lunedì 24 novembre 2025

Tiziano Terzani, Lettere contro la guerra (2002)

 


All'indomani dell'attacco terroristico dell'undici settembre, Oriana Fallaci pubblica sul Corriere della Sera il suo (per me) famigerato j'accuse contro un intero popolo, quello di fede islamica. Tutti abbiamo letto quelle righe, chi con cieca esaltazione, io personalmente con sconcerto per come una delle migliori giornaliste e scrittrice italiane di sempre potesse, nell'età teoricamente della ragione, rovesciare tanto odio non contro dei criminali colpevoli di omicidio di massa, ma anche contro il resto del miliardo di esseri umani "colpevoli" solo di essere musulmani. La lettera/pamphlet s'intitolava La rabbia e l'orgoglio.

Molti meno, ne sono certo, hanno invece letto la risposta che, sempre il Corsera, pubblicò qualche giorno dopo. Io, per esempio, non lo feci. La scrisse Tiziano Terzani, come la Fallaci anche'egli toscano e giornalista/scrittore, s'intitolava Lettera da Firenze - Il sultano e San Francesco ed è raccolta, insieme ad altre sei, che rappresentano la ripresa della sua collaborazione con il giornale milanese, in tempi e modalità non codificati (cioè, scriveva quando aveva qualcosa da dire), ma tutte da una provenienza asiatica, il continente a cui Tiziano era più fisicamente e spiritualmente legato.

E di spiritualità è intrisa la risposta alla svolta di aggressiva intolleranza della Fallaci, rivolgendosi direttamente a lei, Terzani entra nel merito della dignità delle persone da lei così violentemente disprezzate , spiegandone con coraggio intellettuale (in quella fase erano in molti a condividere l'opinione di Oriana e la necessità di una nuova "crociata") storia, torti, occupazioni (anche di territori sacri) da parte di oriente e occidente, discriminazioni, violenze, sopraffazioni, appropriazione di risorse naturali, con le popolazioni locali perennemente tenute in uno stato di totale indigenza. Il tutto naturalmente senza mai giustificare nemmeno lontanamente la violenza e la brutalità dei terroristi che uccidevano persone innocenti. Semplicemente spiegando e indicando responsabilità, auspicando infine che Oriana potesse: "trovare pace. Perchè se quella non è dentro di noi non sarà mai da nessuna parte."

Come dicevo, la raccolta si compone poi di altre lettere, tutte affascinanti e tutte inviate da stati asiatici (Peshawar e Quetta, Pakistan; Kabul, Afghanistan; Delhi, India; Himalaya). In particolare le missive dall'Afghanistan, che raccontano bene la condizione di un Paese da sempre sottomesso ad occupanti stranieri (inglesi, russi, talebani, americani) ma che non si è mai piegato, abituato com'è alla fame, agli stenti, alla resistenza. Terzani ci racconta senza ipocrisie l'ostilità di quella gente, scottata da secoli di occupazione, nei confronti degli stranieri ("cosa sei venuto a fare, qui? Vi uccideremo tutti", gli dice un giovane), ma, al tempo stesso, pazientemente si fa interprete della tradizione orale che, soprattutto gli anziani, sono disposti a tramandargli. Troppo presto abbiamo dimenticato la dottrina Bush/Cheney, le violazioni dei diritti umani perpetrati in quelle terre da "contractors", società private che, in appalto per gli USA avevano le mani totalmente libere per rapire, torturare, uccidere chiunque volessero (consiglio la visione di The torture report, del 2019). Troppo presto abbiamo voluto dimenticare ciò che è stato fatto in Afghanistan, i cui abitanti invece ricorderanno. A lungo.

