lunedì 21 giugno 2010

Il dilemma di Pomigliano (e anche il mio).




Prologo.

In principo volevo scrivere due righe a commento di questo post di Ale sull'accordo dello stabilimento Fiat di Pomigliano d'Arco. Appena ho cominciato mi sono però reso conto che non me la sarei cavata così sbrigativamente.
Poco dopo ci ha pensato l’amico Vittorio a stimolare ulteriormente la discussione, con quest'altro suo scritto. Intanto io continuavo a scrivere, e la traduzione su pc del mio pensiero si allungava sempre di più, complicandosi al punto che avevo quasi deciso di mollare il colpo per manifesta incapacità ad organizzare le idee e renderle comprensibili. Il che è strano, perché in genere, come recita il sottotitolo del blog, non è che i miei pezzi subiscano tutte ste revisioni prima di essere pubblicati. Quasi sempre è bona la prima (con tutto ciò che ne consegue) e via. E allora mi sono arreso ai miei limiti strutturali e ho cliccato su pubblica post. Pazienza se passerò per moderato, i panni del duro&puro non mi hanno mai vestito bene.


In premessa, alcune considerazioni:

1) quando ci sono di mezzo campioni di simpatia e moderazione del calibro dei ministri Sacconi e Brunetta e del tuttologo Capezzone viene voglia di mandarli a cagare. Sempre, e a prescindere dall’argomento.

2) Ha pienamente ragione Epifani a definire Cisl, Uil e Ugl "subalterni" alle scelte di governo, giacchè firmano qualunque cosa gli venga proposta ancora prima che gli venga formalizzata, a partire da Alitalia, passando per i tagli nel pubblico per finire appunto con Pomigliano d'Arco.

3) Queste sigle inseguono da tempo (e potrebbero aver ottenuto in questo senso garanzie dall'esecutivo) un modello di sindacato diverso da quello storico italiano. Sulla falsariga di quello concertativo tedesco per intenderci, ma anche oltre. Un sindacato sportellizzato tipo direzione provinciale del lavoro, un sindacato che quindi, essendo nel tessuto istituzionale, può fare a meno dell'adesione/consenso dei lavoratori (e quindi del loro finanziamento). Una roba tipo enti bilaterali, timbri, consulenze, patrocini e via dicendo. La Cgil no. E per fortuna persevera su un altro binario.

4) Quello che sta attorno ad un accordo difficile (come è sicuramente quello di Pomigliano) è importante come l'accordo stesso. Ciò che si dice fuori dal tavolo, al telefono e nei corridoi, le prove di forza, i tentativi di mediazione, le forzature, le richieste. Non conoscendo questi aspetti e i contenuti specifici dell'intesa è difficile dare un giudizio a ragion veduta. Certo, è strano che una trattativa così difficile e a suo modo epocale si sia risolta in poche ore, questa è roba da mesi di riunioni e oltranze fino allo sfinimento. Per dirla fuori dai denti: sento puzza di accordo tra i firmatari e di imboscata ai danni della Fiom.

5) Tutti i sindacalisti, presi singolarmente, sotto sotto pensano di essere gli unici depositari dell’agire sindacale e che pertanto quello che fanno i colleghi è sempre, se non sbagliato, di certo perfezionabile. Ecco, io socializzo la mia opinione ponendomi fuori da questo celodurismo, ma solo per la passione che continuo ad avere per questo ambito e per una certa insofferenza alle ipocrisie, indipendentemente da dove esse arrivino.

Detto questo, per chi fa sindacato e crede nel suo ruolo, quella di Pomigliano rappresenta una questione lacerante, un dilemma direi morale.Personalmente mi sono sentito dilaniato tra il richiamo degli ideali e un meno affascinante realismo. Banalizzando il concetto: la più grande azienda italiana riporta in patria la produzione del suo prodotto più venduto. Lo scambio che chiede è un peggioramento molto significativo delle condizioni di lavoro e dei diritti acquisiti degli operai, per avvicinare tempi e modi della produzione al modello polacco. Pesanti interventi quindi su orario di lavoro, pause, riposi, malattie, scioperi. Un terremoto nelle abitudini lavorative, e non solo del Mezzogiorno.

