lunedì 17 febbraio 2025

Robert McLiam Wilson, Eureka Street (1996)



Belfast, anni novanta. Tra bombe, violenza per le strade e povertà, Jake (cattolico) e Chuck (protestante) provano testardamente, e con fortune decisamente alterne, a sopravvivere.

Per un'amante della bellissima e travagliata terra d'Irlanda la lettura di Eureka Street è stato un passaggio per certi versi obbligato, un pò come chiudere gli occhi e viaggiare sulle ali della musica dei Pogues, dei Thin Lizzy o di Christy Moore, sulla visione di una manciata di film (Nel nome del padre, Il vento che accarezza l'erba, Una scelta d'amore, The commitments) o fantasticare sugli scritti di Brendan Behan o di Roddy Doyle. Peraltro, su questo romanzo, nei primi anni duemila, s'era agitato un notevole hype, veicolato, come da illustri pareri in quarta di copertina, da nomi autorevoli della nostra critica letteraria.

Beh, lo dico timidamente, dal basso della mia capacità critica, ma il mio giudizio non converge con l'entusiasmo che ha accompagnato il libro, tanto che all'epoca del primo acquisto, una ventina d'anni fa, lo mollai presto. Lo riprendo e ne completo la lettura oggi, e pur tuttavia le migliori intenzioni non bastano a farmi superare le stesse perplessità di allora, che attengono in gran parte alla caratterizzazione dei protagonisti: Jake, cattolico come l'autore e nel quale secondo me egli si identifica tratteggiandolo alla stregua di un classicissimo e scontato beautiful loser, e Chuck, la cui parabola da poveraccio a miliardario appare ai miei occhi inverosimile ai limiti dell'irritazione, pur considerandone l'interpretazione metaforica. Attorno a loro ruotano una serie di altri personaggi verso i quali Wilson cerca, a volte con scarso successo, l'empatia del lettore (il ragazzino emarginato, i genitori adottivi, la madre che scopre di essere lesbica in tarda età).

Ciò che a mio avviso invece funziona è la critica nei confronti dei media e di chi guardava i troubles dal mondo esterno. Una narrazione che ci viene trasmessa dallo scrittore come sciatta, superficiale e sempre alla ricerca di un pietismo che poco ha a che fare con l'approfondimento giornalistico di uno scenario tanto complesso.  In questo aspetto McLiam Wilson va anche oltre, denunciando a suo dire l'ipocrisia della componente politica dell'IRA, il Sinn Fein  (chiamato nel libro Just Us, che è la traduzione approssimativa del nome in gaelico appunto del Sinn Fein), dell'insensata violenza delle organizzazioni terroristiche, siano esse di cattolici (IRA, appunto) o protestanti (Orange Order, Red Hand Commando) che si sono rese responsabili, nel corso degli anni, non solo di brutalità e omicidi ai danni dei militanti degli opposti schieramenti, ma anche di gente comune e della micro criminalità che nasce dallo stato di miseria di quelle zone.

Ecco, qui il cattolico McLiam Wilson ci offre un punto di vista da insider certamente interessante, quasi più critico nei riguardi della "sua" fazione piuttosto che di quella degli orangisti, non necessariamente condivisibile, ma rivolta al sentimento della gente comune che voleva semplicemente vivere in pace senza paura di uscire di casa, andare al pub o essere identificata come cattolica o protestante, con le conseguenze del caso, nella parte sbagliata dell'Irlanda del Nord. 

Capisco bene che Eureka Street sia stato quasi un instant book, uscito nel momento giusto di massima attenzione ed empatia rivolta alla situazione nordirlandese e non è da escludere che l'emotività abbia recitato un ruolo nel considerarlo ciò che non mi pare sia, un capolavoro, ma che, sempre parere soggettivo, letto oggi abbia fallito la prova della storicizzazione.

Il romanzo è stato trasposto dalla BBC in serie tv di quattro episodi nel 1999, inutile dire che è introvabile nelle più diffuse piattaforme in streaming. Sarebbe interessante buttargli un occhio semmai dovesse riemergere.


lunedì 10 febbraio 2025

The Mavericks, Moon and stars (2024)


Io ci provo ad erudirmi ed evolvermi rispetto ai miei clichè musicali, ad uscire dalla mia comfort zone, fischiettando indifferente anche quando i miei riferimenti artistici di una vita si ostinano a pubblicare un nuovo disco, ma poi, per parafrasare Al Pacino nel Padrino Parte III, "proprio quando pensavo di esserne uscito, mi trascinano di nuovo dentro".

Perciò rieccomi a scrivere dei Mavericks, trent'anni o giù di lì dopo essermene innamorato con What a crying shame e dopo una dozzina di album (a cui vanno aggiunti una decina di titoli da solista del frontman Raul Malo), all'insegna di un meraviglioso melting pot musicale che passa con disinvoltura dal country al latin, dal rock and roll al croonering, dalle atmosfere da night club anni cinquanta al tejano. Oramai la band viaggia col pilota automatico, ma non per questo perde la capacità di scrivere ancora grandi, grandissime canzoni. 

Moon & stars si apre in un certo senso in modo inusuale rispetto alle abitudini del brand, non con il consueto ritmo scatenato di un'opener ma con la malinconia, attraverso un pezzo, The years will not be kind,  che descrive il tempo che trascorre subdolamente, usando con grazia le leve liriche della nostalgia e quelle musicali di una ballata messicana. La festa è solo rinviata e anzi arriva con ancora maggior godimento subito a ruota, con due pezzi, Live close by (visit often) e la title track in cui i Mavericks srotolano come un lungo tappeto prezioso tutta la loro arte incantatoria., coadiuvati da due artiste indie, in ambito pop-rock - Nicole Atkins -, e country folk - Sierra Ferrell - .

Sì perchè Moon & stars, più degli altri dischi della band, agisce da calamita ad attrarre cantanti e musicisti, riconoscenti a Raul Malo e ai suoi sodali per il ruolo svolto nel diffondere un coloratissimo caledoscopio  di atmosfere popolari universali ed entusiasti quindi di contraccambiare. Così la country singer Maggie Rose duetta su Look around you e il sassofonista Max Abrams su Here you came again. Ci sarebbe stato benone Zac Brown su un pezzo come A guitar and a bottle of wine e magari Paul McCartney e Ringo Starr su Turn yourself around, un brano che sembra uscito da Rubber soul e che allarga ulteriormente il perimetro di influenze musicali dei nostri. 
Ma non si può avere tutto, accontentiamoci di un'altro grande disco dei Mavericks, che nella loro carriera hanno solo sfiorato la grande affermazione mainstream (con il singolo Dance the night away e con I said I love you del solo Malo), ma che continuano ad essere punto irrinunciabile di riferimento per un pubblico di certo non giovane ma che trae linfa vitale dalla loro musica.

giovedì 6 febbraio 2025

My favorite things, gennaio 2025

ASCOLTI

49 Winchester, Leavin' this holler
Rory Gallagher, Irish tour (expanded)
Amyl and the sniffers, Cartoon darkness
Charli XCX, Brat
The Mavericks, Moon & stars
Ezra Collective, Dance, no one's watching
JD McPherson, Nite owls
Mooon, III
Tyla, ST
Albert King, Born under a bad sign
Scott B. Hiram, The one and only Scott B. Hiram
The halo effect, March of the unheard
Simona Molinari, Casa mia
Steve Earle, Alone again...Live
The Allman Brothers Band, Final concert 10 - 28 - 14