La raccolta di scritti di Terzani è unita dal filo rosso di un modello di vita alternativo, che sempre più si assottiglia anche nei Paesi più spirituali come l'india, un modello assemblato sul rifiuto del consumismo, del superfluo e invece sul rafforzamento del concetto di collettività, di solidarietà e di mutuo soccorso, senza secondi fini. E' passato quasi un quarto di secolo da quando queste lettere sono state pubblicate ed è incredibile come la loro forza, il loro appello serva come l'ossigeno oggi più che allora.


giovedì 20 novembre 2025

Recensioni capate: I peccatori (2025)


Recupero finalmente, dopo essermelo perso al cinema, questo film di Ryan Coogler (Creed, i due Black Panther) che, pur avendo goduto di un budget sostanzioso, è scresciuto a dismisura grazie al passaparola tra gli spettatori. I peccatori è un bel filmone di genere che celebra l'orgoglio nero, capace però di regalare più spunti, tutti interessanti. In molti l'hanno paragonato a Dal tramonto all'alba di Rodriguez e la similitudine ci sta, sia per come Coogler svolge il primo atto nel quale ignoriamo il tema sovrannaturale, sia per la parte home invasion del secondo. L'aspetto che mi ha conquistato, al netto di un'ottima messa in scena action/horror e il sottotesto sociale rispetto alla condizione dei neri tra le due guerre, nel Mississippi (e non solo lì, ovviamente), è quello musicale, con il protagonista Preacherboy (Miles Caton) che, analogamente a tanti altri chitarristi del Delta all'inizio del novecento, ha un talento per il blues. Un talento che, nel film, attiva addirittura gli interessi demoniaci di una creatura malvagia (Jack O'Connell, semplicemente perfetto), bianca, irlandese, che vorrebbe appropriarsene attraverso la vampirizzazione del bluesman. L'ho trovata una metafora abbastanza esplicita di come gli afroamericani hanno sempre accusato i bianchi di essersi arricchiti con la musica dei neri, lasciando le briciole a questi ultimi. Le due parti quasi da musical del film: il concerto blues nel juke joint le cui note torride aprono una breccia temporale sul futuro e, di contro, la danza irlandese dei vampiri sulle note de The rocky road to Dublin mi hanno esaltato e sono tra i momenti migliori di una pellicola che non si risparmia nemmeno su scene di sesso, praticato e raccontato.
La scena finale tarantiniana celebra il mattatore assoluto Michael B. Jordan, chiamato da Coogler allo sdoppiamento. 

Un vero spasso. Un titolo che sicuramente andrà tra i migliori dell'anno.  


Prime e Sky (a pagamento)

lunedì 17 novembre 2025

Passione cofanetti / 2 - Winds of time: The New Wave Of British Heavy Metal 1979-1985


Nel 2018 la storica etichetta indipendente inglese Cherry Red Records (Mott the Hoople, Runaways, Dead Kennedys) dà alle stampe questa esaustiva raccolta che accende un riflettore potente sulla nascita dell'heavy metal attraverso la discoperta di oltre cinquanta band che hanno animato il suo periodo più glorioso ed eccitante, quello che, dal 1979, ha dato origine alla NWOBHM. L'opera, per scelta artistica o per necessità (leggi diritti discografici) si concentra su combo meno noti, non troverai ad esempio Maiden o Priest, che sfido anche i più esperti del genere a conoscere. A fianco dei "nomi di punta", tra i quali Saxon, Venom, Angel Witch, Tokyo Blade, Diamond Head, troviamo infatti band sommerse dalle sabbie del tempo come Hellanbach, Aragorn, Brooklyn, Persian Risk, Fist, Gaskin, Bitches Sin e una marea di altre. Il packaging è molto buono, il contenitore è di cartone rigido e si apre a scrigno, i tre CD sono contenuti da una busta anch'essa di cartoncino e il libretto, a colori, consta di venti pagine. Non credo ci sia in commercio niente di così appassionato, minuzioso e curato.

lunedì 10 novembre 2025

Springsteen - Liberami dal nulla


"Hey, mister deejay won'tcha hear my last prayer?
hey ho, rock and roll deliver me from nowhere"  
Open all night, Nebraska, 1982

Bruce Springsteen è l'artista più taggato del blog (siamo a quaranta post nel corso degli anni), ed è anche l'artista musicale che, come ho già avuto modo di affermare, fa più parte di me. Ciononostante, o forse proprio per questo, non gli ho mai risparmiato critiche, evidenziato incoerenze, segnalato un'eccessiva deriva "istituzionale", nonchè, di recente, rimproverato una bulimia di pubblicazioni dal valore altalenante ma tendente al basso, in palese contrasto con il rigore assoluto delle sue scelte nel periodo maggiormente florido ed ispirato (indubbiamente l'orizzonte temporale 1972/1984).