Un terremoto però, che se ha pochi precedenti per intensità, è stato sicuramente preceduto da innumerevoli episodi nel merito dei contenuti. Per restare nel generico, molte norme che tutelano la salute dei lavoratori, prevedono al loro interno anche delle deroghe stipulabili dalla contrattazione nazionale. Per fare un esempio, il Dgls. 66/03 (un’ottima legge che norma orario di lavoro, pause, ferie) prevede l’obbligo di riposare dopo massimo 6 giorni di lavoro; che ci sia uno stacco di almeno 11 ore tra un turno e l’altro di lavoro e almeno 35 ore di riposo tra l’ultimo giorno di lavoro, un riposo e il rientro in servizio. Ebbene, questi ultimi due elementi sono derogabili con accordo tra le parti (e molti CCNL infatti lo hanno fatto) e il riposo obbligatorio nella settimana è stato derogato direttamente dal governo con la finanziaria del 2008 (Dlgs 112/08) che arriva a permettere fino a 12 giorni di lavoro consecutivi. Lo sottolineo per dire che, quando non siamo d’accordo parliamo di condizioni inaccettabili, ma quando troviamo la quadra, e le mediazioni (gli scambi) tengono, sottoscriviamo patti che peggiorano il livello minimo di garanzia previsto dai legislatori. Mica lo facciamo perché ce ne fottiamo. Ma perché il contesto vincola, e non potrebbe essere altrimenti, l’agire sindacale.

Ma i problemi più insormontabili che hanno impedito alla Fiom di firmare a Pomigliano sono sostanzialmente due: i limiti posti al riconoscimento dell'indennità di malattia e quelli previsti al diritto di sciopero.
L’assenteismo (l'abuso della malattia) è un problema che riguarda molte aziende, tutte quelle che io definisco pseudo-statali, quelle cioè che pubbliche non sono, ma per dimensioni, storia, tradizione, massiccia presenza sindacale ed assunzioni politiche, associo a quelle statali, o almeno ai malcostumi, veri o presunti, che ad esse si collegano.

E’ una questione seria, e rispondere a quanti la sollevano sostenendo che bisogna colpire esclusivamente il singolo che approfitta dell’INPS per farsi ferie, secondo lavoro, attività elettorale o altro, equivale a infilare la testa sotto la sabbia. E non lo dico perché sono diventato improvvisamente filo-aziendalista, ma perché non vorrei mai che ad abusare di un diritto sacrosanto e inviolabile, come quello di essere retribuiti quando si sta male, a qualcuno venga in mente di limitarlo o toglierlo. Per fare un esempio, nella mia azienda (assenteismo a balla), c’era la possibilità per gli impiegati di stare in malattia fino a due giorni senza produrre certificazione medica. Vi lascio immaginare l’uso che ne è stato fatto e anche quanto ci ha messo l’impresa a revocare questa condizione.
Un altro fatto che vorrei porre alla vostra attenzione è che diversi contratti, ovviamente di settori deboli e poco tutelati, prevedono da tempo una corresponsione minore o nulla, dei primi giorni di malattia. Questi contratti di lavoro sono firmati anche dalla Cgil.

Per tornare a bomba, leggo nell’accordo di Pomigliano che l’eventualità di non pagamento dei primi tre giorni di malattia è prevista in casi particolari (“astensioni collettive dal lavoro, manifestazioni esterne, messa in libertà per cause di forza maggiore o per mancanza di forniture, nel caso in cui la percentuale di assenteismo sia significativamente superiore alla media”) e il mancato riconoscimento dell'indennità può essere valutato da una commissione bilaterale azienda-sindacati.

Il diritto di sciopero. Nelle contrattazioni è già avvenuto (anche a me personalmente) che a fronte di un grosso impegno a livello occupazionale, con relativo rischio concreto per l'impresa, si convenga di ridurre per un certo periodo la conflittualità sindacale. In questo caso però c'è da sottolineare che in effetti si prevede un adeguato contrappasso per l’impresa, che in genere si traduce nell’impedimento ad attuare azioni unilaterali (ad es. licenziamenti collettivi). Strumentalizzando si può parlare di limitazione del diritto di sciopero, ma forse sarebbe più opportuno riferirsi ad una autoregolamentazione intervenuta a seguito di eventi eccezionali.