Playlist/Monografie

First post-punk revival 2000/2010
Replacements
Japan + David Sylvian









VISIONI

in grassetto i film visti in sala

Piove (3,5/5)
Kind of kindness (3,5/5)
Niagara (3/5)
Asfalto che scotta (3,75/5)
Stormy monday (3,5/5)
Le otto montagne (3,5/5)
Nosferatu (2024) (3/5)
4x4 (2,25/5)
Il caso Thomas Crawford (1968) (3,5/5)
Tatami (3,75/5)
Un uomo felice (2/5)
Challengers (3,5/5)
L'ultima settimana di settembre (2,5/5)
Emilia Perez (3,5/5)
Johnny il bello (4/5)
Killer elite (1975) (3,75/5)
Provaci ancora, Sam (3,75/5)
A complete unknown (3/5)
Una preghiera per morire (2/5)


Visioni seriali

Inspira, espira, uccidi - 8 episodi - Netflix (2,75/5)
Antonia - 6 episodi - Prime (3/5) 
A.C.A.B. - 6 episodi - Netflix (3/5)


LETTURE

Francis Scott Fitzgerald, Il grande Gatsby
Robert McLiam Wilson, Eureka street

lunedì 3 febbraio 2025

A complete unknown

 


Nel 1961 uno sconosciuto e squattrinato giovane arriva a New York dal Minnesota con uno zaino sulle spalle e una custodia di chitarra nella mano. Obiettivo l’ospedale in cui è ricoverata l’icona socialista del folk americano, il padre di tutti i busker: Woody Guthrie. Il giovane si fa chiamare Bob Dylan e quando, al capezzale del suo eroe ridotto al silenzio e alla semiparalisi da una grave malattia neurologica, alla presenza di Pete Seeger, si mette a suonare la canzone che ha scritto per lui, ai due anziani folk singers nella stanza appare immediatamente chiaro di essere testimoni della nascita del fottuto gesù cristo del folk.


Ah i biopic delle star musicali… Croce e delizia, tutti li vogliono, tutti ne rimangono delusi. A partire dai die hard fans che conoscono ogni minuscolo dettaglio della vita del loro beniamino e storcono il naso se non lo trovano riportato nella rappresentazione audiovisiva che vorrebbero facesse finalmente vivere gesta di cui fino a quel momento avevano solo letto e fantasticato. Se ci pensi, si contano sulle dita di una mano i biopic a tema musicale che sono riusciti nell’impresa di convincere a pieno i seguaci di quel determinato artista, e, a mio avviso, sono quelli che hanno trovato una chiave di lettura che riuscisse a travalicare la mera esposizione cronologica degli eventi o che svoltassero sui generi cinematografici. Faccio due esempi recenti: Rocket man, il biopic su Elton John, che si serve del musical o Lord of chaos, dramma a tinte gore sulla nascita del black metal norvegese.

Anche qui non tutti i fans furono soddisfatti (e anzi), ma i film funzionavano come opera compiuta a sè stante, e a mio avviso è questo l’obiettivo che ci si deve dare nel mettere a terra un biopic recitato, diversamente ci sono i documentari. In A complete unknow, posto il livello di difficoltà massima dell’operazione, che possiamo sintetizzare nelle tematiche di cui sopra, nell’enormità del personaggio trattato, nella storia prettamente artistica e priva dunque di elementi attrattivi di vita dissoluta&spericolata a base di camere di hotel distrutte, droga (che pure ha attraversato la vita di Bobby) e sesso a vagonate, siamo comunque davanti ad un’opera che si regge sulle sue gambe.

D’altro canto la regia di Mangold è una discreta garanzia. James non è mai stato considerato un fuoriclasse, ma uno che porta (quasi) sempre a casa il lavoro (Cop Land, Walk the line, Logan: the Wolverine, Le Mans 66), quello sì.

A complete unknown ci mette due ore e venti per rendere meno di quattro anni di vita di Dylan. Non poco. Da qui, credo, la necessità di saltare alcuni eventi importanti di quel periodo (il tour in UK, la liason con le droghe) che avrebbero inutilmente appesantito la storyline. In compenso la parabola artistica di Bob, dentro un orizzonte temporale in cui il cantautore ha realizzato quattro album (tre, se escludiamo l'esordio composto quasi esclusivamente da cover) e la maggior parte dei suoi pezzi entrati nella leggenda, è definita abbastanza coerentemente. Intendo dire che lo spettatore casuale per il quale Dylan è solo un nome già sentito la può inquadrare e capire a sufficienza.

Timothèe Chalamet ha creduto fortemente in questo ruolo, sostiene di essersi preparato per anni, è rimasto deluso dal fatto che Dylan non l’abbia voluto incontrare (maddai?!?) e se la cava bene sia con la parlata, che si modifica nel corso dell’asse temporale narrato, che col cantato, tenuto conto dell’inimitabilità del timbro dylaniano (non l’ho specificato per non passare per il solito nerdone, ma do per assunto che il film vada visto in lingua originale). Certo, la certosina attenzione nel replicare i particolari riportati dalle fotografie e dai video dell’epoca a volte restituiscono, nella figura di Dylan/Chalamet, un effetto straniante un po' da cosplayer, ma che ci vuoi fà.

Tutto okay quindi? Beh, no. Detto che la pellicola ha trovato faticosamente l’equilibrio tra fan product e audiovisivo per tutti, la parte più critica riguarda i comprimari, i character. Pete Seeger (un convincente Edward Norton) ci viene mostrato come un hippy buonista, insomma dai abbastanza noioso e inconcludente (nonostante l’incipit che lo vedeva a processo), tra canzoncine-scioglingua ed educational tv. In realtà Seeger è stato molto altro, ha scritto pezzi di palese contrasto alla politica americana e recuperato traditional anti militari aguzzi come coltelli. Di Woody Guthrie (Scott McNairy) si poteva trovare il modo di raccontare qualcosa della sua indiscussa centralità nella musica "contro", dalla parte degli ultimi, dei dimenticati, sarebbero bastate un paio di linee di dialogo. Stupisce poi la caricatura tratteggiata su Johnny Cash (Boyd Holbrook), visto il buon lavoro del regista sul suo biopic (Walk the line). Alan Lomax (Norbert Leo Butz) infine, personaggio epocale, che ha avuto un ruolo gigantesco nel recuperare la old time music americana, latina, europea, il folk, il rurale, il gospel, il blues, andando a registrare composizioni che diversamente sarebbero andate perse e che invece oggi fanno parte del patrimonio dell’umanità. Ecco, dipingere uno così come un talebano del folk, facendogli fare il villain del film, è un pò disonesto, superficiale e deprecabile. 

Perché guardando A complete unknown, al netto delle inevitabili semplificazioni, lo spettatore comune può farsi un’idea della scorbutica genialità di Dylan, un’artista che rifiuta i recinti in cui lo vorrebbero rinchiudere, che si evolve continuamente, come solo i veri Artisti (Mozart, Miles Davis, David Bowie, Lou Reed) fanno in maniera spontanea, ma perde un po' il contesto artistico che ha permesso l’eruzione artistico poetica di Bob e i sacrifici compiuti in nome della musica, della storia e della libertà che qualcuno (Guthrie, Seeger, Lomax) prima di lui ha compiuto, preparandogli il terreno.

