martedì 28 ottobre 2025

Nothin' but a good time - La storia non censurata dell'hair metal degli anni 80 (2025)


Quanto ci piaceva l'hair metal! In un certo senso era la quintessenza del marketing degli USA stessi: look estremo, eccessi, bellezza, sesso, droghe e rock and roll a portata di mano per i più sfacciati e spudorati (e quindi non necessariamente i più bravi). Chiaro che non poteva durare, ma come ogni genere musicale (anche più dignitoso del cazzo di glam-metal) nessuno dei protagonisti se n'era accorto per tempo, fino a quando non è arrivato il meteorite grunge a distruggere tutto il creato hair conosciuto. 
Il progetto Nothin' but a good time (che prende il titolo dal brano manifesto dei Poison) è stato innanzitutto un libro, un racconto orale con le testimonianze dei protagonisti, raccolte dai giornalisti musicali Tom Beajour e Richard Bienstock. La filosofia del volume è ripresa paro paro da questo documentario, diviso in tre episodi, e diffuso da Paramount +. 

La narrazione procede in ordine cronologico, partendo dai primi vagiti del genere, attribuiti a Motley Crue e Quiet Riot, quando gli anni ottanta erano alla linea di partenza. Tra gli intervistati (giornalisti, produttori, musicisti) spiccano Corey Taylor degli Slipknot, all'epoca grande fan del genere, e Bret Michaels, singer e frontman dei Poison. A seguire una sfilza di interviste a protagonisti dell'epoca, tra band di spicco e one hit wonder, quali Def Leppard, Warrant, Winger, L.A. Guns, Hanoi Rocks, Great White, Dokken, Skid Row, Guns 'n' Roses etc.
La carrellata è impietosa nel mostrarci i segni del tempo su corpi e visi degli allora figoni in spandex e lacca: corpi flaccidi, pelli cadenti, alopecie maldestramente occultate da cappellini improponibili e bandane grosse come l'Ohio. In qualche caso, come per Jack Russell, leader dei Great White, l'intervista è avvenuta poco prima della morte (agosto '24) e infatti le sue condizioni ci appaiono veramente al limite.

I commenti a corredo delle immagini (che vanno a ripescare anche il fondamentale volume due de The decline of western civilization) spiegano bene cos'è stato quel periodo. Il sunset strip, la via di Los Angeles affollata di locali in cui le band si esibivano, è stata per qualche anno come Hollywood, solo che invece di aspiranti attori, quel boulevard accoglieva tutta una nidiata di giovanotti che arrivavano anche dalla più remota provincia americana agghindati da manuale, con o senza band, convinti che un bel faccino sarebbe bastato per farli sfondare. E per un pò ha funzionato, anche perchè le major mettevano sotto contratto a ciclo continuo, o meglio a catena di montaggio, una volta capito che il modello funzionava.

Ciononostante, la qualità della musica ha raggiunto anche picchi di autentica qualità: i primi due lavori dei Crue, lo sleaze di Hanoi Rocks e LA Guns, prodomico all'avvento dei GNR, il blues zeppeliniano delle due band White (i Great e Lion) e, sì, chiaramente, il pop appena diluito di aggressività di Poison, Warrant e, ad un certo punto, Def Leppard.

Grande ruolo nell'esplosione del genere è da attribuire a MTV che, attraverso video spesso infarciti di misoginia, determinava vita e morte degli artisti: la vita, nel caso ad esempio di GNR e Def Leppard, i cui masterpiece Appetite for destruction e Hysteria partirono male ma, grazie alla rotazione dei video di Welcome to the jungle e Pour some sugar on me vennero catapultati nell'olimpo delle vendite (oddio, nel caso dei Leppard c'è anche una storiella sugli strip clubs della Florida...), e nel male: quando in un episodio dell'irriverente cartone animato Beavis and Butt-head i due character prendono per il culo un ragazzino cicciottello con la maglietta dei Winger, producono, involontariamente, un autentico tracollo per la band, che è addirittura costretta a cancellare il tour negli States.

