mercoledì 9 febbraio 2011

I fought the law (and the law won) 2/2


Il contesto.


C'è stata indulgenza nel caratterizzare il Vallanzasca del film di Placido? A mio avviso sì. In parte per scelta artistica, per l'ergonomia del racconto. In parte forse, smussare alcuni angoli (quelli più brutali) può essere stato un calcolo traguardato ad ottenere l'empatia del pubblico nei riguardi di questa controversa figura.

Se è vero che alcuni passaggi sono infatti riportati esattamente così come sono stati raccontati dalle cronache o dalle testimonianze dello stesso Renato e dei suoi complici, cito ad esempio le dinamiche della fuga dal traghetto - di cui Vallanzasca parla durante quella latitanza
nell'intervista a radiopop - , il pianto a dirotto per aver investito un complice durante una fuga - confermata da Rossano Cochis, Moritz Bleibtreu/Sergio del film - , molti atti di insoburdinazione alle autorità carcerarie raccontate in prima persona in diverse interviste nonchè nell'autobio Il fiore del male, è altrettanto vero che alcuni episodi meno "edificanti" sono stati ignorati o edulcorati.

E' il caso della mattanza che si è compiuta nel carcere di Novara nel 1981 e dell'esecuzione dell' (ex) amico fraterno Massimiliano Loi (Enzo nel film).
Ecco, questo personaggio non ha beneficiato da parte degli autori della stessa benevolenza riservata al suo capo. Enzino viene infatti dipinto come un tossico inaffidabile, debole, debosciato e alla fine anche infame. In qualche modo, nell'ambito delle regole della malavita, se ne "giustifica" l'omicidio in carcere. La cronaca ci dice invece che quando il vero Loi è stato ucciso non era nemmeno ventenne. Che data la sua giovane età voleva rifarsi una vita, uscire dal giro. Che aveva iniziato a collaborare ma che non era provata la vile aggressione a scopo di furto ai genitori del bel Renè.
Questo omicidio è probabilmente l'unico, tra quelli di cui si è accusato pubblicamente Vallanzasca, sul quale l'ergastolano ha cambiato più versioni. Quello che si sa è che Massimiliano Loi, durante la rivolta nel carcere di Novara fu seviziato, ucciso e decapitato. Dell'agghiacciante particolare che con la sua testa i suoi assassini ci abbiano giocato a calcio non c'è conferma. Vallanzasca si è più volte contraddetto in merito alla sua responsabilità in quella esecuzione. Sta di fatto che Placido nel film ricostruisce un'altra dinamica. Rossi Stuart si fa giustizia, ma con una parvenza di dignità, sono altri detenuti ad accanirsi poi sul personaggio interpretato da Timi.
Così come non vengono raccontati altri due tentativi di evasione (falliti) compiuti armi alla mano in diversi carceri, anche lo stratagemma usato per farsi ricoverare in ospedale è diverso dalla realtà (ingestione di chiodi invece che iniezioni perpetrate nel tempo di sangue e urina infetti), ma fa comunque parte di un raccapricciante rituale che i più disperati tra i carcerati mettevano in atto per lasciare le celle.

Anche la figura affascinate, quasi romantica, del boss Turatello lascia un pò interdetti, dato che a suo riguardo le cronache parlano di una persona d'azione, cinica e spietata con i nemici.

Il Renato Vallanzasca che Placido consegna nelle mani degli spettatori è un concentrato quasi "idealizzato" della personalità del bandito d'onore, ma tutto sommato non così distante da quello reale, che non sopportava l'autorità precostituita,
che ancora oggi afferma di essere "deontologicamente" a posto perchè, cito testuale, non ha mai tradito, non ha mai sparato alle spalle e non ha mai aperto il fuoco per primo e che sostiene che i poliziotti sono consapevoli di rischiare la morte perchè ricevono un indennità di rischio (frase questa recitata anche nel film dove per fortuna è bilanciata dalla reazione sbigottita di Antonella, la sua interlocutrice).

Vallanzasca (quello vero) non si riconosce nel personaggio di Kim Rossi Stuart, nonostante il film sia tratto dalla sua autobiografia, la collaborazione alla sceneggiatura della moglie Antonella e la veridicità di molti episodi narrati. La cosa un pò mi stupisce perchè sembra che anche lui non voglia mancare al coro di polemiche che l'opera ha generato.

Polemiche che sono a mio avviso (al netto delle reazioni dei parenti delle vittime che hanno ogni diritto di protestare) figlie di una disonestà intellettuale di fondo, di un'ipocrisia tutta nostrana, considerando come i media, da sempre, inzuppino il biscotto in tutti gli aspetti della vita di Vallanzasca e di come, ancora oggi, il bandito dagli occhi di ghiaccio faccia vendere copie.
Non si capisce nemmeno perchè tutta questa morale valga solo per l'opera Gli angeli del male, visto che, ad esempio,il prodotto Romanzo Criminale (libro, film e serial) nonostante la banda della Magliana sia stato un vero cancro per lo Stato e abbia lasciato alle sue spalle centinaia di morti, ha invece raccolto consensi unanimi di critica e pubblico, arrivando a livelli di popolarità tali che ai mercati rionali si vendono bene t-shirt e felpe con le frasi della saga o con i nomi del Libanese e del Dandi, il tutto senza che nessun politico si scomponga, mentre, quando si cita Renato Vallanzasca ogni volta casca il mondo.

Dove sta il problema? Forse nel fatto che quelli della magliana sono o morti o spariti dalla ribalta in quanto pentiti, mentre il bandito della comasina è ancora vivo e non ne vuole sapere di tacere?
Il male o la sua rappresentazione esercitano da sempre un fascino oscuro, forse perchè rappresentano una fuga da un realtà che per molti è fatta di convenzioni, affetti formali, noiosi tran tran, rate del mutuo da pagare.
Però, in fin dei conti, può essere sul serio apologetico o a rischio emulazione raccontare la storia di una persona che su sessant'anni di vita ne ha passati quaranta in carcere (tra l'altro è di ieri la notizia dell'ennesima negazione della semilibertà), con il corpo sconquassato dai rigori della detenzione e dalle botte, che porta nel fisico i segni di una dozzina di colpi di arma da fuoco, che non ha in pratica mai visto il suo unico figlio?
Perchè è questa, in ultima analisi la morale che ci consegna la storia del bandito Vallanzasca.

Ho letto Il fiore del male una decina di anni fa, completamente a digiuno dell'argomento, a parte qualche sfocato fotogramma visto al tiggì da bambino, e devo ammettere che la storia mi aveva coinvolto, in una certa misura affascinato. Ma uno degli elementi che mi sconvolse fu leggere della condizione dei detenuti nelle carceri italiane. Anche di questa realtà, sebbene marginalmente, si occupa il film di Michele Placido. Di una realtà drammatica che ha visto nel 2010 suicidarsi una sessantina di persone fra le mura delle celle.

Ma con questo argomento, sarà una coincidenza, non ha polemizzato nessuno.

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