Warren Zanes, chitarrista dei Del Fuegos, band di culto che negli ottanta congiungeva new wave e heartland rock, deve aver fatta propria la massima della madre di Francesco Guccini ("un laureato conta più di un cantante") e, deposta la Fender, ha conseguito un dottorato in studi visivi e culturali, preso una cattedra alla New York University, e cominciato a studiare il rock and roll da quest'altra parte. Prima un libro sull'album di Dusty Springfield Dusty in Memphis, poi una biografia molto apprezzata su Tom Petty e infine il progetto al quale probabilmente teneva maggiormente, per l'influenza che Springsteen ha sempre esercitato su quella generazione di rockettari e per la rivoluzione discografica provocata dall'uscita di Nebraska, nel 1982.
Libri su singoli album importanti ne sono sempre stati fatti, quella di Zanes non è un'operazione inedita. Lo è forse la modalità con la quale il giornalista ci racconta la realizzazione di Nebraska, disco che fotografa in maniera brutalmente onesta un momento della vita di Springsteen - i primi ottanta - nel quale, ma "il boss" lo capirà più avanti grazie alla psicoterapia, l'artista, dopo la conclusione del trionfale tour di The river e con il suo seguito (quello che diventerà il million seller Born in the USA) già pronto per tre quarti, cade in una forma di depressione.
Entra in una fase in cui si isola, prende una casa "di altri e spoglia" (cit.) in affitto a Colts Neck, New Jersey, ed entra in un cortocircuito: mentre va in fissa con l'elettronica allucinata dei newyorkesi Suicide, si mette a registrare "grezzi demo casalinghi" solo con chitarra, armonica e voce su un quattro piste della TEAC. L'ispirazione per i testi segue lo stato d'animo del momento, Bruce, per esempio, scopre, attraverso il recupero del film di Malick La rabbia giovane (1973), la vicenda della coppia omicida Charles Starkweather e Carin Ann Fugate, che alla fine dei cinquanta uccise senza motivo diverse persone tra il Nebraska e il Wyoming, e ci va in fissa. Il risultato è la title track di Nebraska, una canzone spettrale, mai così priva di speranza, figuriamoci poi di eroico romanticismo rispetto ai consueti character del Boss, sebbene nella sua discografia ci sia già stato il disilluso Darkness on the edge of town.
Sono diversi gli aspetti che rendono Nebraska un unicum nella storia della discografia americana. Nessun altro grande artista mainstream prima aveva compiuto un gesto così intimo all'apice della sua notorietà, sì, ci sono stati cambi di impostazione musicale di rottura netta rispetto a come conoscevamo fino a quel momento la star (Dylan e l'elettrico, Bowie a Berlino) ma erano scelte di geni musicali che sentivano prima degli altri il cambiamento e volevano farne parte, qui è come se Bruce volesse nascondersi da ciò che gli stava piombando addosso (e da lì a poco gli sarebbe piombato, dieci volte più forte) intuendo che quella scelta identitaria era l'unica in grado di salvarlo, come artista e forse non solo.
Normalmente, finito di registrare un album, il lavoro è fatto. Con Nebraska, invece i problemi erano all'inizio. La modalità di registrazione artigianale-casalinga (Bruce in camera, la casa non isolata dai rumori esterni, seduto su un letto, la chitarra tra le mani e l'armonica al collo, con il quattro piste posato su di una sgabello) infatti, rese la normale masterizzazione impossibile a causa dei vari difetti audio che si verificavano nel tentativo di riversare la cassetta (del tipo standard che usavamo noi per duplicare i dischi!) in un master nuovo. D'altro canto Springsteen si rifiutava categoricamente di registrare da capo quelle canzoni, in quanto riteneva che lo rappresentassero totalmente, così come erano, difetti inclusi. Solo dopo mesi a cambiare studi di registrazione e tecnici, tra speranze e cocenti delusioni, l'entourage di Bruce trova una apparecchiatura adeguata ad accogliere quel disco rurale e disperato e a regalarlo all'umanità in una forma imperfetta ma forse proprio per questo ancora più preziosa.
Liberami dal nulla non rivela nulla di nuovo ai più attempati fan di Springsteen, quelli che, come me, negli ottanta divoravano ogni informazione sul loro eroe musicale, potendo fare affidamento su libri (su tutti le due biografie di Dave Marsh) e soprattutto riviste musicali, come il Mucchio Selvaggio, dotate di giornalisti seri e competenti capaci di analisi che non avevano niente da invidiare ai colleghi d'oltre oceano.
Conoscevamo già la storia del disco, il momento di crisi di Bruce, la difficoltà di riversare su vinile l'album. Ma, ancora una volta, il "come" si racconta una storia conta, e Zanes lo fa arricchendola di approfondimenti e dettagli, e conta molto anche la storicizzazione di Nebraska a quarantatre anni dalla sua uscita, con una pletora di artisti che idolatrano quell'album, con quelle dieci canzoni che come pietre preziose hanno visto il loro valore crescere inarrestabile nel tempo e con uno Springsteen che non ha mai più avuto lo stimolo (o il coraggio) di compiere operazioni di rottura come quella. Lo ha fatto solo in parte con dischi come The ghost of Tom Joad o The Seeger sessions, ma erano contesti diversi in cui l'acustico e addirittura il lo-fi o il revival dei traditional erano, se non mainstream, ampiamente solcati da molte band (resta il fatto che si tratta dei due migliori dischi di tutto il Bruce post eighties, ma questa è un altro tema).
Il romanzo di Zanes dona dunque alla storia quei contorni di epicità, suspance, coraggio tipico delle imprese grandi e disperate, che probabilmente ha convinto i produttori di Hollywood a comprarne i diritti, mettere in cantiere un progetto, affidarne la regia a Scott Cooper (in curriculum, tra gli altri, gli ottimi Crazy heart, Il fuoco della vendetta, Black mass, Hostiles), il ruolo di protagonista all'astro emergente Jeremy Allen White (apprezzato per la serie The bear) e dare via alle riprese per la trasposizione cinematografica di Liberami dal nulla, che vedrà probabilmente le sale entro l'anno.
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