Pur deludendo i fans e non convincendo appieno i “laici”, A complete unkown resta comunque un film decoroso, il secondo (prima ci fu il visionario Io non sono qui), sull’uomo che, arrivando da un paesino del Minnesota, ha rivoluzionato per sempre la musica popolare. Bestemmio se dico che una serie tv, di quelle fatte bene, non sarebbe una cattiva idea, per coprire almeno i primi vent'anni artistici di questo genio?

giovedì 30 gennaio 2025

Tracce del 2024: Pop, Indie, mainstream...and all the rest

In attesa di tornare a stilare la mia lista dei dischi più ascoltati dell'anno (ci vorrà ancora qualche settimana) mi porto avanti con una playlist di tracce singole. Il consiglio, se qualche canzone dovesse aprirsi a suggestioni, è sempre quello di recuperare l'album nella sua interezza. Linko ai titoli il corrispettivo video da youtube e, laddove postata, la mia recensione del disco. 

01. Jessica Pratt, Life is (Here in the pitch)
02. Peter Perrett, I wanna go with dignity (The cleansing)
03. English Teacher, The world's biggest paving slab (This could be Texas)
04. Jesus and Mary Chain, American born (Glasgow eyes)
05. Billie Eilish, LUNCH (HIT ME HARD AND SOFT)
06. MJ Lenderman, Joker lips (Manning fireworks)
07. The Lemon Twigs, They don't know how to fall in place (A dream is all we know)
08. Jack White, That's how I'm feeling (No name)
09. Nick Cave and the Bad Seeds, Conversion (Wild God)
10. The Black Crowes, Wanting and waiting (Happiness bastards)
11. Amyl and the Sniffers, Big dreams (Cartoon darkness
12. Ezra Collective, God gave me feet for dancing (Dance, no one's watching)
13. Beyoncè, Texas hold 'em (Cowboy Carter)
14. Green Day, The american dream is killing me (Saviors)
15. Fontaines DC, Death kink (Romance)
16. Beth Gibbons, For sale (Lives outgrown)
17. Eminem, Houdini (The death of Slim Shady)
18. The Decemberist, All I want is you (As it ever was, so it, so it will be again)
19. IDLES ft. LCD Soundsystem, Dancer (TANGK)
20. Cindy Lee, Darling of the diskoteque (Diamond jubilee)
21. MOOON, I will get to you (III)
22. Charli XCX, 365 (Brat
23. The Mavericks, Live close by (Moon and stars)
24. The Vaccines, Heartbreak kid (Pick-up full of pink carnations)
25. Paolo Benvegnu ft Brunori Sas, L'oceano (E' inutile parlare d'amore)
26. X, Big black X (Smoke and fiction)
27. Warren Haynes, Real, real love (Million voices whisper)
28. Pet Shop Boys, Loneliness (Nonetheless)
30. The Smile, Wall of eyes (Wall of eyes)




lunedì 27 gennaio 2025

Killer elite (1975)

La CIA si avvale di alcuni gruppi privati di "sicurezza" per appaltagli operazioni che non può svolgere da sè. In una di queste, Mike Locken (James Caan) e George Hansen (Robert Duvall) devono garantire la sicurezza di un importante testimone nella mani dell'Agenzia. I due sono legati da amicizia, ma George tradisce, uccidendo il prigioniero e sparando a Mike, causandogli di proposito danni permanenti.


Su Sam Peckinpah c'è poco da dire, parliamo di uno dei registi più importanti del movimento Nuova Hollywood che ha rivoluzionato gli studios nei settanta con una visione cinematografica di rottura, innovativa, spesso liberal e fuori dagli schemi, pompando sangue giovane in un'industria in crisi. Il regista californiano è ricordato soprattutto per come ha cambiato la semantica del western (dalle nostra parti i suoi film hanno ispirato anche il nome di due riviste musicali, Il Mucchio selvaggio e il Buscadero) e, in generale, per il suo contributo fondamentale al rinnovamento del genere action.

Killer elite non è un uno di quei film che viene citato per primo, quando si parla di Peckinpah, e in effetti si tratta di una pellicola per certi versi anomala nella produzione del regista. Certo, ci sono caratteristiche comuni agli altri film, l'amicizia virile che trascende gli opposti schieramenti, l'agire ai limiti della legge, la subdola mano del potere, ma il tutto contaminato, non senza effetto straniante e inaspettato, con ninjia, shuriken e katane, cioè con il genere wuxia.

E' quella la parte che mi sembra funzioni meno, per il resto Killer elite è il solito gran bel film (un balsamo per gli occhi? La sequenza in mare con le navi in disarmo allineate all'orizzonte)  di ere passate in cui l'azione veniva preparata gestendo magistralmente i tempi e la storia non era monopolizzata dalle sparatorie o dagli inseguimenti. Basta vedere come Peckinpah gira il prologo del film, quello del tradimento, con un Duvall esemplare che agisce depotenziando, attraverso una recitazione per sottrazione, la gravità dell'azione commessa. Oppure i tempi - quasi metà film - che la storia si prende per mostrarci la riabilitazione di Mike dopo il ferimento. Ultimo, ma non per importanza, il cast dei comprimari, dove spiccano i due soci di Mike, Mac e Miller, con il primo interpretato da un Burt Young, il Paulie della saga di Rocky, che sembra sempre capiti lì per caso (ma funziona, intendiamoci).

Non manca ovviamente l'aspetto politico della produzione, con un tema, quello delle agenzie private di mercenari assoldate dal governo per il lavoro più sporco di quanto gli USA svolgevano in quel periodo, che poi emergerà in tutta la sua gravità con la presidenza Bush Jr e la guerra in Afghanistan post 11/9. Efficace in questo senso l'avviso agli spettatori che precede il film: nel rassicurare che il film è finzione gli autori aggiungono, non senza sarcasmo, che l'idea che la CIA possa usare queste organizzazioni per uno degli scopi oggetto della pellicola è assurda. 
Già.


Prime Video

lunedì 20 gennaio 2025

Steve Earle, Alone again... Live (2024)


"Ci sono due generi di musica: c'è il blues e c'è lo zip-a-dee-doo-dah. Questo non è zip-a-dee-doo-dah". 

Non so, ma a me basterebbe questa battuta (copyright Townes Van Zandt), pronunciata da Steve nell'introduzione di South Nashville blues, per entrare nel giusto mood di un live album. E sì che di dischi dal vivo l'artista della Virginia, da pochi giorni settantenne, nel corso della carriera ne ha già pubblicati una mezza dozzina, cosa può aggiungere, nel 2024, in una fase artistica dignitosamente calante, questo Alone again?

Il rischio era che non aggiungesse niente, e invece Alone again è uno dei dischi migliori che Steve ha pubblicato da almeno tre lustri. Queste registrazioni catturate durante il suo tour solo acustico del 2023 ci offrono infatti uno Steve Earle inedito, almeno per come lo ricordo io che l'ho visto dal vivo in tre occasioni, sia full band che da solo, e in tutti i casi almeno fino a metà show ho assistito ad un frontman imbronciato, scontroso e poco incline al dialogo col pubblico, e me lo ritrovo qui  ciarliero, di buon umore e bendisposto a parlare non solo di temi politico-sociali, ma anche, con ironia, di sè stesso, della sua infanzia, delle donne della sua vita. 