La fine arrivò per tutti all'alba dei novanta, e fu così repentina che vide contratti strappati dall'oggi al domani, budget azzerati e video musicali interrotti durante le riprese. Black out, interruttore giù e major che si scapicollavano a nord, dal sole della California a Washington e al drizzle di Seattle, a sfoggiare camicioni di flanella a scacchi e a spompinare il nuovo fenomeno musicale per cui i kids impazzivano. 

E, beh, anche questo è molto americano.


Paramount +

lunedì 20 ottobre 2025

Mani nude (2024)



Davide, poco più che ventenne, viene rapito da una festa in cui si trovava e caricato a forza nel vano vuoto di un camion. Qui, nel buio, subisce l'aggressione di uno sconosciuto. Quando il TIR si ferma i responsabili del rapimento si aspettano ne esca l'aggressore, e invece, ferito e semi incosciente, emerge Davide. Quello che doveva essere il suo omicidio diventa il prologo di una seconda vita, violenta e coercitiva, agli ordini di un certo Minuto. 


Dopo il teso, magari non perfettamente riuscito, ma interessante Non odiare, Mauro Mancini tenta la strada del genere puro portandosi dietro Alessandro Gassman (con lui nel film precedente) e il giovane (2002, ma con già una buon numero di ruoli) Francesco Gheghi. 
Il risultato è molto incoraggiante, questa storia di vendetta e redenzione 
 (tratta da un romanzo di Paola Barbato, che ha già avuto una trasposizione sotto forma di graphic novel) ambientata nel mondo dei combattimenti clandestini è praticamente perfetta nel primo atto, arriva ad un bel finale aperto e "molto poco americano", ma trascina eccessivamente il secondo atto (complessivamente il film sarebbe potuto durare dieci quindici minuti in meno, anche se a me non è pesato). 

Per il resto: la messa in scena è adeguata, così come la fotografia fredda e l'ottimo utilizzo del campo largo nelle inquadrature, il comparto trucco è quasi sempre all'altezza . 
Tuttavia il punto di forza sono senza dubbio le prove attoriali: Gassman recita tanto con la fisicità e lo fa davvero bene, in questo modo quando Mancini gli regala un'imprevista scena ad alto tasso di emotività l'effetto è ancora più potente, perchè non la vedi arrivare. Gheghi, se non lo è già, potrebbe diventare il nostro Timothèe Chalamet: sguardo indifeso e fisico gracile non gli impediscono di sprigionare intensità e forza. Quando, all'inizio, esce dal vano del camion/utero ricoperto di sangue, in stato confusionale, proiettato verso l'ignoto, davvero replica una seconda nascita, questa volta in cattività.  
Non posso infine esimermi dal citare l'interpretazione di Renato Carpentieri, anche se il character assegnatogli da Mancini rientra nella sua comfort zone. 

Lo sviluppo della trama non è - mi viene da dire ovviamente - imprevedibile (anche se la sequenza finale se la gioca bene), si adatta alla forma del genere, ma non l'ho vissuto come un problema (al netto di un evidente buco di sceneggiatura: senza spoilerare, come Gassman arrivi ad individuare in Gheghi il colpevole da punire). 
Nel complesso il film non sfigura davanti alle produzioni spagnole, coreane o francesi, molto più consolidate rispetto a noi per questa tipologia di prodotti audiovisivi. 
E non mi sembra fattore da poco.

Paramount+ 

giovedì 16 ottobre 2025

Biff Byford & John Tucker, Never surrender (2007)


Hai ragione, due post consecutivi sui Saxon, cazzo siamo, nel 1981? Per fortuna (o purtroppo, a seconda) no, semplicemente la lettura dell'autobiografia del leader della band ha fatto da scontata cinghia di trasmissione per riprendere il loro ultimo disco
Per entrare in topic: il lavoro letterario Never surrender viene dato alle stampe nel 2006 e rappresenta il primo elaborato di questo tipo per i Saxon, rivestendo pertanto un valore di primogenitura testimonianza diretta sulla storia del combo inglese, superstite dalla nwobhm. Il testo ha uno sviluppo canonico, dall'infanzia di Byford nello Yorkshire ai primi anni duemila. Emerge la personalità del singer e il suo posizionamento nell'ambito della società inglese soprattutto dei settanta, con qualche contraddizione: pur apparendo come un classico conservatore british egli detesta la Thatcher a causa degli interventi contro la classe operaia (minatori, prevalentemente) del suo territorio, ma si riallinea subito manifestando avversione per la sinistra ("comunistacci"). 

