giovedì 8 gennaio 2009

Life's what you make it


Già. La vita è ciò che ne fai. Puoi negare la tua omosessualità, nascondendo a tutti ciò che ti è più caro. Puoi continuare a litigare con una moglie che non ami, e forse non hai mai amato. Ci puoi anche fare dei figli, magari. Puoi rinunciare ai tuoi sogni, a ciò che volevi veramente fare, per diventare ciò che gli altri (la famiglia, la società, le convenzioni) si aspettano da te. Puoi annullare le tue aspirazioni per tirare su tre figli, mentre il tuo noioso marito sfoga le sue frustrazioni a fumare e ad ascoltare vecchi vinili in una stanzetta sul retro di un bar malfamato. Puoi buttare via il tuo talento, perdendoti nel tuo narcisismo.
Qualunque cosa tu faccia, è una tua scelta. Se rinunci a perseguire ferocemente la felicità, è come se un po’ fossi già morto.

Questo è quanto mi hanno lasciato cinque stagioni di Six Feet Under, prodotto americano pensato per la televisione (seppur quella via cavo), venduto in tutto il mondo, contaminato dalle interruzioni pubblicitarie degli assorbenti intimi femminili e dei detersivi, ma sempre profondo quanto solo l’arte popolare sa essere.

Raramente mi sono commosso tanto davanti alla tv, come al termine della puntata in cui Nate Fisher muore, sognando di nuotare in acque d’oceano caldissime, finalmente in pace con se stesso, e i titoli di coda scorrono sulle note conclusive di All apologies dei Nirvana, che riecheggia come un mantra interminabile: all in all is all we all are.

Fine.

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