Oltre alla consumata sapienza da busker, che gli permette di passare con disinvoltura dalle armoniche ai diversi strumenti a corde (chitarre, mandolino, banjo), Steve regala una piccola dimostrazione del valore del proprio repertorio, che resta inestimabile nonostante l'esclusione dalla tracklist delle canzoni di due lavori seminali (i miei preferiti dell'intera discografia) come El corazon e Jerusalem. 
Tuttavia il vero valore aggiunto di questo disco è senza dubbio l'empatia che il texano d'adozione trasmette con tutti gli intermezzi parlati, nonostante il pubblico non sembri sempre essere composto da die hard fans (lo dico per la pigrizia con cui risponde all'invito al classico, attesissimo singalong su Ain't ever satisfied).

Sono anche piccole cose, freddure fulminanti come nel caso della successione in sequenza di due canzoni sulla perdita dell'amore (Now she's gone e Goodbye) legate dal nostro con una semplice battuta ("same girl, different harmonica"), oppure la frase secca che introduce CCKMP (Cocaine Cannot Kill My Pain): " welcome to my nightmare". Poi ci sono anche i racconti più ampi, narrati da consumato reader (Steve ha pubblicato anche un paio di romanzi, la recensione del secondo è qui), come il racconto dell'infanzia texana, in cui Earle matura la consapevolezza che, non essendo portato per il football americano, se avesse voluto uscire da quel contesto (like Bruce said: "it's a town full of losers and I'm pullin' out of here to win"), avrebbe dovuto fare altro. E lui era bravo con la chitarra, al punto da "avere un seguito di 4-5 ragazze che si litigavano il ruolo da protagonista delle mie canzoni, non capendo che erano tutte dedicate... a me stesso". 

Ma il cuore pulsante del disco è inevitabilmente rappresentato dagli oltre nove minuti di It's about blood, estratto dall'album The ghosts of West Virginia, in cui il cantautore ricorda il disastro minerario di Upper Big Ranch (tutti i particolari nella recensione di quel lavoro che trovi qui) in cui morirono una trentina di operai. Lo fa con un'impostazione di base fortemente politica, ricordando il suo posizionamento ("I'm a radical, motherfucker") ma anche richiamando il Paese a ricucire le profonde divisioni (di classe, territoriali, politiche, economiche, sociali) che lo stanno lacerando (come detto, lo show è stato registrato prima del catastrofico ritorno di Trump). 
Lo fa esprimendo orgoglio per quel disco del 2020 ("un disco fatto bene... ne ho fatti anche un paio fatti non tanto bene" - allora non avevo torto...  - ). 
Lo fa descrivendo quella tragedia come la peggiore in quell'ambito dagli anni settanta. 
Lo fa sottolineando come non è un caso sia avvenuta in un contesto non sindacalizzato, richiamando la centralità delle Union nel tutelare i lavoratori e prevenire incidenti e infortuni mortali. In quella immane tragedia, data la povertà dell'area, morirono intere filiere familiari. Fratelli, padri, figli, nipoti. E la conclusione del pezzo, in cui Steve ricorda tutti i loro nomi mette i brividi ancora di più che nella versione originale, in studio.

Un disco bellissimo, finalmente. Ai fan è superfluo consigliarlo, ma sarebbe a mio avviso anche uno straordinario veicolo per far scoprire un artista immenso a chi oggi ancora non lo conosce.


giovedì 16 gennaio 2025

Tracce del 2024: Hard rock, metal, extreme

In attesa di tornare a stilare la mia lista dei dischi più ascoltati dell'anno (ci vorrà ancora qualche settimana) mi porto avanti con una playlist di tracce singole. Il consiglio, se qualche canzone dovesse aprirsi a suggestioni, è sempre quello di recuperare l'album nella sua interezza. Linko ai titoli il corrispettivo video da youtube.

01. Swallow The Sun, Innocence was long forgotten (Shining)
02. Kerry King, From hell I rise (From hell I rise)
03. Poppy, They're all around us (Negative spaces)
04. Iotunn, Iridescent way (Kinship)
05. High on Fire, Burning down (Cometh the storm)
06. The Dead Daisies, I wanna be your bitch (Light 'em up)
07. D-A-D, 1st, 2nd & 3rd ( Speed of darkness)
08. Body Count, Fuck what you heard (Merciless)
09. Blood Incantation, The stargate [Tablet III] (Absolute elsewhere)
10. Deep Purple, Portable door (= 1
11. Alcest, Flamme jumelle (Les chants de l'aurore)
12. Gatecreeper, The black curtain (Dark superstition)
13. Knocked Loose, Blinding faith (You won't go before you're supposed to)
14. Cats in Space, This velvet rush (Time machine)
15. Job For a Cowboy, Beyond the chemical (Moon healer)
16. Judas Priest, Crown of horns (Invincible shield)
17. Bruce Dickinson, Rain on the graves (The Mandrake project)
18. Sebastian Bach, What I got to lose (Child within the man)
19. Chat Pile, Funny man (Cool world)
20. Saxon, Madame guillotine (Hell, fire and damnation)





lunedì 13 gennaio 2025

Recensioni capate: Stormy monday (1988)



Ogni tanto mi diletto a ravanare tra i dvd in promozione sui siti di e-commerce (che hanno idealmente sostituito i mitici cestoni delle catene fisiche) e trovo delle piccole perle (altre delle ciofeche, ma va beh) a costi inferiori di un etto di mortadella. E' il caso di questo Stormy monday, opera prima del regista inglese Mike Figgis, girata a Newcastle con un cast che, tra nomi già allora emergenti e altri che lo sarebbero stati, appare oggi di grande prestigio, dalla bellissima ed elegante Melanie Griffith, ad un giovane Tommy Lee Jones, ad uno Sting che si conferma poco incline alla recitazione e tuttavia adatto al ruolo, ad un semi esordiente Sean Bean (che 
condivide per qualche minuto la scena più "gansta" del film con James Cosmo, un quarto di secolo prima di ritrovarlo sul set de Il trono di spade)
Figgis decide di conferire a questa storia di spregiudicato malaffare immobiliare un profilo basso, sia nei temi (ad esempio un educato anti americanismo) che nell'azione, lontana dal cinema ipertrofico del decennio che andava a chiudersi e in antitesi su quello violento che sarebbe arrivato da lì a poco con Tarantino e i novanta. Niente, in Stormy monday sembra increspare la superfice liscia dell'acqua: i dialoghi, e persino i momenti di tensione, sono recitati costantemente sottovoce, sussurrati, in un mood sinuoso (mi riferisco ovviamente alla versione originale) che rapisce. Aiuta in questo senso il ruolo da assoluta protagonista della colonna sonora, dallo smooth jazz del prologo (composto a quanto pare dallo stesso Figgis) al folle free jazz dissonante e maleducato dei Cracovia Jazz Ensamble, band che ha un ruolo importante nella storia, fino a B.B. King e al blues diffuso nei locali aperti fino a tardi.
Un gioiellino che chiede, sottovoce, di essere recuperato.

giovedì 9 gennaio 2025

Tracce del 2024: old time music, country e americana

In attesa di tornare a stilare la mia lista dei dischi più ascoltati dell'anno (ci vorrà ancora qualche settimana) mi porto avanti con una playlist di tracce singole. Il consiglio, se qualche canzone dovesse aprirsi a suggestioni, è sempre quello di recuperare l'album nella sua interezza. Linko ai titoli il corrispettivo video da youtube e, laddove postata, la mia recensione del disco. 

