lunedì 25 novembre 2019

La banda di Eddie (Eddie and the Cruisers), 1983

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Ecco un film che non sono riuscito a vedere all'epoca della sua uscita e che volevo recuperare da tempo.
New Jersey, primi anni sessanta,  Eddie (Michael Parè) e la sua band, i Cruisers, riescono a costruirsi una buon seguito di fans grazie al loro rock-soul energico e trascinante. Quando al gruppo si unisce anche Frank (Tom Berenger), il complesso ha una svolta, i testi si fanno più articolati e poetici, e la musica fa altrettanto. Ma proprio nel momento della verità, con un nuovo album registrato, Eddie apparentemente muore (il corpo non si trova) in un incidente automobilistico e i nastri del disco scompaiono. Vent'anni dopo la giornalista di una testata televisiva vuole riaprire il caso, tentare di recuperare i nastri e provare a dimostrare che Eddie è ancora vivo.

La banda di Eddie, pur vivendo di una messa in scena irrimediabilmente anni ottanta e pertanto un pò datata, e pur non essendo un capolavoro, ha più di una freccia al proprio arco e "rischia" suo malgrado, col tempo, di assurgere a piccolo culto.
La storia, tratta da un romanzo dello scrittore P.F. Kluge, poggia sulle spalle del duo Tom Parè, al semi esordio, davvero perfetto nella parte della rockstar tormentata, e Tom Berenger. 
Musicalmente il suono dei brani è forgiato sul mood che ha reso celebri Springsteen e Bob Seger. Da rimarcare come John Cafferty, un onesto clone dei due artisti testè citati, autore ed interprete originale della colonna sonora, non volesse all'inizio "cedere" i suoi brani all'Eddie del film, salvo poi ricredersi, visto che il soundtrack di Eddie and the Cruisers è rimasto il suo unico e più grande successo.
Interessante anche riflettere su come, in qualche modo, la pellicola abbia anticipato la grande moda dei revival tour, soprattutto quelli nei quali, delle band che portano in giro la passata gloria, è rimasto magari un unico componente originale (qualche esempio? Dai Creedence ai Dire Straits, senza mai dimenticare la vergogna di questi Queen).

Il film ha avuto anche un seguito, fortemente voluto dal solo Parè, e girato senza alcun attore del cast originale, eccetto "il bassista" Matthew Laurance, che curioso a dirsi, anche nella storia del film è l'unico che porta avanti la band negli anni ottanta, dopo la morte di Eddie.

Da non sottovalutare.

lunedì 18 novembre 2019

Royal Republic, Club Majestic

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Dal 2010 ad oggi gli svedesi Royal Republic non sono certo rimasti fossilizzati a guardarsi l'ombelico mentre continuavano a macinare il loro alternative hard rock di buona fattura, ma inevitabilmente derivativo (Hives, Hellacopters). 
Hanno invece indossato giacche con paillettes e lustrini e, con questo ultimo Club Majesty, sono scesi in pista da ballo a proporre un tamarrissimo concentrato di disco-rock.
E' così, pochi cazzi. 
Ce lo chiariscono subito con la doppietta iniziale Fireman & dancer (qui il video) e Can't fight the disco.
C'è da dire che l'ibrido è riuscitissimo, la liason tra i power chords delle chitarre rocchettone coi ritmi da dance floor e la voce da crooner alla Tom Jones del singer Adam Grahn (Blunt force trauma) fanno faville per un kitsch voluto, perseverato e ottenuto dalla prima all'ultima nota.

Meno di trentacinque minuti di divertimento sfrenato da consumare col volume più alto consentito.



lunedì 11 novembre 2019

Little Steven, Summer of sorcery

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Una carriera musicale del tutto particolare, quella di Little Steven. Ogni springsteeniano che si rispetti conosce bene il ruolo cardine che Mr. Lento ha avuto nella forgiatura del maestoso ed epico suono della E Street Band, nonchè della sua tecnica, mai fine a sè stessa, come chitarrista.
La sua produzione personale è invece meno nota e molto discontinua (l'avevo brevemente riassunta qui), ma oggi, con la E Street a riposo, dopo aver interrotto una iato di oltre tre lustri ed essere tornato nel 2017 con l'eccellente Soulfire, ecco che il chitarrista/cantante/attore, rilascia un nuovo album: Summer of sorcery.

E se con Soulfire aveva riaffermato con autorevolezza le proprie radici musicali (soul, blues, rock), andando anche al recupero di alcune delle sue tante gemme distribuite nel tempo, con Summer of sorcery si spinge oltre, aprendo senza più limiti il proprio spettro musicale.
Con i sei minuti della prima traccia, Communion, l'accelerazione si avverte in maniera inequivocabile, attraverso un paio di cambi di tempo e di mood davvero spiazzanti, all'interno della stessa canzone.

