"Hey, mister deejay won'tcha hear my last prayer?
hey ho, rock and roll deliver me from nowhere"
Open all night, Nebraska, 1982
Bruce Springsteen è l'artista più taggato del blog (siamo a quaranta post nel corso degli anni), ed è anche l'artista musicale che, come ho già avuto modo di affermare, fa più parte di me. Ciononostante, o forse proprio per questo, non gli ho mai risparmiato critiche, evidenziato incoerenze, segnalato un'eccessiva deriva "istituzionale", nonchè, di recente, rimproverato una bulimia di pubblicazioni dal valore altalenante ma tendente al basso, in palese contrasto con il rigore assoluto delle sue scelte nel periodo maggiormente florido ed ispirato (indubbiamente l'orizzonte temporale 1972/1984).
Ecco, per uno come me, che coltiva questo tipo di relazione con un artista (non sono l'unico, devi sapere che gli springstiniani - brutta razza - misurano la propria credibilità enunciando il numero di concerti visti del Boss, allo stesso modo con cui i ragazzini si sfidano misurandosi l'uccello), il momento del biopic movie non è un momento banale. Mettiamoci anche che fa strano assistere ad un film biografico con l'artista ancora in vita e che partecipa attivamente alla sua realizzazione. Non vorrei davvero essere nei panni del suo psicanalista. O forse sì.
Per fortuna, un pò ricalcando la stessa scelta compiuta per il recente film su Dylan, la pellicola si concentra su un periodo limitato della vita del rocker. Se per Bob era il primo lustro di carriera discografica, per Springsteen è addirittura poco più di due anni: dall'ultima tappa del trionfale tour di The river (Cincinnati, 13 settembre1981), passando per l'uscita di Nebraska (30 settembre 1982), e all'anno successivo, in cui mette a punto Born in the USA e inizia il suo lungo percorso terapeutico.
Il film di Scott Cooper è una trasposizione del libro di Warren Zanes Liberami dal nulla, recensito giusto qualche mese fa, che affronta una manciata di temi esistenziali ricorrenti per il Boss: la sua vita giù dal palco, le conseguenze del difficile rapporto col padre, il suo rapporto rigoroso con la musica che produce(va) e la depressione.
La difficoltà di mettere in scena una biografia di un artista marchiato a fuoco nella cultura pop è quello di trovare un bilanciamento e creare un prodotto audiovisivo d'impatto che accontenti i milioni che lo idolatrano e chi, il resto del pubblico potenziale, vorrebbe semplicemente assistere ad un film coinvolgente. Lascio ai secondi rispondere se la sfida sia stata vinta. Il mio giudizio alla prima visione è che il film vive di alti e bassi, pur raggiungendo la sufficienza piena (3,25/5).
Tra gli aspetti che non mi hanno del tutto convinto ci sono proprio quelli più tecnici, della messa in scena, in particolar modo il bianco e nero delle scene in flashback mi hanno lasciato una sensazione di prodotto televisivo (ci sarà un modo alternativo di fare uno stacco temporale senza ricorrere al b/n?). Inoltre, capisco che Jeremy Allen White - che pure è impressionate nella sequenza live in cui interpreta Born to run - dovesse "travestirsi" da Bruce, ma indossare per metà film la camicia che il vero Springsteen portava sulla copertina di The River forse è un pò too much.
D'altra parte chi, come me, si è documentato negli anni sulla storiografia springstiniana, avrà apprezzato alcuni riferimenti: la battuta del discografico in relazione alla montagna di outtakes (i pezzi inediti) di qualità che, fino al 1998, Bruce ha caparbiamente negato ai suoi fans (e alla CBS); l'enorme influenza che i Suicide hanno avuto durante la realizzazione di Nebraska (importante perchè il duo newyorchese muoveva in ambiti musicali abissalmente distanti da quelli della E Street Band); le note influenze cinematografiche, quali La rabbia giovane (il cui titolo originale, Badlands, è anche una delle sue canzoni più note) laddove la vera storia della coppia omicida raccontata da Malick aveva letteralmente ossessionato Springsteen al punto da dedicargli il brano Nebraska e La morte corre sul fiume di Laughton, infine quelle letterarie (su tutte Flannery O'Connor). Ora, capisci bene che se per un lungo periodo vai avanti a dosi di Flannery O'Connor e Suicide è complicato che tu stia proprio bene bene. Provare per credere.