01. The Red Clay Strays, Disaster (from the album Made by these moments)
02. Cody Jinks, Sober thing (Change the game)
03. Emily Nenni, Drive and cry (Drive and cry)
04. Charlie Crockett, Hard luck & circumstancies ($10 dollar cowbooy)
05. Sierra Farrell, Chittlin' cookin' time in Cheatam County (Trail of flowers)
06. 49 Winchester, Leavin' this holler (Leavin' this holler)
07. Johnny Cash, Well alright (Songwriter)
08. Billy Strings, Seven weeks in county (Highway prayers)
09. Zach top, Bad luck (Cold beer & country)
10. Silverada, Wallflower (Silverada)
11. Gillian Welch and David Rawlings, Empty trainload of sky (Woodland)
12. Martin Stuart and his Fabolous Superlatives, I need to know (Petty Country)
13. Jamey Johnson, Someday when I'm old (Midnight gasoline)
14. Karen Jonas, Let's go to Hawaii (The rise and fall of american kistch)
15. Johnny Blue Sky, One for the road (Passage du desir)

extra: Steve Earle, It's about bloodAlone again...Live)



lunedì 6 gennaio 2025

Recensioni capate: Piove (2022)

 


Finalmente, grazie a Raiplay, sono riuscito a recuperare questo film del 2022 che mi aveva molto incuriosito e che aveva fatto girare il nome di Paolo Strippoli (A classic horror story, su Netflix) come nuova speranza del cinema di genere italico.

Il regista usa il genere (l’horror) avendo ben assimilato la lezione dei maestri, cioè come un taxi per trasportare la sua idea di cinema che scava nella società, nei rapporti personali, in particolar modo quelli del nucleo familiare. Non a caso le creature demoniache che nascono dal vapore acqueo si nutrono dei sensi di colpa, del rancore, del risentimento che ristagna e cresce in questi gruppi di persone che vivono in pochi metri quadrati sotto lo stesso tetto,  hanno lo stesso sangue, ma non comunicano e giorno dopo giorno, schiacciati dalla fatica di (soprav)vivere, smettono anche solo di tentare di comprendersi. 
Questa la mia chiave di lettura del film, ma è chiaro che Piove si può godere anche solo come film horror, la mano del regista è in questo senso impeccabile e così l’uso del montaggio alternato a far crescere la tensione nei momenti opportuni. Gli effetti speciali, sia quelli artigianali che quelli digitali, sono convincenti e ultimo ma non per importanza, cazzo, il film è recitato bene, in particolare dai due protagonisti, rispettivamente padre (Fabrizio Rongione) e figlio (Francesco Gheghi). Può sembrare un aspetto scontato ma nel coraggioso cinema di genere italiano a budget ridotto all’osso, i tempi di produzione strozzati dal contenimento dei costi spesso influiscono negativamente su questo fondamentale.

Fosse stato un film coreano o spagnolo, saremmo nella media di qualità di quelle produzioni, essendo invece un prodotto nostrano (co-produzione belga), per Piove c’è quasi da gridare al miracolo.

Raiplay

giovedì 2 gennaio 2025

My Favorite Things, novembre e dicembre 2024

ASCOLTI

Amyl and the Sniffers, Cartoon darkness
Jamey Johnson, Midnight gasoline
Blood Incantation, Abslolute verywhere
Charley Crockett, $10 cowboy
DEVO, Freedom of choice
Red Clay Strays, Made by these moments
Eric Clapton, Meanwhile
Gang of Four, Entertainment!
Body Count, Merciless
Wire, Chairs missing
The Smile, Cutouts
The Cure, Songs of a lost world
Warren Haynes, Million voices whisper
Zeal and Ardor, Greif
The Mavericks, Moon and stars
Emily Nenni, Drive and cry
The Replacements, Let it be
Mooon, III
Ezra Collective, Dance, there's no one watching
Knocked Loose, You won't go before you're supposed to
The Cure, Songs of a lost world
Steve Earle, Alone again
Zach Top, Cold beer and country music

VISIONI

in grassetto i film visti in sala

Drive-away dolls (3,25/5)
Longlegs (3,75/5)
Canary black (1,5/5)
Danny Collins - La canzone della vita (2/5)
Bloody calendar (3,25/5)
Fulci talks (3/5)
Lo squartatore di New York (3/5)
Giurato numero 2 (3,75/5)
Pearl (3,5/5)
Libre (2,75/5)
Monkeyman (3/5)
MaXXXine (3,5/5)
La guerra del Tiburtino III (3,25/5)
Foxy Brown (3,25/5)
Fear the night (2,75/5)
Ricomincio da taaac (2/5)
America Latina (3/5)
Tigri e iene (2,5/5)
Shaft il detective (1971) (3/5)
Radio Killer (2,5/5)
The Bourne Legacy (2,25/5)
The irish mob (2/5)
L'ascesa del crimine (2,25/5)
The fall guy (3/5)
Scary stories to tell in the dark (3,25/5)
Countdown (2/5)
La verità secondo Maureen K (3,25/5)
L'isola dell'ingiustizia - Alcatraz (2,5/5)

Visioni seriali

The patient (3,5/5)
The Penguin (3,5/5)
Bodkin (2,25/5)
The day of the jackal (3/5)
Dostoevskij (4/5)







LETTURE

Simon Reynords, Post punk 1978-1984
James Ellroy, Un anno al vetriolo

lunedì 30 dicembre 2024

The Cure, Songs of a lost world

 


Gli anni novanta sono stati l’ultimo decennio in cui la musica rock, il termine va inteso nell’accezione più ampia possibile, ha davvero tentato di rompere con il passato, o meglio con gli artisti più ingombranti del passato. Un po' come era accaduto con punk e post punk vs quello che saturava le radio prima del 1976, tutto ciò che negli ottanta andava in alta rotazione su radio o MTV e riempiva gli stadi, in una repentina spirale discendente suonò irrimediabilmente vecchio e datato. Oggi sembrerà incredibile, ma calibri tipo Springsteen, AC/DC o Rolling Stones (anche per momenti creativi un po' meh) smisero di vendere camionate di dischi e ridimensionarono le location dei loro concerti passando dagli stadi all’indoor per non rischiare invenduti a migliaia.

D’altro canto però la lezione del rock del passato era stata ben assimilati dai nuovi arrivati, ne era saturo il brit pop, il grunge ma anche il trip hop, e persino chi si misurava con la contaminazione tra generi (i RHCP tra funk e hard rock o i RATM tra il rap e il metal) conosceva a memoria la materia trattata, mettendola in pratica con entusiasmo contagioso, attitudine credibile, autenticità, passione e talento.

Poi il “ROCK” si trasforma in una moda mainstream, il mercato musicale collassa, certo, per il p2p, ma anche a causa di manager di major diventati incompetenti, ottusi e ingordi, e questo genere che era stato "di rottura" diventa bene di consumo al pari di un Big Mac. Un business come tanti altri dunque, rivolto prima ai quarantenni, poi ai cinquantenni e oggi ai sessantenni.

Lo so, la premessa rischierà di essere più lunga della recensione, ma mò ci arrivo.

I Cure tornano a pubblicare un album dopo sedici anni dal precedente. E i precedenti (The Cure e 4:13 dream) sono stati probabilmente il punto più basso della loro intera discografia. Songs of a lost world è un disco per cui si era creato un discreto hype, non solo per la lunga iato ma pure a fronte degli innumerevoli annunci di release che si sono rincorsi negli ultimi anni. La band è ormai una consolidata creatura di Robert Smith, unico rimasto della formazione storica assieme al bassista Simon Gallup. I due, in questi anni di ondate di revival post punk/new wave (se ne contano almeno due, quella degli anni zero e quella in corso da qualche anno), si devono per forza essere avveduti della centralità dei Cure dentro questi movimenti, visti gli innumerevoli richiami che band di virgulti continuano a tributargli, e dunque perché dannarsi con sforzi artistici innovativi?

