giovedì 27 febbraio 2020

COVID-19

Italia: paese di santi, poeti, navigatori, allenatori di calcio. 
E virologi.

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martedì 25 febbraio 2020

Airbourne, Boneshaker (2019)

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Questa è una recensione che si scrive da sola.
Quinto album in dodici anni per la band australiana guidata dai fratelli Joel (Voce e chitarra) e Ryan (batteria) O'Keffe.
Nulla cambia rispetto al brand già noto e consolidato, vale a dire che gli Airbourne continuano imperterriti a clonare il sound AC/DC, componendo materiale inedito che potrebbe benissimo configurarsi come una discreta mole di outtakes di Young and company (non sono certo sia un complimento).
Dieci brani per mezz'ora di heavy boogie, tematiche che toccano sesso e spacconate. 
Forza anthemica a profusione. Brani trascinanti dal singalong assicurato (Boneshaker; Burnout the nitro; Sex to go; Rock and roll for life) che però vivono e muoiono nel tempo di qualche ascolto.

lunedì 17 febbraio 2020

The Boys

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Ho la bozza di un post conservata nell'archivio del blog, nel quale dichiaro non senza un moto d'orgoglio "luddista" di essere uscito dalla spirale delle serie tv e dello streaming, in favore di un ritorno pieno al Cinema.
Non l'ho mai pubblicata perchè mi conosco e so quanto possono essere umorali queste mie "scelte".
Però in linea di massima qualcosa è realmente accaduto nei miei gusti. Raramente le serie riescono ancora ad appassionarmi, credo sia proprio un tema di modalità di racconto, dei tempi morti che, inevitabilmente, si prendono i serial per arrivare al punto, dell'esasperante serialità che spesso svilisce anche le migliori idee, insomma di tutto quello che fa la differenza tra un'opera di un paio d'ore e un prodotto che può trascinarsi per anni.
Ne ho provate diverse, in questo periodo, spesso non sono andato oltre ai primi episodi, raramente concludendo la prima stagione (salvo giusto Fleabag in quanto geniale ed irripetibile). Dopo aver scritto per anni che le serie avevano raggiunto il cinema non sto affermando il contrario, solo ero forse un pò saturo e contestualmente avevo trascurato troppo la settima arte.

Lunga premessa per dire che The Boys rappresenta una gran bella eccezione. Una serie che, pur rispettando tutti i canoni della serialità, e non potrebbe essere altrimenti, visto che è tratta da un fumetto del 2006 tutt'ora in fase di pubblicazione (autore Garth Ennis), innova con irriverenza il genere, andando oltre Watchmen (fumetto che resta un capolavoro inarrivabile, rivoluzionario per l'epoca).
Ma laddove la serie di Alan Moore, pur dentro un'aspra critica sociale politica, continuava a riconoscere una morale, un'etica (magari distorta, in qualche caso fascista) ai suoi super-eroi, per The Boys la storia è completamente diversa.
I Super sono esseri idolatrati dalle masse, recitano sè stessi in mega produzioni cinematografiche, e, solo i migliori di loro, i "Sette, sono gestiti in toto (dall'aspetto social fino al loro affitto a peso d'oro a stati americani i cui capi sono magari in calo di consensi) da una multinazionale, la Vaught.
Ma i Super sono anche esseri lascivi, che frequentano club esclusivi dove si misurano in performance erotiche impensabili per gli umani, nonchè, cosa ben più grave, spregevoli, nel loro totale disprezzo per i "normali" che in realtà non hanno nessun interesse a proteggere. Proprio a causa di queste loro caratteristiche causano innumerevoli "danni collaterali" tra le persone. Danni che vengono accuratamente occultati da media e politica connivente. 

Hugh Campbell (Jack Quaid, figlio di Meg Ryan e Dennis Quaid), ultimo di una serie di umani ad aver subito una tragedia tremenda per colpa di un "super", viene contattato da Billy Butcher, un tizio strambo e misterioso che gli propone un obiettivo impossibile: vendicarsi. Attorno a loro si coagulano altri personaggi, a formare una squadra che più improbabile non si può. Questo è il team di sfigati (fino a un certo punto...) che si contrapporrà alla più potente squadra di super eroi esistente: i Sette.

Componente essenziale nella riuscita della prima stagione è senza dubbio il cast, dal quale emergono con personalità Karl Urban (Billy Butcher, il capo dei Boys); Elisabeth Shue (Madelyne Stillwell, ceo della Vaught); Antony Starr (il protagonista di Banshee è Homelander, il più forte dei super eroi, misto tra Superman e Capitan America) e la scoperta Tomen Kapon (Frenchie, hacker/tuttofare dei Boys), senza dimenticare il cameo del sempre apprezzabile Simon Pegg (padre del protagonista Hughie).

The Boys, come detto, non ha la potenza di Watchmen (il fumetto, intendiamoci!), ma in quanto a ritmo, divertimento, gag, tensione e critica sociale si afferma come prodotto d'eccellenza.
La seconda stagione è stata ultimata e dovrebbe uscire nei primi mesi dell'anno.


