martedì 31 luglio 2012

Neil Young, Americana


Reprise, 2012

Eravamo tutti lì con le gambe molli all'idea di ascoltare il nuovo lavoro di Neil Young. Eh sì perchè il canadesone ci ha abituati negli anni ad alternare grandi dischi a cadute piuttosto clamorose. E siccome Le noise era stato davvero un album strepitoso ecco che i corvi del malaugurio delle nostre liturgie da fan avevano preso a volare in circolo ancora prima della release ufficiale.
Ad alimentare le nostre preoccupazioni la notizia che Americana sarebbe stato un full lenght composto esclusivamente da cover della tradizione USA, senza canzoni originali. L'equazione delle aspettative era però compensata dalla buona notizia del ritorno, a fianco del nostro, dei Crazy Horse, storici compagni d'avventura, che non dividevano la sala d'incisione con Young da una decina d'anni.

Ora che è passata più di una settimana dalla sua uscita ogni cattivo pensiero è stato spazzato via insieme ai neri uccelli funesti come per effetto di una fragorosa schioppiettata di fucile.
Americana infatti è un disco riuscitissimo. Come Springsteen con le Seeger Sessions riprende traditional radicati nella cultura pioneristica americana, ma a differenza di Bruce che aveva assecondato le sonorità originali, qui avviene l'esatto contrario perchè i pezzi sono modellati sul tipico sound grezzo e da presa diretta dello zio quando è coadiuvato dai Crazy Horse.

L'album è aperto da Oh Susanna e Clementine, che sono proprio quei pezzi che da bambini associavamo ai cowboy e che nelle loro molteplici versioni alternativo/vernacolari hanno rallegrato la nostra infanzia. Neil le riprende ed improvvisamente sembrano già dei classici del suo repertorio, con gli assoli di chitarra di Sampedro, il controcanto di Billy Talbot, e il caratteristico drumming di Molina e naturalmente il suo inconfondibile falsetto. Il trittico di apertura (concluso da Tom Dula) è marchiato Crazy Horse dalla prima all'ultima nota, mentre la successiva Gallows Pole è un bel soul fifty (può ricordare Hit the road Jack di Ray Charles, per capirci) e Get a job è un divertentissimo be bop anch'esso incastonato nei cinquanta.

Più avanti la riproposizione di  This land is your land di Woodie Guthrie, uno dei pezzi più fraintesi della storia (spesso per appropriazione indebita da parte del repubblicano di turno), visto che il suo autore (uno che sulla chitarra, giusto per non sbagliare, aveva scritto this machine kills fascist ) l'aveva composto come inno di libertà dei tanti poveracci che vagavano senza meta per gli states della great depression in cerca di un lavoro e di un' esistenza migliore. Per la verità la versione del disco non aggiunge molto alla bellezza del pezzo (a lungo nelle setlist di Springsteen) ma è suggestiva quanto basta. Stesso discorso si può fare per Wayfarin' stranger, tradizionale dall' enorme carica evocativa che adoro da sempre e che ha avuto innumerevoli interpretazioni (qui una lista non esaustiva). 
Neil Young ne fa una buona versione, ma provate ad ascoltare quella intima offerta da buonanima Eva Cassidy e fate da soli il confronto.
L'inno dei colonizzatori inglesi God save the queen chiude il cerchio di un album americano fino al midollo, interpretato però magistralmente da un nativo canadese. D'altro canto non sono proprio gli USA  la terra delle contraddizioni?

8/10







3 commenti:

jumbolo ha detto...

è una recensione di neil young o di springsteen?
:)

monty ha detto...

Ma se mi sono trattenuto! L'ho citato
solo due volte...
;)

Iacopo ha detto...

Angelino ma che ci perdi ancora tempo a ragionà col rosiNNianese???