Insomma, è un Little Steven che non pone vincoli alla propria ispirazione, quello alla plancia di comando, probabilmente consapevole del fatto che non è dalle vendite del disco che sfamerà la sua famiglia, non scende a compromessi commerciali e tira dritto per la sua strada, come dimostrato chiaramente in un pezzo dalle sonorità latine, inequivocabilmente chiamato Party mambo! .
Superato lo smarrimento iniziale, non si vuole più scendere da questa giostra, che regala soul d'autore quali Love again (che rieccheggia I don't want to go home) o Soul power twist, che si inchina per l'ennesima volta alla incommensurabile grandezza di Sam Cooke.
Ottimo anche il recupero di Education, un pezzo presente nel sottovalutato album di funk elettronico Revolution, del 1989.

Nell'ascoltare il disco non può che scattare immediato il collegamento con il recente film documentario Asbury Park - Lotta, Redenzione, Rock and Roll, rispetto alla cui produzione Miami Steve ha dato un importante contributo, nel quale emerge in maniera cristallina lo sconfinato amore per la musica di Bruce, Steve e il resto di quella generazione di giovani, che passavano intere giornate e nottate ad avvicendarsi sui palchi dei clubs suonando di tutto, in jam sessions che sembravano non finire mai.
Oltre cinquant'anni dopo, lo spirito di quei giorni è tutto in questo disco, non ho dubbi al riguardo, nel caso ne avessi sarebbero spazzati via dalla chiusura blues tiratissima di I visit the blues, e, soprattutto, negli otto minuti del pezzo più E Street Band degli ultimi venticinque anni, quel Summer of sorcery che chiude coi botti l'album.

Summer of sorcery è insomma una commovente espressione di amore sconfinato, trasversale ed inesauribile per la musica. E in pochi, oggi, hanno l'autorevolezza di farsene carico a pieno titolo come Little Steven.

giovedì 7 novembre 2019

MFT, settembre - ottobre 2019

ASCOLTI

Royal Republic, Royal majesty
Dinosaur Pile-Up, Celebrity mansions
Satan Takes A Holiday, A new sensation
DSA Commando, Le brigate della morte
Crazy Lixx, Forever wild
Elizabeth Colour Wheel, Pink Palm
Bruce Springsteen, Western stars
Volbeat, Rewind, replay, rebound
Randy Rogers Band, Hellbent
Waterboys, Where the action is
Eagles of Death Metal, Presents boots electric performing the best songs we never wrote
Little Steven and the Disceples of soul, Summer of sorcery
L.A. Guns, The devil you know
Airbourne, Boneshaker
Alter Bridge, Walk the sky
Angel Olsen, All mirrors
Wilco, Ode to joy
Cody Jinks, After the fire
Crashdiet, Rust
Darkthrone, Old star
Dirty Honey, st (EP)
Iggy Pop, Free
Imsomnium, Heart like a grave
Mark Lanegan Band, Somebody's knocking
Matt Woods, Natural disaster
Mayhem, Daemon
Michael Kwanuka, st
Michael Monroe, One man gang
Nick Cave and the Bad Seeds, Ghosteen
Nile, Vile nilotic rites
North Mississippi Allstars, Up and rolling
AA.VV., Once upon a time in Hollywood (Soundtrack)
Phil Campbell, Old lions still roar
Sentenced, Down
Slash 'n' Snakepit, It's five 'o clock somewhere
Steel Panther, Heavy metal rules
Sturgill Simpson, Sound and fury
Tom Keifer, Rise
Van Morrison, Three chords and the truth


VISIONI

Quando alice ruppe lo specchio (3/5)
Un gatto nel cervello (2/5)
11.6 The french job (3/5)
Halloween - The beginning (3,5/5)
Indagine ad alto rischio (1,5/5)
Piccolo Cesare (4/5)
Il cecchino (3/5)
Venere in pelliccia (Polanski) (4/5)
Incontrerai l'uomo dei tuoi sogni (3/5)
C'era una volta a Hollywood (4/5)
Green book (4/5)
Game night (2/5)
Sonatine (4/5)
The raid (4/5)
Dark City (3/5)
La befana vien di notte (2/5)
Il trucido e lo sbirro (3/5)
Rambo, Last blood (3/5)
Modalità aereo (0,5/5)
The disaster artist (3,5/5)
La terza madre (2/5)
Sotto shock (3/5)
Moglie e marito (2/5)
Joker (4/5)
La paranza dei bambini (3,5/5)
Vendetta dal futuro (2,5/5)
Dogman (4/5)
Trafficanti (3/5)
Lords of chaos (3,5/5)
The Predator (3/5)
Notti magiche (3/5)
L'odore della notte (4/5)

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Visioni Seriali

Sneaky Pete
City on the hill
Fleabag 1,2
1994
Rocco Schiavone 3
Goliath 1

LETTURE

Roberto Costantini, Tu sei il male
Graham Greene, L'americano tranquillo

lunedì 4 novembre 2019

Volbeat con Baroness e Danko Jones, Milano, 14 ottobre 2019

Ultimamente ogni concerto a cui assisto (sempre pochissimi, per la verità) in posizione eretta finisce per lasciarmi con la schiena a pezzi e la medesima considerazione: "sono troppo vecchio per queste cose".
Salvo poi, il giorno seguente, riprendere a sbavare come un adolescente davanti alla pagina dei tour aperta sul pc. 