L’album del grande ritorno della band simbolo della dark wave nasce dunque con le stimmate dell’instant classic: otto pezzi per una cinquantina di minuti, imbevuti della tipica poetica gotica e decadente di Smith e di un sound immediatamente riconducibile alla stagione che meglio conciliava gli ostici capolavori del passato (Faith, Pornography) con l’assunzione a band affermata che raggiunse i i grandi riscontri commerciali (Disintegration, Wish, ma anche il notevole e sottovalutato – era il 2000 e vale il discorso di cui in premessa – Bloodflowers).

Si perimetrano in questa confort zone, i Cure, lasciando fuori la loro componente minoritaria più solare e pop (non troverai tracce di Friday I’m in love, Why can’t I be you o Close to me, o del mood di Japanese whisper, qui dentro) e pestando giù con gli elementi più identitari del loro sound. A partire da Alone e fino a Ednsong si è subito - piacevolmente, lo ammetto -  scaraventati nel Cure Universe, con la sola Drone e: Nodrone ad accelerare un po' i bpm.

Un buon album, legittimamente scaltro e totalmente nostalgico, che non può non piacere e che infatti è stato universalmente ben accolto dalla stampa musicale. Dopotutto anch'essa col tempo si è adeguata al trend, rassegnandosi alla retromania imperante che toglie respiro alla musica a venire (e se lo dico io...). L’aspetto divertente è che spesso sono gli stessi critici che venticinque-trent'anni fa stroncavano dischi anche migliori di questo (Bloodflowers, come accennato, per rimanere ai Cure), perché i lettori si erano distanziati dal genere, a portargli oggi l'acqua con le orecchie. 

Songs of a lost world è insomma nè più nè meno il disco giusto al momento giusto, quello che tutti volevano, a dimostrazione che il buon Smith ha imparato a gestire la catena del valore della band, esattamente come farebbe un buon manager d'azienda.


 

P.S. Visto che tutto il post è una noiosa e geriatrica tirata sui “bei vecchi tempi” chiudo con una nota positiva: se più compact disc (intendo proprio l’oggetto fisico) fossero realizzati come Songs of a lost world (due cd, uno con le versioni originali e l’altro con i pezzi strumentali, un bluray con i pezzi della tracklist suonati dalla band, packaging di ottima qualità e un libretto con tutti i testi), forse l’acquisto tornerebbe ad essere più accattivante di un ascolto su spotify o dello sharing illegale. Ma forse anche no, vista la fase di disarticolazione dell’album in favore dei singoli brani. A proposito funzionava così anche negli anni sessanta. Giusto per chiudere il cortocircuito.

lunedì 23 dicembre 2024

Charley Crockett, $10 cowboy

Cerco ancora di seguire la scena true country, ma devo ammettere che probabilmente sto perdendo qualche colpo. Diversamente non mi spiego come possa essere rimasto fuori dai miei radar Charlie Crockett, texano, che sostiene di essere discendente proprio da quel Crockett lì, e che dal 2015 ha pubblicato la sciocchezzuola di quindici lavori, tra full lenght ed EP. 

Nell'arrendermi al tempo che passa e allo spare time che si riduce ad una fessura, ho ancora però la passione e l'entusiasmo per esaltarmi davanti ad un'opera satura di una sensibilità e di una cultura musicale fuori dal comune, qual è 10 $ Cowboy
Il buon Charley, pur essendo nato nel Lone Star State, ha passato del tempo in New Orleans, e deve essere proprio lì che ha imparato ad allargare i propri orizzonti musicali e a contaminarli, assimilando la lezione dell'epocale Modern sounds in country and western music di Ray Charles ma anche di Sturgill Simpson, con tanta black music.

Solo così, assolto il compito dell'open track country di gran classe, che è anche il titolo del disco, si può passare ad una magnifica America, per me una delle canzoni dell'anno, nella quale il nostro è accompagnato da un sax (Jeff Dazey) che regge la tensione per l'intera durata del pezzo. Non c'è traccia del mio amato honky tonk in questo lavoro, per l'approccio musicale allargato di Crockett sovviene un paragone anche con Lyle Lovett, non tanto per il pattern swingato dell'ex della Roberts, quanto per l'approccio "orchestrale" usato. Qui infatti il texano usa sì la slide ma anche strumenti caldi, quali viola, violoncello e violini, ma non nella modalità danzereccia country western.

Insomma, mentre sorprendi la tua mente vagare leggera e sognante su tracce malinconiche da loser come Hard luck & circumstancies; Good at losing; Gettin' tired again o Ain't done losin' yet, forse puoi convenire con me che sei in presenza di un grande artista che pompa linfa nel nuovo country di qualità, e, nel farlo, probabilmente realizza uno degli album dell'anno. Ce ne accorgeremo?


lunedì 16 dicembre 2024

Lo squartatore di New York (1982)


Lucio Fulci, al suo quarantesimo film (a volte ci si dimentica delle dimensioni della sua produzione sterminata e trasversale ai generi), e dopo aver infilato una serie di titoli che dalle nostre parti saranno purtroppo rivalutati abbondantemente post portem (Beatrice Cenci; Una sull'altra; Una lucertola con la pelle di donna; All'onorevole piacciono le donne; Non si sevizia un paperino; Sette note in nero; Zombie 2; Luca il contrabbandiere; I quattro dell'apocalisse e la trilogia della morte - Paura nella città dei morti viventi; L'aldilà; Quella villa accanto al cimitero - ), decide di lasciare il sovrannaturale e dedicarsi al whodunit, ovviamente caratterizzato da ultra violenza e gore. 

Sotto l'ala protettiva del leale produttore Fabrizio De Angelis, con gli interni rigorosamente girati in Italia e gli esterni strettamente necessari ripresi in location americane (sempre "all'italiana" comunque, cioè spesso senza permessi e autorizzazioni), Fulci mette in scena un altro incubo di violenza, disinteressandosi al meccanismo investigativo (effettivamente fiacco) e invece accelerando in un crescendo di splatter non sempre sostenibile, lasciando traccia nella storia del genere, nonostante le implacabili stroncature critiche dell'epoca, per almeno un paio di sequenze sadicamente memorabili: in particolare quella dell'omicidio con la bottiglia rotta usata come arma e le sevizie finali sulla malcapitata di turno, brutalizzata con una lametta da barba.

Tutte scene realizzate attraverso effetti speciali artigianali brutalmente efficaci, nonostante l'assenza dello storico truccatore Giannetto De Rossi, qui sostituito degnamente da Franco Di Girolamo. L'altro aspetto che caratterizza la pellicola è l'aspetto erotico - morboso - soft porn, con alcune scene piuttosto esplicite, come quella al bar dei portoricani che stimolano sessualmente per poi umiliare la signora ricca, annoiata e malauguratamente perversa. 

Il film non è tra i prioritari che consiglierei per approcciare l'arte di Fulci, e pur tuttavia, se sei in possesso di uno stomaco forte e gradisci questo tipo di intrattenimento splatter, siamo sempre dalle parti di cinema povero ma superiore a tante produzioni attuali, che possono beneficiare di budget rilevanti, ma prive di idee e passione.

