martedì 23 aprile 2019

Tesla, Shock

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Parafrasando quello spot di una banca, i Tesla erano una band differente.
A partire dal nome. Infatti, nel periodo d'oro del glam metal (seconda metà degli ottanta) con i nomi delle band infarciti di X e Z, questi cinque ragazzi di Sacramento, California scelsero, sconsigliatissimi, il cognome dell'inventore serbo/americano Nikola Tesla.
E poi perchè, ed è l'aspetto che più conta, nella distanza con quel metal leggero ed effimero preceduto dal prefisso "hair" si misurava tutto lo stile musicale del combo. Tecnico eppure mainstream, accattivante ma profondo. 
Da non dimenticare tra l'altro che i Tesla avviarono (inconsapevolmente?) la moda degli show unplugged su MTV con il loro, leggendario, Five man acoustical jam del 1990.

Come stanno i Tesla nel 2019? Benino, grazie.
Hanno perso a mio avviso quell'unicità degli anni d'oro (dal 1986 al 1991 l'inarrivabile trittico Mechanical resonance, The great radio controversy, Psychotic supper), ma, con questo Shock, sono ancora in grado di farsi riconoscere, grazie soprattutto al timbro vocale di Jeff Keith e le linee di chitarra di Frank Hannon, nonostante la produzione affidata al chitarrista dei Def Leppard Phil Collen, com'è facilmente prevedibile, conferisca al lavoro una patina estremamente easy listening.
E' in questo senso assolutamente spiazzante la title track, un tuffo nelle sonorità più pop metal di "quegli anni", nella quale il trademark defleppardiano emerge in maniera prepotente. Il resto della tracklist non è tuttavia così compromesso, nel sound. 
Certo, emergono reminiscenze degli Aerosmith (You won't take me alive; Love is a fire), dei "Van Hagar" (Taste like) o di nuovo dei Def Leppard (The mission), ma senza mai cancellare del tutto l'identità dei Tesla che alla fine comunque viene fuori, inconfondibile, in un pezzo come Tied to the tracks.

Un album divertente che raggiunge la sufficienza piena, d'altro canto è dura per tutti mantenere trent'anni dopo la qualità di quando si era giovani e innovativi.

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