giovedì 7 settembre 2017

Chuck Berry, Chuck


Forse se la sentiva Chuck Berry. Non che sia poi così paranormale che a novantanni suonati uno cominci a pensare che la fine potrebbe anche arrivare da un giorno all'altro. Sta di fatto che ha ben poco di casuale la coincidenza che uno degli artisti più influenti in ambito di musica popolare del novecento, dopo quasi trent'anni dal suo ultimo disco di inediti (Rock it, del 1979), si rimetta al lavoro giusto in tempo per completare un album, ma purtroppo non per vederlo distribuito, visto che la sinistra mietitrice lo coglie a marzo , tre mesi prima della release programmata.
Chiariamo subito che Chuck, il ventesimo album dell'uomo di St Louis, non ha niente a che vedere con quel senso di fine imminente che comunicava ad esempio David Bowie con il suo Blackstar, ma d'altro canto, se per impatto sulla cultura moderna i due sono ampiamente assimilabili, diverso è il discorso artistico, con il Duca Bianco sempre a reinventarsi e l'ideatore del duck walk fermo come una roccia sulla sua roba. 
Anche nell'ultima parte della vita di Berry è infatti mancata la svolta artistica che hanno avuti altri grandi vecchi (su tutti Johnny Cash sotta la guida di Rick Rubin), non è dato sapere se a causa del proverbiale caratteraccio del nostro che rendeva quasi impossibile qualunque collaborazione (chiedere per conferma a Keith Richards per i lavori di produzione del film Hail Hail Rock and roll)  o se per il suo altrettanto leggendario orgoglio, che lo vincolava strenuamente al genere che aveva inventato.
 
Per tutte queste ragioni Chuck è un disco che resta saldamente incardinato sui binari dell'arte dell'autore di You never can tell, fuggendo anche dalla facile tentazione di poggiarsi troppo su prestigiose ospitate. Vi troviamo infatti i soli Tom Morello e il promettente Nathaniel Rateliff, a coadiuvare il nostro su Big boys, oltre ad un'altro bel prospetto: Gary Clark jr che presta la sua chitarra all'opener Wonderful woman. Questi due brani sono tra gli highlight del disco, insieme al languido swing di You go to my head, interpretata a due voci con Debra Dobkin. 
Impressiona come la voce di Chuck Berry non mostri il segno degli anni, a differenza degli altri vecchi musicisti suoi coetanei dai cui lavori emergono tutte le cicatrici del tempo e i dovuti affanni dell'età (elemento per inciso che per il sottoscritto è carico di fascino). La traccia che lascia maggiormente trasparire la carta d'identità è anche quella più spiazzante e sperimentale, che spunta all'improvviso sulla fine del disco: in Dutchman infatti ascoltiamo uno spoken con la voce ben sopra agli strumenti che la accompagnano tessendo un intreccio bluesy asciutto e concentrico. Fanno sorridere invece i self-mockbusters Lady B. Goode e Jamaica moon, che rimandano esplicitamente a due pezzi storici del repertorio di Berry (ovviamente Johnny B. Goode e Havana moon). 
 
"Chuck" non suona come un testamento musicale, ma come un disco che richiama i precedenti e che avrebbe fatto da ponte con i successivi. In questo senso un disco ordinario. Ma un disco ordinario di Chuck Berry, perdiana, è sempre qualcosa da ascoltare. 

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