lunedì 19 febbraio 2018

Tyler Childers, Purgatory


La catena di montaggio di Nashville, che sforna a ritmo continuo nuovi idoli preconfezionati pronti per la grande distribuzione, sarà anche un'inarrestabile macchina da guerra, ma per fortuna anche il ventre della Grande Madre true country è altrettanto gravido e prolifico, se è vero che mette al mondo non meno di un autentico fuoriclasse all'anno. 
Certo, non tutti emergono agli onori della critica: per ogni Austin Lucas, Rachel Brooke, Moot Davis, Cody Jinx, Whitey Morgan, Bob Wayne, Jamey Johnson, Wade Bowen, Matt Woods, Hayes Carll, Lindi Ortega abbarbicato ad uno zoccolo duro di seguaci, ma lontano dai grandi successi commerciali, c'è fortunatamente uno Sturgill Simpson o un Chris Stapleton, che riesce invece a coniugare qualità e riscontro di vendite.
Ora c'è la concreta probabilità che a questi nomi si debba aggiungere anche quello di Tyler Childers, ragazzotto del Kentucky, classe 1991, che già a vent'anni si autoproduceva un debutto discografico (Bottle and bibles), per poi masticare pane duro fino ai giorni nostri, prima di venire ripescato dall'oblio proprio da Sturgill Simpson che gli produce questo Purgatory (titolo che, azzardo, potrebbe essere legato proprio alla lunga iato artistica) partecipando anche ai lavori di registrazione in veste di chitarrista.

E indubbiamente la presenza dell'autore di A sailor's guide to earth si sente tutta nelle dieci tracce che compongono il lavoro, senza però arrivare mai a castrare l'attitudine draconiana alla musica country di Childers, assieme alla sua capacità compositiva e ad una voce perfetta alla bisogna. 
Se il canone scelto dall'artista è indubbiamente quello malinconico, Tyler non fa comunque mancare pezzi dal mood classico, e in questo senso, se qualcuno mi chiedesse come si scrive e si suona una classica canzone country, gli farei senza dubbio ascoltare una I swear (to God) semplicemente perfetta. 
Sembra avere tante storie da raccontare e molto veleno da sputare, il buon Childers, se le relazioni hanno un ruolo che definirei inevitabilmente centrale nell'opera (La già citata I swear; Tattoos; Lady Mae), il countryman non si fa mancare una puntata nei temi outlaw (Whitehouse road, che rimanda a Steve Earle) e sempre apprezzatissime incursioni nel blugrass (Purgatory), a comporre quell'amalgama stilistica che trasforma una manciata di buone canzoni in un grande album.

Un ritorno importante, un secondo esordio che alimenta con passione e talento il sacro fuoco dell'amore per il country.

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