Ecco, per uno come me, che coltiva questo tipo di relazione con un artista (non sono l'unico, devi sapere che gli springstiniani - brutta razza - misurano la propria credibilità enunciando il numero di concerti visti del Boss, allo stesso modo con cui i ragazzini si sfidano misurandosi l'uccello), il momento del biopic movie non è un momento banale. Mettiamoci anche che fa strano assistere ad un film biografico con l'artista ancora in vita e che partecipa attivamente alla sua realizzazione. Non vorrei davvero essere nei panni del suo psicanalista. O forse sì.

Per fortuna, un pò ricalcando la stessa scelta compiuta per il recente film su Dylan, la pellicola si concentra su un periodo limitato della vita del rocker. Se per Bob era il primo lustro di carriera discografica, per Springsteen è addirittura poco più di due anni: dall'ultima tappa del trionfale tour di The river (Cincinnati, 13 settembre1981), passando per l'uscita di Nebraska (30 settembre 1982), e all'anno successivo, in cui mette a punto Born in the USA e inizia il suo lungo percorso terapeutico.

Il film di Scott Cooper è una trasposizione del libro di Warren Zanes Liberami dal nulla, recensito giusto qualche mese fa, che affronta una manciata di temi esistenziali ricorrenti per il Boss: la sua vita giù dal palco, le conseguenze del difficile rapporto col padre, il suo rapporto rigoroso con la musica che produce(va) e la depressione.

La difficoltà di mettere in scena una biografia di un artista marchiato a fuoco nella cultura pop è quello di trovare un bilanciamento e creare un prodotto audiovisivo d'impatto che accontenti i milioni che lo idolatrano e chi, il resto del pubblico potenziale, vorrebbe semplicemente assistere ad un film coinvolgente. Lascio ai secondi rispondere se la sfida sia stata vinta. Il mio giudizio alla prima visione è che il film vive di alti e bassi, pur raggiungendo la sufficienza piena (3,25/5).

Tra gli aspetti che non mi hanno del tutto convinto ci sono proprio quelli più tecnici, della messa in scena, in particolar modo il bianco e nero delle scene in flashback mi hanno lasciato una sensazione di prodotto televisivo (ci sarà un modo alternativo di fare uno stacco temporale senza ricorrere al b/n?). Inoltre, capisco che Jeremy Allen White - che pure è impressionate nella sequenza live in cui interpreta Born to run - dovesse "travestirsi" da Bruce, ma indossare per metà film la camicia che il vero Springsteen portava sulla copertina di The River forse è un pò too much.

D'altra parte chi, come me, si è documentato negli anni sulla storiografia springstiniana, avrà apprezzato alcuni riferimenti: la battuta del discografico in relazione alla montagna di outtakes (i pezzi inediti) di qualità che, fino al 1998, Bruce ha caparbiamente negato ai suoi fans (e alla CBS); l'enorme influenza che i Suicide hanno avuto durante la realizzazione di Nebraska (importante perchè il duo newyorchese muoveva in ambiti musicali abissalmente distanti da quelli della E Street Band); le note influenze cinematografiche, quali La rabbia giovane (il cui titolo originale, Badlands, è anche una delle sue canzoni più note)  laddove la vera storia della coppia omicida raccontata da Malick aveva letteralmente ossessionato Springsteen al punto da dedicargli il brano Nebraska e La morte corre sul fiume di Laughton, infine quelle letterarie (su tutte Flannery O'Connor). Ora, capisci bene che se per un lungo periodo vai avanti a dosi di Flannery O'Connor e Suicide è complicato che tu stia proprio bene bene. Provare per credere.

