venerdì 5 giugno 2009

I migliori della vita, 7


The Grateful Dead - Live/Dead, 1969


Sono consapevole che ascoltare Live/Dead dei Grateful Dead senza l’ausilio di acidi o LSD sia un po’ come guardare al cinema un film in 3D senza gli appositi occhialetti: si percepisce l’insieme e la grandiosità dell’opera, ma non si riesce a coglierla appieno.

Non è dato sapere se il disco sia stato registrato nel corso dei leggendari acid tests che la band teneva insieme al pubblico giù a Frisco, dalle parti di Haight Ashbury, comunque il lisergico risultato finale non cambia.
Contestuale anche l’approccio del pubblico allo show, visto che per più della metà del disco la platea in pratica non si sente. Sembra di vederli, strafatti e sudati con le mani a tirare indietro i lunghi capelli appiccicati sulla fronte, di tanto in tanto a passarsi una canna. Tutte attività che si svolgono in relativo silenzio.

I Grateful Dead erano dei veri perfezionisti del suono dal vivo. Agli inizi della loro carriera hanno ostinatamente cercato un loro wall of sound, poi, per dire, sono stati anche dei precursori delle registrazioni dei concerti, da un certo momento in poi si sono messi ad incidere tutti i loro show.

Live/Dead (il quinto disco della band in soli due anni, dal 1967 al 69) è un assemblaggio delle tracce migliori scaturite dalla loro intensa attività live. La band era in quella che in molti considerano la loro formazione migliore. Oltre ai senatori Garcia, Lesh, Weir, Hart e Kreutzmann (questi ultimi entrambi batteristi,visto che i Deads usavano la doppia batteria) è infatti presente all’organo il compianto Roy “Pigpen” McKernan.

L’album si apre con Dark star , una canzone che originariamente durava circa tre minuti e che qui si dilata fino a superarne i ventitre. Il cantato attacca quando stanno per scoccare i sette minuti. Le intonazioni delle chitarre sono a tratti dissonanti, quasi fastidiose, si attorcigliano e si inseguono, eppure non si può fare a meno di alzare il volume di un’altra tacca, e un'altra, e un’altra ancora. Gli amplificatori di casa o dell’auto ancora oggi, a quarant’anni secchi dalla release dell’album sudano tossine di LSD.

Le successive Saint Stephen (qualcosa che una volta poteva anche essere stata una marcia celtica) e The Eleven ( nella quale sembra di vedere le chitarre sciogliersi come in quel quadro di Dalì) seguono senza soluzione di continuità l’open track, trascinando l’ascoltatore in una spirale di cui non si intravede la conclusione. Si capisce l’utilità del vinile, che almeno imponeva una pausa tra Dark Star (che occupava per intero il lato A) e queste altre due tracce. Sentite così di seguito i sensi accusano un certo intorpidimento.

Con i sedici minuti di Turn your love light si cambia improvvisamente registro, passando ad un blues elettrico nel quale finalmente si sente anche il pubblico scuotersi e gridare e sembra di stare in un concerto normale.

A seguire lo standard Death don’t have no mercy, poi diventato un grande classico per Jorma Kaukonen, con o senza i suoi Hot Tuna. Il pezzo è un blues letteralmente sanguinante, di quelli che sarebbero perfetti per il cinema, magari ad accompagnare l’eroe che si avvia solitario verso un’impresa giusta, ma disperata, proprio mentre tutta la vita gli passa davanti in pochi istanti. Breathless.

Feedback è quello che dice nel titolo. Qui davvero servirebbe l’ausilio di qualunque cosa avessero in corpo i Deads e i loro (s)fortunati spettatori. Nove minuti di distorsioni, riverberi, feedbacks, che tentano di trovare una strada armonica tra i fischi degli amplificatori, ma che ahimè, non ci riescono.

Il saluto della band è lasciato alla manciata di secondi di And we bid you goodnight, traditional cantato a-cappella, una dolce nenia che fa da opportuno contrappunto allo stridore del brano che l’ha preceduto.

I Grateful Dead fanno parte di quel novero di artisti che io definisco “sottovalutati/sopravvalutati”, cioè hanno avuto indubbiamente dei meriti, ma probabilmente il culto (in Italia di pochi, negli States di molti) che tutt’oggi, a quindici anni dalla morte di Garcia, li accompagna ha abbondandemente superato il reale valore della band.

Non so se questo sia un disco da avere a tutti i costi. Per i miei gusti è una grande eccezione, perché normalmente io fatico ad appassionarmi a musica con così poco “cantato” , con così tanto “disordine” e dove tra l'altro la canzone più corta dura sette minuti.
Magari è proprio per la sua distanza dai miei generi canonici che Live/Dead mi affascina tanto.
Oppure perchè subisco il fascino della musica, della sperimentazione di quegli anni.
Chi lo sa?
E comunque, perchè poi mi affanno tanto a trovare una spiegazione, alla fine è solo rock and roll.
Beh. Più o meno.

3 commenti:

Anonimo ha detto...

sei posseduto da Karoo!!! lo Sento
: )
Mau

monty ha detto...

Ahahah
Sicuramente lo sono stato,
ma per fortuna ne sono fuori
(anche se qualche scoria rimane...)

Anonimo ha detto...

Non mi perdonerò mai di non essere stato a San Francisco negli anni della psichedelia selvaggia!