Questa volta, assieme agli amici coetanei (chi più chi meno...) Filippo e Alessandro, si converge al Fabrique di Milano per la seconda visione degli amati Volbeat, sei anni dopo l'esaltante prima al Live Club di Trezzo (qui e qui).

Ormai ho recepito che l'orario di inizio delle gig spacca il secondo e quindi arrivo qualche minuto prima delle sette, giusto in tempo per Danko Jones, che attacca preciso preciso.
Il senso della sua esibizione è racchiuso già nei primi secondi di I gotta rock, estratta dal nuovo Rock supreme: sudore, anthem rock e coinvolgimento del pubblico.
Nonostante un'inquietante somiglianza col comico Cacioppo, il nostro Danko è la perfetta quintessenza del frontman rock, teatrale e ammiccante come da copione, con in più dalla sua una buona dose di simpatia che non non fa mai male.
Purtroppo ha a disposizione solo mezzora, nella quale la band comprime sette pezzi, con le stagionate First date, Had enough e la più recente Little rock and roll sugli scudi.



Pausa per il cambio di palco e per rintracciare i sodali, giusto due chiacchere di rispettivo aggiornamento e si parte con la seconda esibizione, ancora una volta in perfetto orario.

I Baroness, stilisticamente parlando, in una serata da rock ipercalorico un tanto al chilo, rappresentano un pò gli intrusi della serata.
Infatti la band di Savannah, Georgia, si discosta totalmente sia dalla proposta degli opener che da quella degli headliner, con una proposta di alternative metal costruita su lunghe parti strumentali, poche concessioni al singalong e una tecnica individuale decisamente superiore.
Anche dal punto di vista dell'outfit, i Baroness manifestano tutta la loro differenza dalle regole del tipico intrattenitore metal, con il solo leader John Baizley (costantemente impegnato in un rapporto onanistico con la pedaliera), agghindato in stile punk/metal (concordo con l'amico Filo che ha individuato una forte somiglianza con Nick Olivieri), mentre il resto dei presenti sul palco, compresa la bella e brava chitarrista Gina Gleason, avrebbero potuto benissimo essere scambiati per studenti del college impegnati in un saggio di musica.



Non tragga in inganno questa mia descrizione, l'ora di concerto concessa ai quattro musicisti è stata coinvolgente e suggestiva, solo, per quanto mi concerne, con una modalità di partecipazione più  estatica che sguaiata.
Una quindicina di pezzi per loro, dalla quale estraggo le mie favorite Throw me an anchor, Shock me, Take my bones away, tutte concentrate nella parte finale del set.

Tra tanti dubbi, qualche luce e più d'una ombra in ambito di nuova release è il momento dei Volbeat, che, dopo la canonica intro dei Motorhead (Born to raise hell) e la nuova intro di Nick Cave (Red right hand) raggiungono le proprie posizioni sullo stage.
Si inizia male, con un pezzo debole e di certo non in possesso del tiro necessario per aprire un concerto dei Volbeat, vale a dire The everlasting, tratto, ovviamente, dall'ultima fatica Rewind, Replay, Rebound.
Poi ci si risolleva un pò (Pelvis on fire, Doc Holliday, Lola Montez, Sad man's tongue) , pur tuttavia senza che il modo di stare sul palco di Poulsen riesca ad accendermi, troppo troppo "da compitino": freddo, distaccato e privo di entusiasmo. Lo stesso Caggiano, quasi completamente immobile, è difficile da ricondurre alle origini, che erano quelle dei palchi incendiati dal thrash-metal con i mitologici Anthrax, sebbene del periodo anni zero.

Con Danko Jones su Black rose

Ovviamente è un problema solo mio, che ricordo ben altro rapporto col pubblico nel concerto di sei anni fa, perchè invece i convenuti non si fanno menate e sembrano divertirsi.
Il meglio, ca va sans dire, arriva in coda, con alcuni pezzi finalmente incendiari che, nonostante il mal di schiena, mi spingo anche ad accompagnare con qualche timido e sgraziato saltello (Seal the deal, The devil's bleeding crown; Pool of booze, Die to live, Still counting).

Con uno spaesato figlio di Caggiano

I Volbeat mi lasciano insomma una sgradevole sensazione di esibizione formale, priva di autentici picchi di entusiasmo o di quel coinvolgimento emotivo (anche il sing-along di Ring of fire ad introdurre Sad man's tongue mi è apparso quasi dovuto, controvoglia) attraverso il quale i bravi performer riescono a fare credere al pubblico di ogni location di aver costruito con loro un rapporto unico, irripetibile e privilegiato.

Saluti e baci

Resta il piacere sempre autentico di aver rivisto gli amici Filo e, più fugacemente, Ale, coi quali ci si incontrerà sicuramente al prossimo concerto (ma non dei Volbeat), perchè, passato il mal di schiena, è un attimo ricominciare a credersi sedicenne.