lunedì 9 novembre 2009

Lucerna, Tennesse / parte due di due

qui la prima parte


Parlando di abbigliamento, impossibile non notare la “divisa” da concerto di Hank, dato che sembra un residuato bellico di una battaglia agli inferi, composta com’è da consunti pantaloni tipo militare e gilet lacero, il tutto tenuto letteralmente insieme da toppe e da grosse spille da balia. Vorrei vederlo, Williams III, a smadonnare mentre si infila e si sfila quei pants, ogni dannata sera, in camerino.





Esaurita questa disquisizione estetica torno a bomba alla musica. Ebbene, per restare in ambito country e usare un'opportuna metafora, la prima parte dello show sfrigola via facile come il burro su una padella rovente. Grande spazio all’inizio dello spettacolo ai brani di Straight to hell, che alla fine sarà il disco più rappresentato del concerto, stracciando per nove canzoni a quattro l’ultimo (che in teoria avrebbe dovuto essere ancora in promozione) Damn right rebel proud.

Non c’è un attimo di respiro, brevi presentazioni introducono i pezzi, che per il resto filano via senza soluzioni di continuità. Thrown out of the bar, I don’t know, Pills i took, Crazy country rebel colpiscono diretto in faccia, solo che invece di farti sanguinare ti caricano di adrenalina. All’inizio non oso nemmeno scattare foto, troppo è il timore di perdere anche un solo momento dello spettacolo. Arriva l’epica My country heroes e finalmente il ritmo si abbassa un po’. Si respira, cercando aria fresca alzandosi sulle punte dei piedi, ma senza mai smettere di cantare.

Va tutto magnificamente anche se l’uomo di Nashville (solo per nascita, non per scelta) non sta bene, una dannata influenza ed un fastidioso mal di gola lo stanno tormentando da giorni, tant’è che, a discapito del tema droga/alcool, elemento principe delle sue canzoni, lo vedo bere solo acqua, tè caldo e spruzzarsi in gola una spray (immagino) lenitivo. Si scuote un po’ solo quando accetta l’insistente offerta di una suadente mora in prima fila di fare un tiro dal suo joint. Come nella famosa foto in bianco e nero che gira in rete, Hank si avvicina e aspira a pieni polmoni. Più per scena che per desiderio, secondo me. Ma tant’è.

Dopo una decina di pezzi arriva il momento, inaspettato ma esaltante, in cui sale sul palco come co-vocal, l’amico nonchè singer degli Hellbilly e degli Assjack, Gary Lindsey.
E’ in iniziative artistiche come questa che sta principalmente il cambiamento che Williams terzo sta portando nel business della country music, una piccola rivoluzione che infiamma e indigna allo stesso tempo critica e pubblico: la contaminazione tra il metal e un genere come il country , sopravvissuto più o meno indenne da decenni in cui invece gli altri canoni si sono intrecciati, innestati, accoppiati tra loro, conferendo longevità e nuova linfa a quel calderone popolare che chiamiamo per semplicità rock and roll.

Gary è dotato di una voce cavernosa che all’occorrenza apre al growling, ed è incredibile quanto il suo utilizzo faccia bene al sound complessivo della band, soprattutto nei pezzi più oscuri.
Three shades of grey, brano dell’ultimo album che consideravo minore, diventa grandioso, con le sottolineature death di Lindsey.
Così come la cover The rebel within, assolutamente fantastica e la spettrale Long hauls & close calls. Ma è con Punch Fight Fuck che si rischia di buttare giù il locale. Il tributo della band alla controversa figura di GG Allin è torrenziale e straripante, non c’è uno spettatore che non alzi i pugni mimando la lotta, quando si arriva dalle parti del ritornello.