Curiosità: il giovane stallone che si esibisce nello spettacolo porno dal vivo in un club per adulti altri non è che Urs Althaus, futuro Aristoteles de L'allenatore nel pallone.
Cortocircuiti di quando il nostro Paese era una fucina ad alto tasso produttivo del cinema di genere.


Prime Video (noleggio)

lunedì 9 dicembre 2024

Dostoevskij



Dopo anni di dibattito sul livello delle serie televisive in rapporto al cinema, sono arrivato alla personalissima conclusione che, nella maggior parte dei casi, un'analogia la si può evidenziare solo nella scelta di serialità delle due forme d'espressione audiovisive. Cioè tra il tanto cinema odierno che nasce già con l'intento di diventare franchise e, appunto, i serial. Per il resto tendo a pensare che il prodotto film, con una traiettoria temporale ben definita di esistenza artistica (mediamente 90-120 minuti), continui ad essere preferibile ad un formato che nel tempo si può plasmare e stravolgere a seconda di algoritmi e sopravvenute preferenze degli spettatori. Ci sono però delle eccezioni che rilevo nelle serie cosiddette autoconclusive o "mini", soprattutto se affidate ad autori indipendenti con una loro forte identità. 
E' il caso di Dostoevskij, serial da sei episodi firmato dai fratelli D'Innocenzo, dove, con la "scusa" del poliziesco, i registi rovesciano per quasi cinque ore la loro visione da incubo della realtà addosso all'incauto spettatore.

Dostoevskij è il soprannome che un gruppo di investigatori di cui fanno parte Enzo (Filippo Timi) e Fabio (Gabriel Montesi) hanno assegnato ad un serial killer che ogni volta lascia sul luogo del delitto una lettera fitta di considerazioni filosofiche sulla disperazione della condizione umana. Questa sinossi è contemporaneamente fedele e quanto di più fuorviante ci possa essere per inquadrare il mood dell'opera, che è tutto meno che una scopiazzatura di un pattern di soggetto di genere americano. 

Si tratta piuttosto di un viaggio nella psiche tormentata e sanguinante di Enzo Vitello, interpretato da un Filippo Timi mostruosamente bravo, che conduce un'esistenza alla deriva, divorato dai sensi di colpa per aver abbandonato la figlia ancora piccola e sentendosi quindi responsabile della sua crescita da tossica e sbandata. Ed è come se le location in cui si svolge la storia, un non luogo depresso, fatiscente, periferico nell'accezione più deprimente del termine, sia essa stessa una protagonista, un luogo oscuro e perverso da cui nulla di buono potrà mai originare. Mentre Vitello ben si adatta a questo scenario deprivato di ogni speranza e ai suoi protagonisti, che in lui e nei suoi fallimenti si rispecchiano, il suo antagonista Fabio (un Montesi che indubbiamente gode di buona stampa), ambizioso, cinico e arrogante, capisce solo quando ormai è tardi di non poter sopravvivere nel contesto.

I D'Innocenzo, qui alla loro quarta prova dopo tre film tra il 2018 e il 2021 nei quali sono stati equamente lodati e criticati per eccesso di sicumera, tirano dritto e se ne fregano, non limitandosi a restare nel loro ma rilanciando, girando con una sporchissima pellicola Super 16 millimetri quanto mai efficace a conferire ulteriore morbosità ad una storia marcia che sembra mostrarci una spirale di purgatorio ad un passo dall'inferno in cui tutto è un macguffin: la stazione di polizia, gli agenti senza divise e auto contrassegnate, l'indagine, un tempo sospeso tra passato (i novanta, forse) e il presente. 

Soprattutto i D'Innocenzo ci obbligano ad osservare l'abisso di un sudicio threesome con DP che arriva direttamente da un mondo del porno evidentemente conosciuto dai due e a decidere se parteggiare per la vendetta di adulti con un passato di abbandono che hanno passato l'inferno di un orfanotrofio o per un pedofilo che ha scelto di annullarsi per non cadere nei suoi desideri più aberranti e reconditi, passando anche per una fulciana, sadica sequenza splatter con accanimento sul bulbo oculare (con tutti i suoi significati cinematograficamente noti), fino ad un finale catartico, ma non esattamente come ti aspetteresti.

Una serie così in Italia non si era mai vista. 


Sky/Now

lunedì 25 novembre 2024

Fontaines D.C., Romance

Va beh, togliamoci il dente. Eccolo qui l'album dei Fontaines D.C. che proietta la band irlandese al successo mainstream. Dietro una delle copertine più brutte che mi sia capitato di vedere, undici brani che puntano apertamente al grande pubblico tentando una difficile connessione con la storia del gruppo, costruita fin qui con tre album all'insegna della crescita costante. Dietro le dichiarazioni che accompagnano ogni nuovo album, (aspetto ormai metabolizzato e gestito da Chatten da consumata rock-star), e che tendono a "giustificare" l'alleggerimento dei pattern con la volontà di allontanarsi dai temi irlanda-centrici, c'è in realtà la legittima ambizione di allargare la propria fan-base. Mettendo in conto di perdere, o ridurre, quella storica, chiaramente più snella. 

Il nuovo viaggio si apre, un pò ingannevolmente, con una traccia abbastanza in linea con la tradizione malinconica che è quota parte del DNA dei Fontaines D.C. e che è anche la title track, una opener perfetta, soprattutto per preparare il terreno al singolone che ha cambiato la storia del gruppo: quel Starbuster caratterizzato dalla geniale intuizione di contrassegnare il termine del refrain con una plateale e grezza inspirata per riprendere fiato. Ma è con la successiva Here's the thing che la band diventa letteralmente irriconoscibile, travolta da una melodia smaccatamente UK pop alla Blur anni novanta, ai tempi del dualismo con gli Oasis. 
Probabilmente consapevoli dell'effetto straniante creato con una traccia così anomala, nel proseguo della tracklist i Fontaines D.C. piazzano i pezzi probabilmente migliori dell'intero lavoro, su tutti In the modern world Bug, prima dell'altrettanto valida, al tramonto dell'album, Death ink.

E' certamente importante per una band darsi degli obiettivi e ancora di più lo è riuscire a raggiungerli, non è un'operazione banale decidere di fare un passo in direzione mainstream ed avere scaltrezza e capacità artistica di riuscirvi, restando tutto sommato fedeli alla propria storia (mi viene il paragone con Springsteen, che con Born in the USA ha sempre continuato a proporre il suo blu collar rock, semplicemente poppizzandolo). Per quello che mi riguarda, senza tragedie (visto che, ahimè, non ho più sedici anni), nei Fontaines D.C. dei primi tre, splendidi, dischi (due recensioni le trovi qui e qui) e arrivo a dire forse finanche il lavoro solista di Chatten (qui) mi ci trovavo di più. 

