giovedì 19 ottobre 2017

Avatarium, Hurricanes and halos



Il rock degli ultimi anni è stato caratterizzato dall'esplosione incontrollata di band con voci femminili. Mai in passato c'era stato un numero così elevato di gruppi con queste caratteristiche, tanto che, nelle nostre analisi, più di un dubbio si affaccia in merito alla spontaneità del trend, rispetto al sospetto di un filone creato ed alimentato indistintamente da major e indie in considerazione dell'evidente buona predisposizione del pubblico moderno. Dopo di che ce ne sbattiamo delle analisi e basiamo il nostro giudizio sul valore delle opere, che in definitiva dovrebbe essere sempre il parametro più importante.

Gli Avatarium sono una band svedese che nasce tra il 2012 e il 2013 su impulso del bassista dei Candlemass Leif Edling, che raduna attorno a sé, tra gli altri, il batterista dei Tiamat Lars Skold e soprattutto la cantante Jennie-Ann Smith (anche lei svedese, a dispetto del nome) proveniente da tutt'altro circuito (quello jazz), per un progetto che, visti i membri fondatori, dovrebbe essere orientato al doom/gothic-metal. Il combo incide due EP e due album tra il 2013 e il 2015 (confesso di non averli ascoltati, ma recupererò) riscontrando, soprattutto con The girl with the raven mask un buon interesse da parte di audience e media.

A maggio di quest'anno esce Hurricanes and halos, il terzo full lenght e, diversamente dall'idea che mi ero fatto, non ci troviamo al cospetto dei sotto-generi ereditati dalle esperienze precedenti dei due membri fondatori, ma piuttosto ad un un rock di derivazione settantiana con rimandi ai grandi nomi tutelari del periodo, alternati ad  atmosfere rarefatte e lisergiche, che sfruttano a dovere le tonalità blues-oriented della singer.

Proprio dal punto di vista del mood complessivo del lavoro sembra che gli Avatarium non vogliano dare punti di riferimento certi all'ascoltatore, che viene investito dalla bocca di fuoco delle prime due tracce (Into the fire - Into the storm e The starless sleep) per poi restare invischiato nella vischiosa tela di due pezzi dilatati ed evocativi come The road to Jerusalem e gli oltre nove minuti di Medusa,che, dal punto di vista stilistico, scioglie la tensione elettrica iniziale nella nenia infantile del ritornello e in una lunga, acida, coda strumentale che traghetta il pezzo alla conclusione.
La sostanza è che le otto composizioni (di cui una, la conclusiva title track, strumentale) del disco trasmettono calore e una modalità di comunicazione antica, analogica. Nei testi si respira una ricerca non banale di cifra poetica (The sky at the bottom of the sea, la splendida When breath turns to air, tra gli Zep e Janis Joplin), per un risultato finale che convince appieno. 

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