lunedì 2 ottobre 2017

Milano Calibro 9 (1972)


Recensire Milano Calibro 9, e farlo per giunta con una cassetta degli attrezzi di critica cinematografica limitata come quella del sottoscritto, è delittuoso, metto subito le mani avanti. Il film, assieme a La mala ordina e Il Boss fa parte della celeberrima "trilogia del milieu", trittico di pellicole poliziesche (non ho mai amato il termine poliziottesco, forgiato con disprezzo per indicare il genere in Italia) del regista/sceneggiatore Fernando Di Leo, che in questo caso si avvale come soggetto di un racconto di uno dei primi maestri noir italiani: Giorgio Scerbanenco.

Ugo Piazza (Gastone Moschin) esce di galera dove ha scontato tre anni per rapina a mano armata, poco fuori San Vittore viene subito raggiunto da un gruppo di mafiosi capeggiato da Rocco Musco (Mario Adorf) che lo preleva e lo sottopone ad un pestaggio in quanto certo che Piazza abbia sottratto all'Organizzazione una grossa somma di denaro, sparita dopo un complicato scambio di valigette che ci viene mostrato nel bellissimo prologo del film e che ha portato all'esecuzione di tutti i personaggi coinvolti nel giro, ad eccetto proprio del Piazza, non ucciso in quanto arrestato dalla polizia, con un tempismo che insospettisce l'Organizzazione, per un altro crimine. Piazza nega, e da quel momento viene letteralmente perseguitato dal Musco e la sua gang, agli ordini del capo mafioso soprannominato L'Americano. Sulle tracce di Piazza anche la polizia, che vuole proteggerlo in cambio di una confessione completa che inchiodi la Cupola. Ugo, criminale vecchio stampo, che non "canta" e che ha forti valori morali, ha dalla sua solo un'entreneuse con la quale aveva una relazione prima dell'incarcerazione (una Barbara Bouchet giovanissima, bella da mozzare il fiato) e Chino (Philippe Leroy),un killer professionista anch'egli molto ligio al codice d'onore della mala storica.

Sono dovuti passare decenni dalla sua diffusione nelle sale ed è servito l'amore sconfinato di Tarantino per il cinema italiano di genere e i suoi registi (Bava, Fulci, Di Leo, Castellari, Martino, Deodato, Lenzi etc.) perché la critica nostrana si convertisse alla grandiosa messa in scena di Milano Calibro 9.
In questo film infatti, nonostante gli scarsi mezzi economici, tutto è oliato alla perfezione, a partire dalle prove attoriali fornite soprattutto dal Piazza di Moschin, caratterizzato in maniera modernissima, a cranio rasato e giacca da marinaio, e  di Adorf, la cui interpretazione potrebbe apparire oggi eccessivamente caricaturale, ma che risponde al profilo del personaggio del periodo. Qui apro un piccolo inciso: la partecipazione di Gastone Moschin (recentemente scomparso) è stata una scommessa di Di Leo imposta alla produzione, visto che l'attore umbro fino a quel momento veniva utilizzato esclusivamente per le commedie leggere. Più tardi Di Leo, rivendicando la sua scelta, ammetterà che il film avrebbe avuto ancora più successo con Giuliano Gemma o "quel morto di sonno" di Fabio Testi nel ruolo di Piazza, ma che lui, anche trent'anni dopo, era rimasto convinto di quella scelta. Visti i risultati, e le prospettive di carriera che si sono aperte per Moschin (basterebbe citare Don Fanucci de Il Padrino parte seconda), non si può che dargli ragione.

Tornando al lato tecnico della pellicola, la fotografia è eccezionale: la Milano dei primi settanta è resa alla perfezione e induce alla nostalgia più piacevole: le immagini della "vecchia" darsena, la stazione centrale prima che diventasse un centro commerciale, il cielo plumbeo, il parco Lambro o piazza Duomo ci restituiscono una città d'altri tempi, meno patinata ma più reale.
Anche per gli altri aspetti siamo a scuola di cinema, il montaggio è serrato e la regia superlativa, sarebbero innumerevoli gli highlights da celebrare: il prologo, la sequenza del ballo nel night club della Bouchet, con quelle riprese sghembe che hanno fatto scuola, la sequenza finale del pugno in soggettiva, di un dinamismo così realistico che allo spettatore sembra di incassare il cazzotto, l'intuizione della sigaretta che si consuma sul tavolo.

Ma la supremazia di Milano Calibro 9 su tutti gli altri polizieschi italiani è giustificata anche dalla vocazione politica del film, delegata ai vari momenti di scontro tra il commissario di polizia reazionario (interpretato in maniera efficace da Frank Wolff) e Mercuri, il vice, neo arrivato a Milano, di simpatie comuniste (Luigi Pistilli). Questo taglio sociale, apparentemente slegato dall'intreccio narrativo, in realtà, attraverso la restituzione di una fedele fotografia del tessuto sociale del periodo che non risparmia una precoce analisi sulla corruzione dell'apparato economico italiano, chiude ogni contesa con i tanti tantissimi competitors del periodo (si calcola che tra il 1972 e il 1977 siano stati non meno di cento i "poliziotteschi" prodotti e distribuiti in Italia).
I dialoghi tra i due tra l'altro contengono inquietanti analogie con l'attualità, come nella disanima di Pistilli sui problemi dell'immigrazione di massa dal sud Italia ("la massa dei meridionali che viene a lavorare qui nel nord fa i mestieri più umili, quelli che da decenni gli altri si rifiutano di fare: malpagati, male alloggiati, niente affatto assistiti. Per forza diventano delinquenti").  D'altro canto, a differenza di molti registi di genere con simpatie a destra, con Di Leo siamo dalla sponda politicamente opposta.

Due parole infine sulla colonna sonora, realizzata da un orchestra,insieme al gruppo progressive rock italiano degli Osanna (in parte su composizioni di Luis Bacalov). Le musiche dei primi dieci minuti di pellicola marchiano a fuoco i cambi di atmosfera pre e post titoli di testa, regalando un'ulteriore, straordinaria cartuccia all'opera, grazie ai cambi di pattern e di tensione di un Preludio (traccia uno del soundtrack) e un Tema (traccia due) memorabili (e se lo dice uno che non si è mai appassionato al progressive rock, potete fidarvi). 

Un film letteralmente spettacolare, come detto il più importante dei polizieschi nostrani, nonostante manchi completamente di uno degli elementi che hanno fatto la fortuna di questo genere: gli inseguimenti in macchina. Contraddizione solo apparente, perchè soggetto e sceneggiatura solidissimi non hanno bisogno di ulteriori elementi di distrazione per l'occhio dello spettatore.
Insomma, una pietra miliare di un regista magnifico.


P.S. Nota personale che vale da consiglio disinteressato: Milano Calibro 9 e l'intera trilogia del milieu, si trova sui noti siti di e-commerce in edizione spagnola (contenente ovviamente la lingua originale italiana) ad un prezzo assolutamente ridicolo. 



3 commenti:

Anonimo ha detto...

Bravo, recensione corposa e precisa

monty ha detto...

Grazie...
Ma il film l'avevi visto?

Anonimo ha detto...

Forse quando ero molto piccola. In realtà non amo
i polizieschi e meno ancora quelli girati in quel periodo,
ma questo non toglie nulla al tuo scritto.