lunedì 3 febbraio 2014

Bruce Springsteen, High hopes


Denominatore comune a tutte le recensioni di questo disco scritte da appassionati storici di Springsteen, è l'incredulità. Ancora un album raccogliticcio, un opera che mette insieme, faticosamente, una manciata di titoli per arrivare al minimo sindacale di canzoni necessarie a rilasciare un ciddì. Ma stiamo parlando dello stesso artista che per un lungo periodo era noto per la sua maniacale pignoleria che lo portava a scartare pezzi meravigliosi dalle tracklist finali dei suoi lavori? Pezzi che avrebbero potuto costituire l'ossatura di almeno altri tre - quattro dischi di eccezionale livello?

Sì, è lui, è lo stesso artista. Bisogna farsene una ragione. Il tempo passa, l'ispirazione cala e se dal vivo sembra che Bruce abbia ingannato lancette e calendari, in studio si avverte chiaramente che siamo nel 2014 e non nel 1979. Detto questo e fatta dunque la tara con l'artista che fu, trovo che molte delle critiche mosse a High Hopes siano prevenute e pretestuose. Non ho letto da nessuna parte, ad esempio, elogi sulla voce del boss, che migliora disco dopo disco e che, da sola, nobilita pezzi per altri versi mediocri. 
Macchè! Niente di tutto questo. Un secondo dopo che sono stati rilasciati, con un mese d'anticipo, "per errore" della casa discografica, gli mp3 dell'album, la rete già pullulava di recensioni e stroncature: il disco fa dunque così cagare che basta un frettoloso ascolto di un file compresso per stroncarlo?

Secondo me no.

Partiamo dall'inizio. A sto giro sale sulla giostra E Street anche Tom Morello, che ha sostituito Little Steven per parte del tour 2013 e che, pare, abbia profondamente ispirato e condizionato Springsteen. E' lui che consiglia al Jersey Devil di rimettere nelle setlist High hopes, brano poco noto degli Havalinas, che Bruce aveva già inciso per l'EP allegato a Blood brothers (il documentario che testimoniava la reunion del 1996 con la E Street Band). 
Dal riproporla in concerto a dargli un posto d'onore nel nuovo album il passo non deve essere stato lungo. Questa versione si differenzia da quella precedente proprio per l'apporto di Morello e del suo tipico stile chitarristico con un esito finale a mio avviso molto buono, sia per il sound tosto che per il tema a sfondo sociale, quanto mai attuale in questi periodi di crisi infinite, del testo. Il successivo Harry's place è il primo inedito del disco e anche qui vado controcorrente perchè trovo il pezzo ottimo, un quasi spoken con una base di fiati più attinente al jazz che al soul (è l'ultima traccia registrata da Clarence Clemons) per un risultato molto suggestivo e notturno. Con American skin (41 shots) si torna invece in modalità recupero. Del pezzo esistevano (ufficialmente) solo versioni live, qui lo si propone in studio. E per quanto il brano abbia goduto di enorme visibilità (si parla della famigerata vicenda dell'omicidio di Amadou Diallo da parte della NYPD) e mi abbia in qualche misura saturato, quando il testo arriva a questo punto:"Lena prepara il suo figlio per la scuola / Gli dice: "su queste strade Charles, devi imparare le regole. / Se un poliziotto ti ferma promettimi che sarai gentile / Che non scapperai via / Prometti alla mamma che terrai sempre le mani in vista" "onestamente, in considerazione del mio essere genitore, non riesco mai  a fare a meno di commuovermi.
Con Just like fire would (altra cover, del gruppo australiano The saints) cominciano le note dolenti. Il pezzo è davvero troppo prevedibile nel suo sviluppo e nel suo essere autoreferenziale. Lo stesso dicasi per Heaven's wall, altro titolo francamente imbarazzante.

Down in the hole fa invece incazzare a morte per motivazioni diverse: il pezzo avrebbe potuto essere uno dei migliori dell'opera, non fosse per il riciclaggio della base ritmica di I'm on fire, riproposta paro paro all'originale. Per la serie: scelte inspiegabili dell'entourage del rocker del New Jersey.
Da Frankie fell in love (divertente errebì nel classico stile E Street), l'album si compatta, trova una sua omogeneità. Le atmosfere irish di This is your sword, il delicato valzer di Hunter of invisible game (uno degli highlight del lavoro), la ballata folk The wall che, non fosse per il lavoro di tromba e organo in conclusione, ci rimanderebbe all'album The ghost of Tom Joad e Dream baby dream dei Suicide, che non fa rizzare i peli delle braccia come quando chiudeva i concerti del tour di Devils and dust (per inciso il migliore che Bruce abbia mai fatto senza E Street Band) ma che ci sta dentro alla grande. C'entra come i cavoli a merenda invece la riproposizione elettrica di The ghost of Tom Joad, a mio avviso nettamente inferiore non solo all'originale, ma anche alla cover dei RATM di Morello.

In ultima analisi High hopes non è certo un disco irrinunciabile, al contrario si può parlare di opera elegantemente superflua, ma nemmeno siamo di fronte ad una schifezza inascoltabile, perchè alla fine Bruce Springsteen non ha avuto sulla cultura del novecento l'impatto devastante di un Bob Dylan e nemmeno rappresenta pietra di paragone per ogni sfigato che prende in mano una chitarra come Neil Young, ma a differenza di questi due maestri non ha mai nemmeno dato in pasto ai suoi fans roba come Shout of love!, Saved, Trans o Landing on water, mantenendo la sua musica, se non a livelli di eccellenza, sempre sopra la soglia della dignità. Ecco, in attesa della migliore ispirazione, High hopes non modifica questa onesta consuetudine.

6,5/10

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