Grande spazio, ovviamente, alla carriera musicale, prima coi Son of Bitch e poi con i Saxon. 
Una parte eccessiva della narrazione se la prende il rammarico/lamentazione per non aver sfondato a livello mainstream, soprattutto in America, tema ridondante che individua i colpevoli in manager e produttori inadeguati, timing sbagliati o tensioni interne alla band. Per come la vedo io, da adepto che li preferisce agli Iron Maiden, ci sta tutto, ma molto semplicemente i Maiden erano migliori, le loro canzoni più intense e articolate, il loro brand più accattivante, lo statement più autorevole. Anche a livello di comunicazione, nel mondo dei metalhead avere una "mascotte" riconoscibile (Eddie, per la band di Steve Harris, ma anche Snaggletooth per i Motorhead), è stato uno dei fattori vincenti e ai Saxon mancava. Infine, i singoli. I Maiden (benchmark assillante di Byford) sebbene indiscutibilmente legati al metal, una manciata di singoli che hanno decollato oltre la loro fanbase li hanno centrati (Run to the hills, Flight of Icarus, Can I play with madness), i Saxon no (Ride like the wind ha avuto una buona esposizione ma fuori tempo massimo, oltre ad essere una cover).

Tornando al libro, tralasciando l'iperattivismo sessuale di Biff, consuetudine delle rockstar negli anni pre-AIDS, e le tensioni nel gruppo che hanno portato una parte di membri originali, capitanati da Oliver e Dawson ad intentare una causa - persa - per appropriarsi del brand-Saxon, la parte che più mi ha interessato è stata quella artistica, il dietro le quinte della realizzazione degli album. Poco altro.
Dubito che Never surrender possa diventare un testo di riferimento trasversale, come fu, ad esempio, La sottile linea bianca di Lemmy, Io sono Ozzy, di Ozzy Osbourne o Miles: l'autobiografia di Miles Davis (per citare artisti di un perimetro musicale definito), che riesca cioè a travalicare il genere, mi sembra piuttosto  il classico prodotto for fans only.

lunedì 13 ottobre 2025

Saxon, Hell, fire and damnation (2024)

 


Nel film Al lupo al lupo, un incauto avventore della discoteca si avvicina al DJ (Verdone) e gli chiede quando arrivino i lenti. "Mai" gli risponde lui perentorio, "non arrivano mai!". Questa è la regola non scritta dei Saxon, un gruppo che qua e là qualche ballata l'ha rilasciata, sempre un pò controvoglia, quasi per dovere (commerciale), ma perlopiù ha derogato a questa norma non scritta dei dischi di metal commerciale, in particolare degli ottanta. 
Non sorprende pertanto che in Hell, fire and damnation il combo tiri dritto, se rallenta è solo per un'economia delle dinamiche dentro i singoli pezzi o per un paio di tracce midtempoes.

L'album, confezionato dentro una cover d'impatto, è il ventiquattresimo in quarantacinque anni di produzione discografica della band, per una media quasi scientifica di due album l'anno (media che si incrementa con i tre dischi solisti di Biff). 
Premi play e dunque sai già cosa aspettarti, il pattern dei Saxon è da tempo quello dei true defender, heavy metal con influenze teutoniche (in Pirates of the airways e Witches of Salem fanno ciao con la manina gli Accept) senza mai perdere la bussola della melodia ne tantomeno quella della ferocia dei bpm, anche grazie ad una doppia cassa (Fire and steel) sfasciata dal veterano Nigel Glocker che, a dispetto dell'età (quest'anno sono settantadue), non ne vuole sapere di rallentare. 
A proposito di veterani del gruppo, ha invece mollato il membro originale Paul Quinn, che prima ha rinunciato ai tour e ora anche alle session di registrazione (al netto di un contributo su un paio di brani), sostituito da Brian Tatler (ex chitarrista Diamond Head). 

