lunedì 31 dicembre 2007

Best of 2007 (e leviamoci il pensiero)


Anno musicalmente fiacco, il 2007. Se me l’avessero detto dodici mesi fa, che avrei definito così un anno che ha compreso uscite di Steve Earle e Bruce Springsteen, probabilmente non ci avrei creduto. Ma tantè. Come dicevo qualche post indietro, un po’ è anche colpa mia, che ho guardato più indietro che avanti, e alla mia attitudine al singalong che è diventata quasi una patologia. Una manciata di dischi da tramandare ai posteri sono riuscito comunque a selezionarla, anche se mi rendo conto che non sono dei capolavori assoluti.

Delusione dell’anno, e anche questa affermazione sarebbe stata per me impensabile fino a settembre (il disco è uscito a ottobre), Bruce. Non che il disco sia inascoltabile, neh. Però ribadisco il concetto già ampiamente illustrato, è il primo disco del repertorio che alle mie orecchie suona insincero, un tentativo di raschiare in termni commerciali il fondo del rullante della E Street. Bando alle ciance, so che state trattenendo il respiro in attesa dei miei top del 2007, e allora here we go!

Robert Plant & Alison Krauss
Raisin sand

La vera sorpresa dell’anno. Un disco prodotto magnificamente (non potevano esserci dubbi, in realtà) da T-Bone Burnette. Non c’è il folk della Krauss, né l’hard rock di Plant, ma un sound che fonde e inventa un genere più vicino a Tom Waits che alla sommatoria dei due artisti.

Steve Earle
Washington Square serenade
Un buon ritorno per Steve, il cambiamento epocale nella sua vita (il trasferimento dal Tennesse a New York) si riflette nel disco in maniera contraddittoria. A fronte di una manciata di canzoni magnifiche, si registra un appannamento della vena politica più angry. Un peccato veniale, il ragazzo è innamorato, e si sa, l’amore appanna la creatività.

Ryan Adams
Easy Tiger
Il ragazzo prodigio dell’americana è tornato a conciliare la sua vena creativa con una certa dose di commercialità, trovando il giusto equilibrio, come non gli capitava da Gold. Il ragazzo prodigio ha trovato anche la misura, riuscendo a restare sotto i quaranta minuti e mantenendo così alta la concentrazione dell’ascoltatore.

Xavier Rudd
White moth

Mi avevano segnalato questo artista anni fa, ma l’avevo trovato un pò troppo clone dell’originale (Ben-voi-sapete-chi). In questo disco avviene una notevole emancipazione dal modello di base, oltre ad un suo appannamento creativo irreversibile. Si naviga a vista tra folk d’autore, reggae e musica etnica senza mai perdere la bussola.

Ry Cooder
My name is Buddy
Disco politico dell’anno. Ry Cooder torna con un disco di musica folk-blues, e lo accompagna di testi a forte demarcazione sociale (socialista?) attraverso la metafora di Buddy, gatto rosso licenziato dalla fabbrica che insieme agli altri lavoratori cerca di ricreare uno spirito collettivo di solidarietà che il movimento ha da tempo perso. Musica e liriche impedibili.

Degni di nota anche:


Devendra Banhart - Smokey Rolls Down Thunder Canyon, affascinante, ma che ho scoperto solo qualche giorno fa, e ha bisogno di sedimentare.

Mavis Staples – We’ll never turn back, anche qui lo zampino come produttore di Ry Cooder. Una raccolta di canzoni di lotta dei neri americani, con qualche chicca (la conclusiva Jesus on the mainline). Se riuscite ad ascoltare We shall not be move, sapendo cosa rappresenta, senza commuovervi, siete dei fottuti cyborg.

The Dillinger Escare Plan – Ire works, un grande gruppo deve partire da una grande ragione sociale, e qui ci siamo. La musica poi. Beh, se si ha la costanza di superare il per me indigesto growling, si arriva a sonorità eterogenee, strizzatine d’occhio ai RHCP e hard pop.

John Mellencamp – Freedom’s road, il tempo passa e John è lì, eterno ragazzino col ciuffo a fare le sue canzoni adolescenziali sulla libertà. Non solo quelle, per fortuna. Freedom’s road si può definire come il fratellastro di Lonesome Jubilee, che arriva quasi vent’anni dopo.

99 Posse – intera discografia. Non posso non tributare alla gang napoletana il giusto plauso per avermi fatto divertire alla grande per mesi, in questo 07. Non li avevo mai considerati troppo perchè li vedevo più come espressione folkloristica di certa gioventù da centro sociale. Grande il mio stupore nel constatarne la maturazione che li ha portati ad un passo dall’essere i Massive Attack italiani.

1 commento:

jumbolo ha detto...

evito i complimenti, e ti racconto una storia a proposito di alison krauss (ah ho ascoltato mezzo disco e non fa per me). ho visto dalla foto (nella quale plant fa schifo) che è figa, quindi vado su gugol immagini per vederla un po' meglio. trovo una foto che la ritrae con john waite. clicco. scopro che hanno rifatto insieme missing you. ora scarico.
per dire.