lunedì 22 dicembre 2025

Joe Ely e Raul Malo: The road goes on forever

I primi giorni di dicembre si sono portati via due miei riferimenti musicali di lunga data, Joe Ely e Raul Malo. Di Joe mi sono reso conto di non aver mai scritto un post da quando ho creato Bottle of smoke, e la ragione è che, dopo più di un decennio - fine ottanta fine novanta - ad ascoltarlo e a comprare i suoi album (ricordo un viaggio negli USA dove avevo esaurito il credito della carta di credito e con gli ultimi spiccioli, invece che cibo, prima di prendere il volo di ritorno acquistai il suo splendido Letter to Laredo, appena uscito) sono passato ad altro perdendolo un pò di vista. Era del 1947, aveva esordito discograficamente trent'anni dopo, nell'anno chiave della storia della musica moderna e non credete alle schede dei suoi dischi che descrivono il suo genere banalmente come country rock, Ely ha attraversato punk e post-punk, elaborando il sound del sua terra natia, il Texas, a stili ed influenze provenienti sia dal sud (il Messico) che dal nord-est (New York). Era amatissimo dai musicisti, Springsteen su tutti, che sovente l'ha invitato sul palco a suonare una delle canzoni del repertorio di Joe che il Boss preferiva: Settle for love. Non è passato spesso per il nostro Paese, ma in una di quelle volte sono riuscito a vederlo dal vivo e, nonostante il contesto (un teatro o una palestra di periferia), ci regalò un grande concerto. La vecchiaia non è stata clemente con lui. Settantottenne, da tempo soffriva di Parkinson. Mi piacerebbe resuscitare per lui una mia vecchia rubrica, 80 minuti, per suggerire una ventina di sue canzoni da cui iniziare per conoscere un'artista che ha dato tanto alla musica americana ma che, come capitò anche a Warren Zevon, ha avuto poco in cambio. 



Raul Malo, con o senza i suoi Mavericks, non ho invece mai smesso di seguirlo e di scriverne. Il tag del blog a loro nome conta nove post, fino alla recensione di Moon and stars del 2024 (che se album conclusivo doveva essere, lo è stato davvero col botto), con Raul già in condizioni di salute precarie a causa del cancro infame che se l'è portato via, ma a sentire la sua voce celestiale non l'avresti detto. Aveva da poco compiuto sessant'anni. Nato a Miami da profughi cubani, Raul aveva, inizialmente assieme agli storici sodali Mavericks, e poi alternando una carriera solistica (in tutto più di venti album), creato un caleidoscopico patchwork di country, latin, croonering, swing, rock and roll, tejano, pop, da far girare la testa e far muovere i piedi anche ad un frigorifero (come me). Ricordo bene il loro unico concerto che sono riuscito a vedere, al Rolling Stone di Milano nel 1998. In quell'occasione si portarono appresso anche una sezione fiati, per una gig torrenziale che spettinò lo sparuto gruppo di cauboi de noartri che si presentarono in sala con Stetson di ordinanza pensando di assistere ad uno spettacolo country. 



Come si dice oggi, la musica di Raul e di Joe mi sblocca ricordi emozionanti: persone che ho conosciuto, che ho amato, momenti felici e spensierati. 
Detesto la retorica delle frasi convenzionali davanti alla morte. Questi artisti, come altri, ci hanno lasciato un'eredità solida ed importante, non è da tutti imprimere una traccia nella storia della musica. E sta a noi continuare a farla vivere.

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