giovedì 6 dicembre 2018

Il boss (1973)

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Con Il boss, Fernando Di Leo, dopo Milano Calibro 9 e La mala ordina, chiude la sua trilogia del milieu consegnando alla storia del cinema di genere (e non solo) italiano (e non solo) un capolavoro secondo solo al primo capitolo del trittico di film.
Rispetto alle prime due pellicole, l'azione si sposta da Milano a Palermo ma ancora una volta la narrazione si apre con una grande sequenza iniziale: vediamo infatti un uomo (Lanzetta, interpretato da Henry Silva) introdursi nella sala proiezione di un piccolo cinema e fare fuoco con un lanciagranate sul pubblico presente, composto per intero dalla famiglia mafiosa Attardi.
La mattanza, eseguita su commissione di Daniello, boss di Lanzetta, è l'inizio di una vera e propria guerre da famiglie mafiose siciliane, nel quale si inserisce il calabrese Cocchi (Pier Paolo Capponi), scheggia impazzita della mala,  che per ritorsione fa rapire l'unica figlia di Daniello.
Referente di tutte le famiglie e "capo dei capi" è Don Corrasco (Richard Conte), il quale è chiamato ad intervenire per appianare gli attriti e riportare l'ordine in Sicilia, anche su pressione dello Stato, con il quale si intuisce avere un accordo di lunga e reciproca collaborazione. Anche le forze dell'ordine sono allertate, ma in questo caso le complicazioni aumentano perchè il questore (Vittorio Caprioli) deve guardarsi dal commissario Torri (Gianni Garko), al soldo della mafia.

Se l'impronta politica di Milano Calibro 9 era orientata alla disamina sociale, con riferimenti alla repressione degli studenti, alla criminalizzazione degli immigrati meridionali e all'orientamento politico di destra di prefetture e questure, con Il boss Di Leo affonda con precisione il colpo della denuncia delle connivenze tra Stato e mafia con una sceneggiatura e, soprattutto, dei dialoghi coerenti e credibili. L'avvocato Rizzo (Corrado Gaipa) che tiene i rapporti con i boss mafiosi per conto dello Stato è in questo senso una figura centrale, si rivolge a Don Corrasco con deferenza ma anche con fermezza e sciorina i conti in merito a quanto voti porta la mafia e in quanti parlamentari queste preferenze si traducano. Il film ci mostra una mafia radicata ovunque: istituzioni, governo, forze dell'ordine e persino nella Chiesa. La verosimiglianza degli eventi all'epoca andò di traverso a qualcuno, se è vero che un ministro presentò querela per diffamazione , provocando un iniziale sequestro della pellicola. 

Ma anche se ci limitassimo alla qualità dell'intreccio noir il film è solido come una roccia, con svariati twist e scene di azione non banali. Le interpretazioni sono di livello, con attori magari monoespressivi, ma perfetti alla bisogna (mi riferisco ovviamente ad Henry Silva) assieme ad altri che invece, attraverso un'interpretazione convinta, donano spessore ai propri personaggi, come Pier Paolo Capponi/Cocchi e uno strepitoso Vittorio Caprioli nei panni di un questore onesto ma disilluso, che usa il sarcasmo per sottolineare tutta la sua impotenza e le stridenti contraddizioni di quella terra.
Discorso a parte per i personaggi femminili, anche qui tratteggiati  in una modalità che oggi si definirebbe misogina, attraverso la parte di Antonia Santilli (Rita, la figlia di Don Daniello) raffigurata come un'odiosa  ragazzina viziata, ninfomane e decerebrata.
La messa in scena, al solito, pur nella povertà dei mezzi (ma la sequenza iniziale rimane straordinaria facendo passare in secondo piano l'evidente l'uso di manichini in luogo dei cadaveri), è spettacolare. Di Leo, che oltre alla regia firma soggetto (tratto dal romanzo Il mafioso, di McCurtin) e sceneggiatura, si muove con disinvoltura dentro il genere, regalandoci anche qui sequenze memorabili e scene plastiche.

Il film si chiude dopo uno dei tanti colpi di scena della storia e con la scritta "continua", chissà se Di Leo avesse effettivamente in mente di dare un seguito alla narrazione, magari accarezzando l'idea di una saga in più capitoli, o se quella scritta fosse una sorta di epitaffio al film con il monito che comunque quelle dinamiche "di fantasia" sarebbero continuate imperterrite nella vita reale.

Un fulgido esempio di come lo stile popolare del cinema di genere poteva graffiare allo stesso modo, se non più, di quello di impegno civile. Con la differenza che, essendo il genere privo di connotazioni ideologiche, imprimeva ad un elevato numero di spettatori "indifesi" un messaggio politico ben chiaro ed orientato.

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