E poi c'è lui, Biff Byford, il Boss indiscusso (non solo in quanto frontman, ma proprio perchè possessore dei diritti legali del brand), immarcescibile, un old englishman con una passione - che riversa nei testi - per la storia, antica (1066, Kubla Khan and the merchant of Venice) e più moderna (Madame Guillotine, There's something in Roswell), ed una voce stentorea che ancora si arrampica su tonalità divenute irraggiungibili per molti coetanei. 
Vecchi a chi? 

giovedì 9 ottobre 2025

Recensioni capate: Il padrino della mafia (2019)


Il potere di dissuasione di un titolo trasposto a cazzo di cane. Nel 2019 esce, diretto dal regista canadese Daniel Grou e tratto da un omonimo romanzo d'inchiesta scritto dai giornalisti André Cédilot e André Noël, il film Mafia inc (come da manifesto originale che ho postato). Traduzione per il mercato italiano? Non un conseguente e comunque d'impatto Mafia Spa, ma Il padrino della mafia, titolo che rimanda con la memoria alla produzione italiana dai sessanta agli ottanta quando si prendeva un blockbuster, in genere americano, e lo si replicava spesso  sciattamente e con quattro soldi, nel tentativo di attirare il pubblico richiamando la pellicola di successo. 
Dopo diverso tempo (il film è nel pacchetto Sky da parecchio) sono riuscito ad andare oltre questa sgrammaticatura autolesionista, scoprendo in verità una pellicola dignitosa, con una storia inedita da raccontare - la mafia canadese -,  e buone prove attoriali come quella di Marc-Andre Gondrin, ma anche, massì, di Sergio Castellitto (attore che non mi entusiasma), qui in parte e anche efficace nel districarsi, oltre all'italiano, con francese e inglese. 
La pellicola ci regala inoltre un buon livello di violenza e una regia misurata, congrua. Ulteriore elemento di interesse in relazione alla stretta attualità l'incipit del film, ambientato nel '94 dopo l'affermazione elettorale di Berlusconi, con le tre cupole (americana, italiana, canadese) riunite a fregarsi le mani immaginando il guadagno che realizzeranno, grazie agli affidamenti politici, con il Ponte sulle Stretto. Ovviamente, come recita il disclaimer sui titoli di testa, è solo finzione. 
Già.


Sky

lunedì 6 ottobre 2025

Osvaldo Soriano, Triste, solitario y final (1973)



Triste, solitario y final è il notissimo debutto letterario di un allora trentenne Osvaldo Soriano, che esordisce in maniera fulminante con un romanzo totalmente surreale. Soriano è intenzionato a celebrare alcuni suoi eroi del cinema e della letteratura americana, in particolare Stan Laurel, morto in povertà e dimenticato dall'industria cinematografica, e Philip Marlowe, per il quale lo scrittore argentino ha immaginato una parabola conclusiva che riprende il titolo del libro (che a sua volta cita una battuta dello stesso Marlowe), e quindi non certo gloriosa, nei settanta.

Il romanzo si apre con Stan Laurel che si reca da Marlowe per ingaggiarlo e il detective che lo irride, non prendendolo minimamente in considerazione. Anni dopo, a seguito della morte dell'attore, Marlowe si imbatte in un giornalista argentino giunto a Los Angeles per raccogliere informazioni allo scopo di pubblicare un libro proprio su Stan Laurel. Non serve sforzo di immaginazione per identificare nel giornalista lo scrittore stesso, perchè il personaggio si chiama Osvaldo Soriano. L'incosciente determinazione dell'argentino miscelata al rassegnato ma al tempo stesso indomito nichilismo dell'anziano detective daranno vita ad un combinato dirompente, all'insegna dei migliori buddy movies.

Marlowe infatti, lontano dal glamour degli anni d'oro e colmo di rimorsi per il trattamento riservato a Laurel, si lancia in imprese impossibili, quasi sovversive (sovviene la distruzione della proprietà borghese messa scientificamente in atto nei film di Lauren & Hardy), dal disastroso esito già implacabilmente scritto, prende una sacca di botte, ma subito riparte per un'altra follia portandosi dietro l'inconsapevole compagno che prende la sua quota di mazzate.