In conclusione, quello che a mio avviso andava fatto, in una situazione complessa, piena di insidie e sfaccettature, con le altre sigle già schierate e il governo che faceva sponda sempre e solo dalla parte dell'impresa, era analizzare le conseguenze delle possibili scelte.
Capire cioè se il gioco di un concreto peggioramento delle condizioni di lavoro valesse, e fino a che punto, la candela del rientro dall’est europeo di una produzione di massa di auto in Italia. In caso positivo sarebbe stato opportuno ipotizzare un punto di caduta estremo, e condurre la trattativa per restare entro quel limite, fino a quando, dopo ore, giorni, settimane o mesi di negoziazione si sarebbe arrivati all’ultima mediazione, all’ultima offerta.
Questo è stato fatto dalla Fiom-Cgil? Non lo so. A giudicare dall’ intervista rilasciata da Epifani al Corriere della Sera di venerdì 18 sembrerebbe di no.
Era una trappola per continuare ad isolare la Cgil, e dunque le controparti (più Cisl, Uil, Ugl) non avrebbero mai acconsentito alle richieste del sindacato di Corso Italia? Molto probabile. Ma forse proprio per questo bisognava attuare una strategia diversa, cercare (mi rendo conto che era estremamente complicato) una strada alternativa a quella, prevedibile, della rottura, che ovviamente è stata fatta passare subito come preannunciata da parte di un sindacato che sa dire solo no.
Un atteggiamento diverso, in Alitalia, ha permesso di apportare significativi miglioramenti alla prima stesura, condivisa, manco a dirlo, da Angeletti, Bonanni e Polverini. Modifiche che sono andate a tutto vantaggio di quei lavoratori.

Anche perché, in ultima analisi, il ruolo del sindacato non si esaurisce con la firma in calce ad un pezzo di carta. Il difficile comincia dopo, con la gestione dell’intesa, e con l’opposizione vera a che questo accordo, nato da un contesto eccezionale, non diventi la regola dei contratti di lavoro in Italia.



Ecco, l'avevo detto che mi sarebbe venuta un pò lunga...

3 commenti:

drunkside ha detto...

Innanzitutto grazie per il post, aspettavo la tua opinione.

Ecco, il problema principale credo sia quello che evidenzi. Ossia un dilemma difficile da districare. E' vero, la Fiat porta la produzione in Italia. Ma a che prezzo?
Credo che la situazione attuale sia anche frutto di abusi da parte di sindacati e lavoratori. Conosco i miei conterranei, e non fatico a immaginare che la questione dell'assenteismo sia decisamente fondata. Quindi temo che un po' ce la sia andata a cercare.

Ma a quel punto mi subentra il grillo ideologico. Ce la siamo andata a cercare, è vero. Ma non è che i padroni l'avrebbero fatto comunque?
E, soprattutto, se passa quest'accordo, cosa succederà? Il rischio è che questa situazione di soffocamento legalizzato dei diritti si estenda a macchia d'olio in tutta Italia. E in quel caso sarebbero cazzi amari.

Altra questione sul tavolo. La Fiat lascia la produzione in Italia, e bisogna essere felici che non vada all'estero, dove l'impresa ha costi decisamente più contenuti. Ma ha senso questo discorso? E' vero, c'è la globalizzazione e tutto il resto. Ma perché bisogna svendere le proprie professionalità solo perché arriva qualcuno (può essere polacco, cinese, di Bassano del Grappa o di Agrigento) che si fa pagare decisamente meno? E se poi arriva un altro che si fa pagare ancora meno? E poi un altro ancora, con prezzi sempre più bassi?

Dobbiamo ringraziare la Fiat, in un momento di crisi a Pomigliano ci sarà lavoro. Ma a che prezzo?

E' il mercato, dirà qualcuno. Per carità. Ma mi fa schifo, e almeno fatemelo dire.

drunkside ha detto...

Aggiungo che mi si è pure scassata la 600, quindi Marchionne se ne andasse affanculo.
Grazie.

monty ha detto...

prego. :-D