Sul rapporto col padre, più volte trasposto nelle canzoni, Bruce si era appena lasciato alle spalle rabbia e risentimento, precedentemente incanalate in canzoni come Factory, nel 1978 ("Fine della giornata lavorativa / Gli uomini escono dalla fabbrica con la morte negli occhi / e faresti meglio a crederci ragazzo / qualcuno si farà male stasera") e Independendence day del 1980 ("L'oscurità di questa casa s'è presa il meglio di noi / c'è un'oscurità in questa città che ha fatto lo stesso / ma loro non possono toccarmi più / e tu non puoi toccarmi più / non faranno a me quello che gli ho visto fare a te"). 
Ora, con le session di 
Nebraska, attraverso brani quali My father's house, Used cars e My hometown (che sarà pubblicata in seguito, su Born in the USA) era iniziata la fase della compassione e della nostalgia, della comprensione del grande male oscuro che divorava Douglas Frederick Springsteen e che egli riceve in eredità.

"Io so chi sei, grande rockstar!". "Almeno tu lo sai". Lo scambio di battute tra il venditore di auto usate e il Boss è sintomatico di come Springsteen in quella fase si sentisse perso, irrisolto, tra una massa in adorazione crescente e il bisogno di solitudine e di ricerca di sè stesso che non poteva risolversi solo in un disco a bassa fedeltà, disperato e anomalo, ma con l'aiuto di un terapeuta.

Forse è anche qui che il film non colpisce al centro il bersaglio. Per i primi due atti ci sembra di vedere un artista tormentato dalla direzione musicale che vorrebbe intraprendere ma cui non riesce a dare la forma che vorrebbe, solo nel terzo, con l'attacco di panico, viene acceso un riflettore sulla patologia che lo attanaglia. Così facendo si ridimensiona a pochi minuti di narrazione la centralità di un problema che invece, da quanto ci dice lo stesso Boss nella sua autobiografia, non l'ha mai abbandonato nel corso di tutta la sua esistenza. E pur tuttavia, la sequenza della prima seduta psicanalitica ci arriva comunque diretta, potente e ottimamente gestita da Jeremy Allen White. 

Sul momento m'è parsa un pò forzata anche la storia d'amore con Faye (un'intensa Odessa Young), ma, evidentemente, per l'artista era invece essenziale (e qui si scatena il nerd springstiniano) per il particolare della collana con San Cristoforo che Bruce continua ancora oggi ad indossare costantemente, a sancire probabilmente l'importanza di quella storia nella sua vita. Poi, certo, il rapporto con Faye ci serve anche ad entrare nelle difficoltà relazionali di un uomo abituato ogni  notte ad avere decine di migliaia di persone in pugno, ma che scappa davanti a quelli che potrebbero diventare legami importanti, duraturi.

Viceversa ho particolarmente apprezzato l'interpretazione di Jeremy Strong, che, dopo l'eccellente prova fornita per Roy Cohn, l'avvocato luciferino e corrotto, cattivo maestro del giovane Trump, ci regala un'altra recitazione perfettamente in parte, con un meraviglioso basso profilo, che ben ci spiega il rapporto paterno (nonostante per età si dovrebbe parlare di fratellanza) di Jon Landau con Springsteen. Sua una delle battute più esaltanti del film, quella "Qui, in questo ufficio, nel mio ufficio, noi crediamo in Bruce Springsteen" in risposta al manager CBS che ironizzava sulle potenzialità della canzone My father's house, in effetti la più indigesta di Nebraska, con le sue sei strofe tutte uguali per sei minuti di durata. A lui Landau fa digerire il diktat di Springsteen "no singles, no press, no tour", qualcosa di inaccettabile, per il mercato discografico dell'epoca e per un artista che ha costruito la sua leggenda sui concerti.

In realtà, alla fine, un singolo fu pubblicato. Si trattava di Open all night. E' dall'ultima riga di testo di questo pezzo saturo di disperazione e solitudine (richiamata in premessa al post e curiosamente identica ad un'altra canzone del disco, State trooper), che deriva il titolo della pellicola. Dedicargli qualche secondo pedagogico per spiegarlo forse sarebbe stato opportuno, diversamente lo spettatore deve sbizzarrirsi in ipotesi (anche irriverenti) sulla sua ragion d'essere.