Soriano descrive l'America senza, fino a quel momento, esserci mai stato e nonostante ciò la riconosciamo, nell'ottusa e razzista condotta del LAPD, in uno star system reazionario e violento, capitanato da un manesco John Wayne che agisce nella certezza dell'impunità data dal suo status di star repubblicana. Non ne esce bene nemmeno Chaplin, Soriano vorrebbe intervistarlo per porgli delle accuse in relazione al suo boicottaggio di Lauren & Hardy, ma, va da sè, non ci riuscirà, nonostante un rapimento che avviene in una modalità che rimanda alle imprese tragicomiche raccontate in tante pellicole dai Coen.

Questa versione, al tempo stesso apocrifa e distopica del personaggio creato da Raymond Chandler, risulta quanto mai credibile e, in un certo modo, per lo scenario degli anni settanta americani,  si allinea alla trasposizione che ne ha fatto Altman (curiosamente uscita lo stesso anno del libro, il 1973) anche se in quel caso Marlowe era ancora piuttosto giovane (un Elliot Gould trentacinquenne), mentre il character di Soriano è vecchio e si sente vecchio, fuori posto, colmo di rimorsi e risentimenti pronti per deflagrare ad ogni occasione.

L'amore che traspare dal socialista Soriano per gli States con tutte le loro contraddizioni (che l'Argentina da lì a poco avrebbe conosciuto sulla propria carne viva) è lo stesso di noi vecchi comunisti, che criticavamo l'imperialismo USA ma amavano Hollywood, Steinbeck, Hemingway e il rock and roll. Se sostituite il rock and roll con il blues, questo è il materiale di formazione che Soriano mette nel suo romanzo d'esordio, nel quale è impossibile non identificarci (aggiungo che, almeno in questa edizione, il libro ha una sorta di postfazione interessante: Chandler ci spiega il suo punto di vista riguardo il suo personaggio più famoso attraverso varie interviste nel corso del tempo).

Non è certo un inedito che uno scrittore parli di posti in cui non è mai stato quasi meglio dei colleghi indigeni, ma ecco, insomma, Triste, solitario y final presentò al mondo un romanziere atipico, dalle passioni trasversali (come quella per il calcio, tifosissimo del Torino, al quale propose l'acquisto di un giovanissimo talento argentino all'epoca poco noto: Diego Armando Maradona), destinato a lasciare il segno e purtroppo scomparso troppo presto.


giovedì 2 ottobre 2025

My favorite things, settembre '25

ASCOLTI

David Byrne, Who is the sky
Ryan Adams, Changes
Helms Deep, Chasing the dragon
Neil Young, Comes a time
Paradise Lost, Ascension
Inspector Cluzo, Less is more
Mariah Carey, Here for it all
John Fogerty, Legacy - The Creedence Clearwater Revival years
K.D. Lang, Shadowland
Kneecap, Fine art
Malevolence, Where only the truth is spoken
Robert Plant with Suzi Dian, Saving grace
Oingo Boingo, Skeletons in the closet
Pappo's Blues, ST
Saxon, Hell, fire and damnation
Suede, Antidepressants
Wucan, Axioms
Tyler Childers, Snipe hunters


VISIONI

I delinquenti (4/5)
A hard day (3,25/5)
La legge della notte (3/5)
Il padrino della mafia (2,75/5)
U.S. Palmese (2,25/5)
Ballerina (2,75/5)
Cold in July (3,5/5)
Mani nude (3,5/5)
Un uomo perbene (2/5)
Non odiare (2,5/5)
Ombre nel passato (4/5)
Querido Fidel (3/5)
Kill (2024) (3,5/5)
Sangue facile (4/5)
Nightmare detective (3,75/5)
I gangsters (4,5/5)














Visioni seriali

Dexter: Resurrection , dieci episodi (2,5/5)
Rabbit hole, otto episodi(2/5)
Rapinatori, sei episodi (2,25/5)


LETTURE

Osvaldo Soriano, Triste solitario y final
Biff Byford & John Tucker, Never surrender