Al termine di questo mini-set, non senza dispiacere, salutiamo Lindsey, ma non abbiamo il tempo di struggerci perché lo spettacolo torna subito nel vivo. L’ultima parte riserva ancora molti motivi di soddisfazione, a partire dall’esecuzione di Six pack of beer, per passare ad alcune cover straordinarie, come If you don’t like Hank Williams (del papà H.W. Jr), Good hearted woman (di Willie Nelson), la sempre emozionante I’ll never get out of this world alive (del nonno) e soprattutto la canzone con la quale Johnny Cash abbatteva metaforicamente i muri delle prigioni,giù a Folsom e a San Quintino. Sto parlando naturalmente di Cocaine Blues, suonata e cantata a una velocità pazzesca, tanto che, pur conoscendola a memoria, fatico a stargli dietro. Che canzone, dio mio. E’ un delitto che sia così poco nota e apprezzata fuori dagli stati del sud degli USA. E’ una sorte di manifesto dell’autodistruzione, una discesa agli inferi, un’inarrestabile spirale in basso, che riesce però ad essere al contempo anche ironica . Era una vita che aspettavo di poterla sentire (e cantare) in un concerto. Anche per questo, grazie mr. Williams third (e grazie mr. Cash, ovviamente).

Sono letteralmente senza fiato, per il caldo, il singalong e quel poco di pogo che si è fatto. Però non mollo, tengo la posizione. Non arretro di un centimetro.
Hank annuncia l’ultimo pezzo della parte country del concerto: non può che essere il manifesto del suo pensiero, della sua arte. Il perfetto cumshot della serata : Dick in dixie. Quel poco che resta da dare lo si dà senza risparmiarsi. Non si canta più ormai, le corde vocali sono surriscaldate, si apre la bocca per articolare le parole, ma non si è certi del risultato.
Stasera, per un ora e mezza siamo tutti reietti del pop country nashvilliano,e lo urliamo all’unisono: …cause I’m here to put the dick in dixie/ and the cunt back in country / cause the kind of country i here nowadays / it’s a bunch of fucking shit to me / they say that i’m ill mannered / that i’m gonna self destruct / but if you know what i’m thinking / you know that the pop country really sucks.

Il pezzo (alla fine la setlist sarà composta da non meno di trenta brani) finisce nel delirio collettivo, Hank ringrazia e attacca la seconda parte del concerto senza nemmeno scendere dal palco. Si toglie il cappello da cowboy, si rinfresca la testa, si infila un anonimo berretto da camionista, cambia la Guld con una Gibson e riparte. Torna sul palco anche Gary Lindsey, che si mette in mezzo alla formazione, mentre Hank si sposta a destra, lasciando all’amico il centro della scena.

Il resto degli strumenti resta inalterato. La Damn Band che accompagnava Williams 3 nel set country si è trasformata negli Hellbilly, che fanno heavy metal con le stesse armi (banjo e violino inclusi) con le quali suonavano la musica dei redneck americani.

Lentamente, come un esercito di zombie attirati non dal sangue ma dalle note grevi della band, vedo che si avvicinano al palco alcuni gruppi di metallari che si erano fino a quel momento tenuti in disparte, in fondo alla sala. E ‘ il loro momento. Per me invece è tempo di dare refrigerio alla mia arsura. Mi allontano, scendo al bar giusto il tempo di farmi spiegare da una barista locale con accento tipo Sturmtruppen come si pronuncia correttamente mojito e di vedere Bob Wayne, l’opener act, che vende personalmente i suoi cd ( masterizzati!). La t-shirt che indosso (quella dei Pogues) è fradicia, perciò mi convinco della necessità di acquistarne una. La scelta cade su di un modello celebrativo del tour europeo, che davanti ha solo il simbolo III su campo nero. Perfetto.

Un pessimo mojito e una minerale più tardi, torno al concerto proprio quando il set degli Hellbilly sta terminando. Questa volta dopo i saluti i ragazzi si prendono un paio di minuti di pausa, prima di tornare sul palco come Assjack. E stavolta cambia anche l’assetto della band che asseconda le necessità canoniche del sound da rock band. Cambia fisicamente anche il tizio dietro alle pelli, la formazione è la classica basso/chitarra/batteria (Linsdey non suona alcuno strumento), e si parte subito a picchiare duro.