Mettiamola così: il disco Nebraska (su cui peraltro tornerò a breve per la pubblicazione di una expanded edition) è uno dei più importanti della storia moderna della musica, il libro Deliver me from nowhere è un testo importante per comprenderlo a fondo, questo film è un buon prodotto che tuttavia dubito resista in salute all'erosione del tempo.



giovedì 6 novembre 2025

Recensioni capate: Capi di Stato in fuga (2025)


Tira più un film action USA che... 
Recentemente la piattaforma Prime Video ha rilasciato due film action con contaminazioni comedy più o meno marcate. Il primo, su cui nutrivo discrete aspettative, in considerazione del ritorno di Shane Black, è Play dirty (che resuscita per l'ennesima volta Parker, il criminale inventato da Westlake/Stark)il secondo, che avevo pregiudizialmente snobbato è invece Capi di Stato in fuga. Imprevedibilmente il ritorno di Black dietro alla mdp è stato una delusione (film impersonale, che avrebbe potuto dirigere un Simon West qualunque) mentre l'inverosimile Heads of State si è rivelato sì la classica "americanata"(2,5/5), ma con un ottimo ritmo e qualche battuta efficace - ad esempio "l'originalità" con cui gli americani chiamano le cose - . 
Forse perchè la regia è stata affidata al russo Il'ja Najsuller (peraltro anche musicista con la band di indie rock Biting Elbows), già dietro la mdp per Hardcore e Io sono nessuno
Cast ricco: Elba (che qui fa il premier UK, mentre in House of dynamite il presidente USA), Cena, Considine, Chopra Jonas, Gugino, "prezzemolino" Jack Quaid, e a mio avviso ben sfruttato, per una storia che prende in giro grossolanamente i luoghi comuni di britannici e americani, con, soprattutto nel caso di John Cena, un presidente USA ipertrofico, nazionalista, ma tutto sommato bonaccione e un pò tonto. Interessante come il film sia stato girato tra il 2023 e il 2024 ma il traditore americano dietro al complotto per rovesciare l'ordine costituito utilizzi esattamente gli autentici slogan del Trump presidente contro Europa e NATO, colpevoli di aver dissanguato l'America. E insomma, inquadrare come subdolo e meschino traditore un personaggio che usa retorica e "argomenti" di Trump non è proprio malaccio per un film che nasce indiscutibilmente per una fruizione mainstream. 
Dopodichè è chiaro a tutti che i buddy movie di Walter Hill erano ben altra cosa, ma di questi tempi abbiamo visto decisamente di peggio.

Prime video

lunedì 3 novembre 2025

My Favorite Things, ottobre '25

ASCOLTI

Coroner, Dissonance theory
The 2 Bears, Be strong
Bruce Springsteen, Nebraska '82
Mammoth, The end
Doja Cat, Vie
Cameron Winter, Heavy metal
Marcus King, Honky Tonk hell
Daniel Donato's Cosmic Country BandHorizons
Ryan Adams, Changes
Wino, Create or die
Testament, Para Bellum
Joe Strummer, 001













VISIONI

in grassetto i film visti in sala

Niente di nuovo sul fronte occidentale (2022) (3,5/5)
Una battaglia dopo l'altra (4/5)
Ho affittato un killer (4/5)
Companion (3,5/5)
Mr Morfina (3,5/5)
Il debito (2,75/5)
The master (4/5)
Vivere e morire a Los Angeles (4,5/5)











Mulholland drive (4,5/5)
In the mood for love (4/5)
Play dirty (2,25/5)
Capi di stato in fuga (2,5/5)
Eddington (4/5)
The brutalist (3,5/5)
Crime and punishment - Delitto e castigo (1983) (3,5/5)
Springsteen - Deliver me from nowhere (3,25/5)
La grande fuga (3,75/5)


Visioni seriali

Nothin' but a good time - La storia non censurata dell'hair metal degli anni 80 (doc) tre episodi (3/5)
Black Rabbit, otto episodi (3,5/5)


LETTURE

Tiziano Terzani, Lettere contro la guerra
Eric Hobsbawn, Il secolo breve