 

D'altro canto alla band non mancano certo i mezzi tecnici per performance di alto livello qualunque modalità espressiva decida di utilizzare e Bigger than both of us , che apre l'album, lo dimostra, prima di tutto perchè recupera un ottimo brano che, per le precedenti modalità di pubblicazione era passato in sordina (la canzone era inserita nel bonus cd della riedizione del masterpiece Laughing on judgement day, uscita nel 2009), e poi perchè la canzone, in questa versione, è ricca di swing e di sfumature old time.
La bravura dei musicisti sta nel riuscire a trasfigurare completamente il mood delle composizioni originali, come avviene per esempio per Girl's going out of their head, che da anthem rock si trasforma in un delicato smooth jazz con un ruolo trainante di contrabbasso e piano.
Che gli vuoi dire a questi? Cosa vuoi dire a due ballate "anema e core" come I'm dreaming again e, soprattutto, Loser oppure all'immancabile Low life in high places, proposta con l'arricchimento del fraseggio di una tromba e di un possente coro di voci di natura classica?

L'album è rilasciato in versione cd singolo, con dodici tracce, e in versione de luxe, con un disco aggiuntivo contenente altre sette canzoni, tra le quali il manifesto della band, Higher ground, Like a satellite e lo struggente blues acustico Robert Johnson's tombstone.
Chiaramente la versione estesa del lavoro è la più completa, ma il mio personalissimo consiglio è quella di approcciare a prescindere questo lavoro, sia che già conosciate i Thunder, sia che li approcciaste per la prima volta. 
Sarebbe lo stimolo migliore per andare a riscoprire una grande band di hard rock di stampo britannico.

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