Cioè questo passaggio da una musica da fili elettrici scoperti, dagli spasmi di una Hurrican laughter o di una Televised mind, dalla malinconia atonale di I don't belong o di una How cold is love, alla coolness di Starbuster o Here's the thing fatico a sedimentarlo. Insomma, le mie solite menate. Romance resta comunque un buon disco, senza dubbio sopra la media della roba che di questi tempi fa classifica o visualizzazioni a rotta di collo. Nella mia bolla snob, sono felice di averli visti dal vivo prima del grande botto.

giovedì 21 novembre 2024

Recensioni capate: The Penguin



Cosa si dice dei film noir/crime/polizieschi/action? Che se azzecchi il villain sei a metà dell'opera. La lezione è stata ampiamente metabolizzata dagli studios che ai villain dei comics sono arrivati a dedicare addirittura dei solo cinematografici, dalle fortune alterne. Nella serie tv The Penguin i villain sono due, e sono entrambi strepitosi. Il Pinguino, appunto, sideralmente lontano dalla caratterizzazione dei Batman televisivi dei sessanta o da quella di Tim Burton (che da quella visione pop pescava, aggiungendoci l'immancabile tocco gotico), interpretato (come nell'ultimo film) da un eccellente Colin Farrell, sottoposto a ore di trucco prostetico, e dalla (per me) rivelazione Cristin Milioti, nei panni della figlia del defunto boss Falcone, Sofia. Per certi versi è lei la vera protagonista, dolente, furiosa, umiliata da chi più di tutti avrebbe dovuto proteggerla. Anche Oswald Cobb/The Penguin è un personaggio che si farà ricordare, traditore patologico, narcisista, affabulatore, cinico e omicida fino all'ultimo. Una serie crime a tutto tondo che nulla a che vedere con i comic movie (il collegamento con The Batman si riduce all'incipit dell'inondazione provocata dall'Enigmista) e che si concentra su dinamiche malavitose universali crude e dark. Da vedere.

Sky/Now

lunedì 18 novembre 2024

Recensioni capate - La leggendaria storia degli 883

Sarà la nostalgia, come cantava quel tale, sarà che nel novantadue novantatre ascoltavo sì i Nirvana e i Sepultura ma il terreno comune per quelle estati di una compagnia quanto mai oscillante come gusti musicali furono proprio i primi due dischi degli 883, gli unici con il duo Pezzali Repetto dietro il monicker. Ma sarà anche che Syndney Sibilia, dopo il folgorante Smetto quando voglio (e i suoi sequel), si è ritagliato questo spazio di racconto nostalgic-pop su piccoli grandi avvenimenti nazional popolari (L'incredibile storia dell'Isola delle Rose; Mixed by Erry) e insomma ci ha preso bene la mano. Ne deriva che la serie Hanno ucciso l'Uomo Ragno - La leggendaria storia degli 883, al netto della celebrazione per gli attuali cinquantenni dell'ultimo "decennio analogico" rappresentato dai novanta, risulta fresca, divertente e pop nell'eccezione migliore. Sarebbe un prodotto riuscito anche se fosse totalmente frutto di fantasia, e in effetti le licenze che gli sceneggiatori si sono presi pare siano più d'una. 
Per parafrasare un'altra opera dei primi novanta, questa volta un disco, Watch without prejudice.

Sky/Now

lunedì 11 novembre 2024

Manuel Agnelli, Ama il prossimo tuo come te stesso (2022)

A sei anni dall'ultimo album degli Afterhours (Folfiri o Folfox) Manuel Agnelli, assunto nel frattempo, grazie a X Factor, a star nazional popolare, mette per la prima volta la band in pausa e a cinquantasei anni, dopo oltre trentacinque di carriera, pubblica il suo primo lavoro solista. Una scelta attesa ma non banale, posto che gli Afterhours stanno ad un padre padrone (Agnelli, appunto) quanto, per dire, i Nine Inche Nails a Raznor o gli ultimi Cure a Robert Smith. Non siamo pertanto di fronte ad un'esigenza di affrancamento artistico (e il contenuto dell'album, come vedremo lo conferma) ne tantomeno ad una scelta dettata dall'urgenza di veicolare liriche intimamente personali, da questo punto di vista è molto più personale e introspettivo Folfiri o Folfox, che metabolizza il dolore per la malattia e la morte del padre di Manuel.

Ama il prossimo tuo come te stesso (parliamone, di questo titolo...) viene concepito e costruito durante i mesi del lockdown causato dalla pandemia e certamente qualche tossina di questo periodo si avverte, ma Agnelli dimostra che la notorietà di massa non ha intaccato la sua verve artistica totalmente indipendente, piazzando più di una canzone i cui testi sono contraddistinti dall'irriverenza punk e dalla ferocia lirica che i fan degli Afterhours ben conoscono e amano. Parto da qui, dalla sorpresa di due pezzoni come Signorina mani avanti e Proci, che fungono da repellente (soprattutto il secondo) per ascoltatori occasionali che cercano dal "giudice del talent di successo" melodie facili e parole accattivanti e viceversa da raccordo con quanti (here I am), con gli Afterhours hanno vissuto anni totalizzanti.

Poi certo, essendo nato "in cattività", si capisce come la gestazione dell'album sia stata solitaria, al pianoforte, e alcune tracce tali siano rimaste: sarebbe stato sanguinoso stratificarle con inutili orpelli. Pezzi come l'opener Tra mille anni mille anni fa, la title track e, soprattutto, Milano con la peste, una canzone semplicemente meravigliosa, raccordano sontuosamente l'indie delle origini con i chansonnier più classici. 
Essendo poi il disco uscito a invasione in Ucraina iniziata, Manuel non si nega un'incursione sul tema, con due tracce, Severodonetsk (che rimastica l'epocale intro di chitarra di Male di miele) e Guerra e pop-corn (100% Afterhours). 

A voler trovare un difetto ad un'opera insperatamente convincente e decisamente necessaria, c'è da dire che Lo sposo sulla torta (co-singer Emma Agnelli, figlia del nostro) è un divertissement pop che avrebbe potuto funzionare come alleggerimento strategico infilato tra le atmosfere di Milano con la pesteSeverodonetsk ma che manca il bersaglio a causa della sua manifesta inferiorità rispetto a tutto ciò che lo circonda. 
Poco male davvero, a fronte di tanti dischi in cui oltre la metà della tracklist è composta da filler, qui non posso lamentarmi di un brano debole su dieci esaltanti. Avercene.
E insomma sì, arrivo in ritardo su uno degli album dell'anno (2022).

giovedì 7 novembre 2024

Playlist (poco) sciuè sciuè - Autumn edition

01. Terry Allen, Amarillo highway (1979)
02. The Meters, People say (1974)
03. The Vaccines, If you wanna (2010)
04. Grant Lee Buffalo, Mockingbirds (1994)
05. One Dimensional Man, Tell me Marie (2004)
06. Sleater-Kinney, Entertain (2005)
07. Marta Sui Tubi, Cromatica (2011)
08. Charley Crockett, America (2024)
09. The Stone Roses, I am the resurrection (1989)
10. Van Morrison & The Chieftains, I'll tell me ma (1988)
11. Zeal & Ardor, Clawing out (2024)
12. Samara Joy, You stepped out of a dream (2024)
13. Sergio Caputo, Un lentissimo rock (1993)
14. X, Big black X (2024)
15. Losers, Flush (2010)
16. Lone Justice, Sister Anne (2024)
17. Nick Cave and the Bad Seeds, Long dark night (2024)
18-19. Superjoint Ritual, The alcoholic/Fuck your enemy (2002)
20. Manuel Agnelli, Milano con la peste (2022)
21. CW Stoneking, I heard the marching of the drum (2008)
22. The Hold Steady, Sequestred in Memphis (2008)
23. Amyl and the Sniffers, Big dreams (2024)
24. Pixies, Chicken (2024)
25. D-A-D, Keep that mother down (2024)
26. Còsang, Perdere 'a capa (2024)
27. Chrystabell & David Lynch, Sublime eternal love (2024)
28. Fontaines DC, In the modern world (2024)
29. Natalie Merchant, Wonder (1995)
30. The Chieftains feat Ry Cooder, Canciòn mixteca (2010)