Il repertorio proposto è quello dell’omonimo disco del debutto. Linsdey si è scaldato e ha preso saldamente in mano il controllo del concerto. Provoca il pubblico, accenna un paio di volte allo stage diving, durante Cocaine the white devil mima in maniera teatrale pippate e stonature conseguenti, si colpisce ripetutamente in testa con quello che capita ( microfono e vassoio di metallo, soprattutto), mi tornano giustappunto alla mente alcune immagini scovate sul web in cui il nostro fa bella mostra con la testa orgogliosamente insanguinata.
Tennesse driver fa la sua porca figura, così come la versione metal di P.F.F. , quasi irriconoscibile all’inizio, ma straripante e coinvolgente poi.

Ecco, stavolta è davvero finita. Dopo quasi tre ore di emozioni travolgenti, di passione, di un live-act interminabile e inarrestabile, Hank appoggia la Gibson. Nemmeno saluta, si infila una pesante felpa nera e pensi, cribbio, deve stare proprio male per mollarci in questo modo. Non è così infatti, perché in realtà, una volta copertosi, si avvicina ai bordi del palco, si siede, e comincia a scambiare due parole, a firmare autografi e a scattare foto con i fans.

Avevo letto che fosse un tipo piuttosto rude ed intrattabile, ed invece lo vedo mentre si fa tirare di qua e di la da un paio di tizie attempate che lo sbaciucchiano, mentre firma qualunque cosa gli passino e si fa fotografare senza soluzione di continuità. Penso: ma guarda un po’, non sempre la verità sta nel web ... Per la cronaca, riesco a farmi firmare la T-shirt che ho da poco comprato, ed Hank è così gentile da ringraziare lui me, fissandomi dritto negli occhi. Ah, questi gentiluomini degli stati del sud!



Mi stacco a fatica dal capannello di gente che lo circonda, non saprei dire quanto per quanto tempo ancora Hank si sia fermato con i suoi sostenitori, già così si è concesso in misura superiore a chiunque altro io abbia mai visto finora. Rifletto su quanto sia stato grandioso l’evento a cui ho assistito, così vicino alla perfezione da poterla quasi toccare ( la distanza che manca sarebbe stata coperta da almeno un paio di pezzi mancanti: The grand ole opry e Candidate for suicide, ma è pura pignoleria). Mi sento inebriato di felicità. Esco.

L’aria fuori dallo Schuur è fresca, è un bel contrasto con la cappa di afa che si era creata sotto il palco, mi giro il biglietto da visita del taxi tra le dita, indeciso sul da farsi. Un chilometro circa mi divide dall’albergo e so con certezza di essere la persona con meno senso dell’orientamento dell’intero sistema solare, ma l’adrenalina è ancora forte ed è una bellissima notte. Fanculo al taxi, basta una volta, nella vita. Mi incammino da solo nella zona industriale e verso il centro città con un’incoscente sorriso da ebete stampato in viso.

Intanto è passata mezzanotte e siamo al cinque settembre. Per un curioso scherzo del fato in questi minuti compio quarantuno anni. In una situazione diversa sarebbe stato malinconico passare una parte del proprio compleanno camminando da solo, di notte, in una città sconosciuta, con i marciapiedi umidi di pioggia che riflettono opacamente i lampioni e un paio di mignotte sorridenti che cercano di adescarti con discrezione, ma nel mio caso non è stato affatto così. Mi sento a posto, quasi privo di peso, leggiadro nella mia contentezza primordiale.
Lucerna after midnight brulica ancora, incredibilmente rispetto ai nostri canoni, di giovani per strada e locali (e negozi) ancora aperti, con la musica dei guns and roses che esce dalle birrerie, riversandosi esausta sui marciapiedi.

Nonostante la tentazione (e la sete), non mi fermo per una birra e tiro invece dritto verso "casa". Incredibilmente riesco a non perdermi e in pochi minuti trovo la strada giusta. L’ho detto no, che era una notte magica?

fine

per i feticisti , qui ci sono anche tutte le altre mie foto del concerto

5 commenti:

jumbolo ha detto...

applausi. quando ti firma la maglietta mi sono commosso.

lafolle ha detto...

bellissimo!!
avrei voluto esserci.

iacopo ha detto...

L'era l'ora disgraziato!!!

Filo ha detto...

Bravo. Bellissimo.

monty ha detto...

grazie!
non pensavo aveste avuto il coraggio
di arrivare in fondo a questo
mio interminabile delirio...

:-D