mercoledì 17 novembre 2010

Raisin' emotions


Robert Plant
Band of joy
Decca, 2010



Classe. A quintalate. E non mi riferisco solo a quella di Plant, stranota anche se un pò dissipata nel periodo post Zeppelin. Ma all'atmosfera complessiva che emerge da Band of joy. Al contributo di un eroe oscuro della chitarra, vero genio delle produzioni indipendenti della musica country-folk che risponde al nome di Buddy Miller. A Patty Griffin, altra eroina dimenticata del genere roots, entrambi arruolati per questo progetto.

Dopo il grande riscontro di critica avuto con Raisin sand, l'album del 2008 registrato insieme alla Krauss, Robert Plant torna, novello hobo, con un viaggio a piedi lungo i binari della tradizione popolare americana, succhiando fino in fondo le radici del rigoglioso albero musicale statunitense. Lo fa attraverso undici cover e un brano originale.

Si apre con con Angel dance, e nonostante il pezzo sia del repertorio dei Los Lobos risulta evidente il richiamo alla classica progressione irish folk . House of cards è invece un arioso soul, originariamente composto da Richard Thompson, ex componente dei Fairport Convention.

Central two-o-nine, la traccia numero tre, è l'unica di proprietà di Plant (insieme a Miller). Si tratta di un affascinante blues acustico che mi rimanda alle prime cose da solista di Mark Lanegan, mentre con la successiva Silver rider siamo ad uno degli acme del disco, canzone splendida, struggente, capace di grande fascinazione. L'inizio non è lontano dalla tradizione dei migliori slow dei Led Zeppelin, ma poi muta di forma, mantenendo sempre alta l'emotività e regalandoci un palpitante contributo della Griffin al controcanto.

Il rock and roll di You can't buy my love e sopratutto la ballatona crooning Falling in love again non possono non riportarmi agli Honeydrippers, strampalato progetto di cover partorito con Jimmy Page pochi anni dopo lo split degli Zeppelin (ricordate Sea of love?). I peli del collo tornano a rizzarsi su Monkey, altro grandissimo duetto con Patty Griffin, poi c'è spazio ancora per un'efficace cover di prezzemolino Townes Van Zandt, la non notissima Harm's swift way, e per due traditional del diciannovesimo secolo riadattati da Plant e Miller (Cindy i'll marry you someday e Satan, your kingdom must come down, gospel rurale che avrebbe potuto tranquillamente stare nella ost di Brother, where art thou?).

Plant si sta ritagliando quasi fuori tempo massimo una seconda giovinezza attraverso il recupero di una tradizione classica che quando era un martello degli dei aveva solo sfiorato, senza immergersene. L'ispirazione e la voce sono a livelli di maturazione eccezionale, e così la determinazione nelle interpretazioni.

Un lavoro fuori dai circuiti mainstream delle grandi produzioni, circondato da musicisti semplici ma straordinari, un lavoro di classe cristallina, appunto.



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