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lunedì 10 febbraio 2020

Swallow The Sun, When a shadow is forced into the light (2019)

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Sebbene io cerchi di tenermi al passo coi tempi, seguendo diverse tendenze di ambito metal, nella realtà sono ben pochi gli album dei generi più estremi che riesca veramente ad approfondire. Lo voglio premettere perchè quello che per me è un gran bel disco, per altri, più avvezzi a queste latitudini musicali, magari è un'opera come tante.

Gli Swallow the sun sono un gruppo finlandese attivo da una ventina d'anni, con sette album all'attivo, indicativamente posti sulla mensola del death/melodic-death metal.
Ecco, per quanto riguarda quest'ultimo When a shadow is forced into the light giustappunto di indicazione di massima si tratta, perchè le suggestioni che nascono dal suo ascolto si irradiano davvero in più direzioni, ma sempre all'insegna di una costante, struggente tristezza derivante dalla morte dopo lunga malattia di Aleah Stanbridge, compagna del leader (nonchè chitarrista e compositore di testi e musiche) degli STS, Juha Raivio.
A lei è implicitamente dedicata l'opera, le cui composizioni utilizzano perlopiù linee vocali  clean, con qualche eccezione congrua e opportunamente inserita, come per la title track che apre il disco. Un pezzo dall'impatto emotivo sconvolgente dal ritornello cantato proprio in screaming, a legare assieme dramma e teatralità della composizione.
Lo ammetto, è praticamente bastata questa canzone a farmi innamorare dell'album, tuttavia proseguendo con l'ascolto ho avuto modo di immergermi completamente in atmosfere gotiche, nebbiose, dark, che mi hanno fatto viaggiare con la mente conducendomi a  suggestioni estranee al metal, come Nick Cave, Bauhaus, certa new wave, addirittura retrogusti opachi di synth pop.
Ma la forza di When a shadow is forced into the light è la forza dei grandi album di musica di nicchia che trovano il linguaggio universale per uscire dal proprio recinto e rivolgersi a tutti, indistintamente, grazie ad un prezioso equilibrio tra complessità delle trame ed accessibilità delle melodie, che fanno di tracce come Firelights; Upon the water; Stone wings, Clouds on your side (l'unica canzone della tracklist composta assieme ad Aleah Stanbridge) o la conclusiva Never left, preziose gemme che straziano il cuore e al tempo stesso lo curano. 

No, non avevo sbagliato ad inserire questo disco, last minute, nei migliori del 2019.

lunedì 3 febbraio 2020

Sorry, we missed you

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Si torna di nuovo a scuola di cinema impegnato per farci spiegare da Ken Loach, l'unico che riesce (o forse l'unico a cui lo fanno fare) ad accendere i riflettori sulle condizioni del lavoro, anche del nuovo lavoro, in queste nuove metropoli ipermoderne, liquide, tecnologiche, "smart", ma che quando si tratta di sfruttare i lavoratori continuano imperterrite a copiare i modelli di cento anni fa.
Il titolo del film dice già molto, riportando la frase che compare sugli avvisi che i corrieri lasciano per avvisarci che sono passati con il nostro pacco quando non ci trovano a casa, e quindi lasciando intendere che si parla del nuovo lavoro del "driver", cioè di quel lavoratore incastrato in un ruolo tra subordinato (perchè lavoro per conto terzi) ed autonomo (perchè proprietario del mezzo), così da riuscire nel capolavoro capitalista di accumulare tutti gli svantaggi di entrambe le condizioni.

Ma, siccome quando si parla di Ken Loach, le cose non sono mai solo ed esclusivamente come sembrano, ecco allora che dentro la famiglia proletaria di Newcastle del "driver" Rick Turner (Kris Hitchen), oltre alla moglie Abbie (Debbie Honeywood), non meno sfruttata del marito nel suo lavoro di badante/infermiera a ore, emerge la storia del "problematico" figlio adolescente Seb (Rhys Stone, bravissimo).
E così ci vuole un ottuagenario (e lo storico sceneggiatore Paul Laverty) per spiegare a tanti genitori che si trovano nella condizione di Rick cosa passa per la testa di un quindicenne, gli sbalzi d'umore, l'indifferenza che diventa improvvisamente allegria, l'incomunicabilità che, a volte, si scioglie in un attimo. Oltre a questo il fallimento dell'istituzione scolastica, coi ragazzi che sembrano davvero privi di qualunque rete di protezione, mostrati attraverso il fato dell'amica di Seb.

Davanti ad un (ennesimo) film così, si perdona a Loach anche qualche eccessivo ricorso alla commozione facile dello spettatore (presente! colpito e affondato), che distoglie dall'implacabile lucida analisi della società. 
Analisi che, come sempre, è inglese nella location, ma universale nella sostanza (e nel messaggio).