Nel
1961 uno sconosciuto e squattrinato giovane arriva a New York dal Minnesota con
uno zaino sulle spalle e una custodia di chitarra nella mano. Obiettivo
l’ospedale in cui è ricoverata l’icona socialista del folk americano, il padre
di tutti i busker: Woody Guthrie. Il giovane si fa chiamare Bob Dylan e quando, al
capezzale del suo eroe ridotto al silenzio e alla semiparalisi da una grave
malattia neurologica, alla presenza di Pete Seeger, si mette a suonare la
canzone che ha scritto per lui, ai due anziani folk singers nella stanza appare
immediatamente chiaro di essere testimoni della nascita del fottuto gesù cristo del folk.
Ah
i biopic delle star musicali… Croce e delizia, tutti li vogliono, tutti ne
rimangono delusi. A partire dai die hard fans che conoscono ogni minuscolo dettaglio della vita del loro
beniamino e storcono il naso se non lo trovano riportato
nella rappresentazione audiovisiva che vorrebbero facesse finalmente vivere gesta di cui fino a quel
momento avevano solo letto e fantasticato. Se ci pensi, si contano sulle dita
di una mano i biopic a tema musicale che sono riusciti nell’impresa di
convincere a pieno i seguaci di quel determinato artista, e, a mio avviso, sono quelli che
hanno trovato una chiave di lettura che riuscisse a travalicare la mera
esposizione cronologica degli eventi o che svoltassero sui generi
cinematografici. Faccio due esempi recenti: Rocket man, il biopic su Elton
John, che si serve del musical o Lord of chaos, dramma a tinte gore sulla nascita del black metal
norvegese.
Anche
qui non tutti i fans furono soddisfatti (e anzi), ma i film funzionavano come
opera compiuta a sè stante, e a mio avviso è questo l’obiettivo che ci si deve dare nel mettere a terra un biopic recitato,
diversamente ci sono i documentari. In A complete unknow, posto il livello di
difficoltà massima dell’operazione, che possiamo sintetizzare nelle tematiche
di cui sopra, nell’enormità del personaggio trattato, nella storia prettamente
artistica e priva dunque di elementi attrattivi di vita
dissoluta&spericolata a base di camere di hotel distrutte, droga (che pure ha
attraversato la vita di Bobby) e sesso a vagonate, siamo comunque davanti ad
un’opera che si regge sulle sue gambe.
D’altro
canto la regia di Mangold è una discreta garanzia. James non è mai stato
considerato un fuoriclasse, ma uno che porta (quasi) sempre a casa il lavoro
(Cop Land, Walk the line, Logan: the Wolverine, Le Mans 66), quello sì.
A complete unknown ci mette due ore e venti per rendere meno di quattro anni di vita di Dylan. Non poco. Da qui, credo, la necessità di saltare alcuni eventi importanti di quel periodo (il tour in UK, la liason con le droghe) che avrebbero inutilmente appesantito la storyline. In compenso la parabola artistica di Bob, dentro un orizzonte temporale in cui il cantautore ha realizzato quattro album (tre, se escludiamo l'esordio composto quasi esclusivamente da cover) e la maggior parte dei suoi pezzi entrati nella leggenda, è definita abbastanza coerentemente. Intendo dire che lo spettatore casuale per il quale Dylan è solo un nome già sentito la può inquadrare e capire a sufficienza.
Timothèe
Chalamet ha creduto fortemente in questo ruolo, sostiene di essersi preparato
per anni, è rimasto deluso dal fatto che Dylan non l’abbia voluto incontrare
(maddai?!?) e se la cava bene sia con la parlata, che si modifica nel corso
dell’asse temporale narrato, che col cantato, tenuto conto dell’inimitabilità del
timbro dylaniano (non l’ho specificato per non passare per il solito nerdone,
ma do per assunto che il film vada visto in lingua originale). Certo, la
certosina attenzione nel replicare i particolari riportati dalle fotografie e dai
video dell’epoca a volte restituiscono, nella figura di Dylan/Chalamet, un
effetto straniante un po' da cosplayer, ma che ci vuoi fà.
Tutto okay quindi? Beh, no. Detto che la pellicola ha trovato faticosamente l’equilibrio tra fan product e audiovisivo per tutti, la parte più critica riguarda i comprimari, i character. Pete Seeger (un convincente Edward Norton) ci viene mostrato come un hippy buonista, insomma dai abbastanza noioso e inconcludente (nonostante l’incipit che lo vedeva a processo), tra canzoncine-scioglingua ed educational tv. In realtà Seeger è stato molto altro, ha scritto pezzi di palese contrasto alla politica americana e recuperato traditional anti militari aguzzi come coltelli. Di Woody Guthrie (Scott McNairy) si poteva trovare il modo di raccontare qualcosa della sua indiscussa centralità nella musica "contro", dalla parte degli ultimi, dei dimenticati, sarebbero bastate un paio di linee di dialogo. Stupisce poi la caricatura tratteggiata su Johnny Cash (Boyd Holbrook), visto il buon lavoro del regista sul suo biopic (Walk the line). Alan Lomax (Norbert Leo Butz) infine, personaggio epocale, che ha avuto un ruolo gigantesco nel recuperare la old time music americana, latina, europea, il folk, il rurale, il gospel, il blues, andando a registrare composizioni che diversamente sarebbero andate perse e che invece oggi fanno parte del patrimonio dell’umanità. Ecco, dipingere uno così come un talebano del folk, facendogli fare il villain del film, è un pò disonesto, superficiale e deprecabile.
Perché guardando A complete unknown, al netto delle inevitabili semplificazioni,
lo spettatore comune può farsi un’idea della scorbutica genialità di Dylan, un’artista che rifiuta i recinti in cui lo vorrebbero rinchiudere, che
si evolve continuamente, come solo i veri Artisti (Mozart, Miles Davis, David Bowie, Lou Reed)
fanno in maniera spontanea, ma perde un po' il contesto artistico che ha
permesso l’eruzione artistico poetica di Bob e i sacrifici compiuti in nome
della musica, della storia e della libertà che qualcuno (Guthrie, Seeger,
Lomax) prima di lui ha compiuto, preparandogli il terreno.
Pur
deludendo i fans e non convincendo appieno i “laici”, A complete unkown resta comunque un film decoroso, il secondo (prima ci fu il visionario Io non sono qui), sull’uomo
che, arrivando da un paesino del Minnesota, ha rivoluzionato per sempre la
musica popolare. Bestemmio se dico che una serie tv, di quelle fatte bene, non
sarebbe una cattiva idea, per coprire almeno i primi vent'anni artistici di questo genio?
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