Sul
rapporto col padre, più volte trasposto nelle canzoni, Bruce si era appena lasciato alle spalle rabbia e risentimento,
precedentemente incanalate in canzoni come Factory,
nel 1978 ("Fine
della giornata lavorativa / Gli uomini escono dalla fabbrica con la
morte negli occhi / e faresti meglio a crederci ragazzo / qualcuno si
farà male stasera")
e Independendence
day del
1980 ("L'oscurità
di questa casa s'è presa il meglio di noi / c'è un'oscurità in
questa città che ha fatto lo stesso / ma loro non possono toccarmi
più / e tu non puoi toccarmi più / non faranno a me quello che gli
ho visto fare a te").
Ora,
con le session di Nebraska,
attraverso brani quali My
father's house, Used cars e My
hometown (che
sarà pubblicata in seguito, su Born
in the USA)
era iniziata la fase della compassione e della nostalgia, della
comprensione del grande male oscuro che divorava Douglas Frederick
Springsteen e che egli riceve in eredità.
"Io so chi sei, grande rockstar!". "Almeno tu lo sai". Lo scambio di battute tra il venditore di auto usate e il Boss è sintomatico di come Springsteen in quella fase si sentisse perso, irrisolto, tra una massa in adorazione crescente e il bisogno di solitudine e di ricerca di sè stesso che non poteva risolversi solo in un disco a bassa fedeltà, disperato e anomalo, ma con l'aiuto di un terapeuta.
Forse è anche qui che il film non colpisce al centro il bersaglio. Per i primi due atti ci sembra di vedere un artista tormentato dalla direzione musicale che vorrebbe intraprendere ma cui non riesce a dare la forma che vorrebbe, solo nel terzo, con l'attacco di panico, viene acceso un riflettore sulla patologia che lo attanaglia. Così facendo si ridimensiona a pochi minuti di narrazione la centralità di un problema che invece, da quanto ci dice lo stesso Boss nella sua autobiografia, non l'ha mai abbandonato nel corso di tutta la sua esistenza. E pur tuttavia, la sequenza della prima seduta psicanalitica ci arriva comunque diretta, potente e ottimamente gestita da Jeremy Allen White.
Sul momento m'è parsa un pò forzata anche la storia d'amore con Faye (un'intensa Odessa Young), ma, evidentemente, per l'artista era invece essenziale (e qui si scatena il nerd springstiniano) per il particolare della collana con San Cristoforo che Bruce continua ancora oggi ad indossare costantemente, a sancire probabilmente l'importanza di quella storia nella sua vita. Poi, certo, il rapporto con Faye ci serve anche ad entrare nelle difficoltà relazionali di un uomo abituato ogni notte ad avere decine di migliaia di persone in pugno, ma che scappa davanti a quelli che potrebbero diventare legami importanti, duraturi.
Viceversa ho particolarmente apprezzato l'interpretazione di Jeremy Strong, che, dopo l'eccellente prova fornita per Roy Cohn, l'avvocato luciferino e corrotto, cattivo maestro del giovane Trump, ci regala un'altra recitazione perfettamente in parte, con un meraviglioso basso profilo, che ben ci spiega il rapporto paterno (nonostante per età si dovrebbe parlare di fratellanza) di Jon Landau con Springsteen. Sua una delle battute più esaltanti del film, quella "Qui, in questo ufficio, nel mio ufficio, noi crediamo in Bruce Springsteen" in risposta al manager CBS che ironizzava sulle potenzialità della canzone My father's house, in effetti la più indigesta di Nebraska, con le sue sei strofe tutte uguali per sei minuti di durata. A lui Landau fa digerire il diktat di Springsteen "no singles, no press, no tour", qualcosa di inaccettabile, per il mercato discografico dell'epoca e per un artista che ha costruito la sua leggenda sui concerti.
In realtà, alla fine, un singolo fu pubblicato. Si trattava di Open all night. E' dall'ultima riga di testo di questo pezzo saturo di disperazione e solitudine (richiamata in premessa al post e curiosamente identica ad un'altra canzone del disco, State trooper), che deriva il titolo della pellicola. Dedicargli qualche secondo pedagogico per spiegarlo forse sarebbe stato opportuno, diversamente lo spettatore deve sbizzarrirsi in ipotesi (anche irriverenti) sulla sua ragion d'essere.
Mettiamola così: il disco Nebraska (su cui peraltro tornerò a breve per la pubblicazione di una expanded edition) è uno dei più importanti della storia moderna della musica, il libro Deliver me from nowhere è un testo importante per comprenderlo a fondo, questo film è un buon prodotto che tuttavia dubito resista in salute all'erosione del tempo.


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