"Siamo intergenerazionali". Se ne esce così, Pier Paolo Capovilla, osservando il pubblico illuminato a giorno all'Alcatraz di Milano. In effetti, ad assistere alla reunion della band di alternative rock italiano probabilmente più importante degli anni zero / dieci (quattro album tra il 2007 e il 2015) il range d'età, ad occhio, va dai venti agli over sessanta. Tutti conversi nel medesimo tempo spazio per ricevere un balsamo benefico, antidoto ai tempi disperati che viviamo.
Il Teatro degli Orrori si rimette a suonare dieci anni dopo l'ultimo tour e qualcosa in meno rispetto all'annuncio di scioglimento. Delle nove date previste per il Mai dire mai tour, due vengono annullate ("per cause indipendenti dalla nostra volontà") ma quella di Milano registra se non il tutto esaurito poco ci manca, visto che l'Alcatraz è stipato. Con il canonico ritardo rispetto all'inizio programmato, sul sottofondo di un'ossessiva musica elettronico tribale, esce il Capovilla. Da solo, nel buio dello stage che pallidamente riflette solo il rosso del fondale. E rimane lì, immobile e in solitudine per qualche minuto, mentre il pubblico, impaziente, urla ed incita.
Con l'arrivo sul palco degli altri componenti della band la messa può essere officiata. Non si può che partire con Vita mia (nella quale i tecnici hanno il loro da fare per "pulire" la voce, che risulta slabbrata e subalterna agli strumenti), poi Dio mio seguita da E lei venne, il primo pezzo che fa esplodere la sala.
Guardo il Pier Paolo e mi sembra sereno, felice. Forse un pò stanco, ma può anche essere un impressione dovuta dalla sua postura pubblica che coniuga distacco e passione, un equilibrio non semplice da gestire, comunicativamente.
La band ha un sound poderoso, magmatico, che poggia le sue fondamenta sulla solidità di Francesco Valente alla batteria. E' lui il cuore che pompa sangue nella macchina TdO, un perno su cui fanno leva le affilate tessiture chitarristiche di Gionata Mirai e l'altro pezzo della sezione ritmica, il basso di Giulio Ragno Favero. E' vero che la potenza sviluppata dai power trio (dagli Who ai Motorhead a venire in giù) non può più stupire, ma ricondurre l'apocalisse sonora di questo concerto alle vibrazioni di soli tre strumenti è comunque qualcosa di incredibile.
Il Teatro degli Orrori non è una band che, a differenza di altre, campa grazie alla sua prossimità a organizzazioni politiche (di sinistra) o che cerca la scorciatoia di facili slogan per far saltare i centri sociali. E' qualcosa di inedito, sovversivo, intellettuale e culturalmente diverso. Le liriche di Capovilla denunciano derive e drammi collettivi ma anche privati, individuali. Nella visione di PP la società/Matrix inquina ogni ambito dell'esistenza: ti incanala, ti spinge a forza dentro uno stampo, ti omologa. E l'aspetto più grave è che in molti dentro quello stampo di consumismo e status quo ci stanno proprio bene. O così perlomeno credono.
E' per questo che da un concerto dei TdO, il primo a cui assisto, mi aspettavo una dose maggiore di autenticità rispetto alla media delle esibizioni di altri artisti che eseguono pedissequamente lo stesso soggetto in posti differenti. E invece, da questo punto di vista, un pò di delusione c'è. Passi per la setlist bloccata ed immutabile per tutto il tour, ma anche gli spoken di Capovilla mi sono arrivati liturgici, privi di qualunque improvvisazione. Solo in un'occasione sono andati oltre la burocrazia del rapporto frontman/stage da concerto, nel caso della declamazione di un poema di Majakovskij, ad introdurre il pezzo che porta il nome dell'autore russo. Potere della poesia, I guess.
Dopodichè il repertorio della band può contare su pezzi talmente strepitosi che il solo incipit fa deflagrare l'entusiasmo e la voglia di essere parte di quei salmi, urlando a squarciagola "Teresaaaa!" (Compagna Teresa), "I love you baby, com'era bello far l'amore con te!" (Due), piuttosto che "bugiardi dentro/fuori assassini/vigliacchi in divisa" (A sangue freddo) oppure "sarebbe stato bello invecchiare insieme/la vita ci spinge verso direzioni diverse" (Direzioni diverse), come dentro un antichissimo rito tribale di due ore che ci è rimasto appiccato in forma ancestrale e che lasciamo libero di emergere, deflagrare, prendere il controllo.
E' altamente improbabile che un nuovo disco possa superare lo shock al sistema dei primi due lavori (i cui brani, non a caso, occupano i due terzi della scaletta di questi concerti), e, tutto sommato, un commiato, sebbene doloroso, ci lascerebbe intatta la sensazione di un'insperata, bellissima e irripetibile anomalia della musica italiana.