Dopo anni di dibattito sul livello delle serie televisive in rapporto al cinema, sono arrivato alla personalissima conclusione che, nella maggior parte dei casi, un'analogia la si può evidenziare solo nella scelta di serialità delle due forme d'espressione audiovisive. Cioè tra il tanto cinema odierno che nasce già con l'intento di diventare franchise e, appunto, i serial. Per il resto tendo a pensare che il prodotto film, con una traiettoria temporale ben definita di esistenza artistica (mediamente 90-120 minuti), continui ad essere preferibile ad un formato che nel tempo si può plasmare e stravolgere a seconda di algoritmi e sopravvenute preferenze degli spettatori. Ci sono però delle eccezioni che rilevo nelle serie cosiddette autoconclusive o "mini", soprattutto se affidate ad autori indipendenti con una loro forte identità.
E' il caso di Dostoevskij, serial da sei episodi firmato dai fratelli D'Innocenzo, dove, con la "scusa" del poliziesco, i registi rovesciano per quasi cinque ore la loro visione da incubo della realtà addosso all'incauto spettatore.
Dostoevskij è il soprannome che un gruppo di investigatori di cui fanno parte Enzo (Filippo Timi) e Fabio (Gabriel Montesi) hanno assegnato ad un serial killer che ogni volta lascia sul luogo del delitto una lettera fitta di considerazioni filosofiche sulla disperazione della condizione umana. Questa sinossi è contemporaneamente fedele e quanto di più fuorviante ci possa essere per inquadrare il mood dell'opera, che è tutto meno che una scopiazzatura di un pattern di soggetto di genere americano.
Si tratta piuttosto di un viaggio nella psiche tormentata e sanguinante di Enzo Vitello, interpretato da un Filippo Timi mostruosamente bravo, che conduce un'esistenza alla deriva, divorato dai sensi di colpa per aver abbandonato la figlia ancora piccola e sentendosi quindi responsabile della sua crescita da tossica e sbandata. Ed è come se le location in cui si svolge la storia, un non luogo depresso, fatiscente, periferico nell'accezione più deprimente del termine, sia essa stessa una protagonista, un luogo oscuro e perverso da cui nulla di buono potrà mai originare. Mentre Vitello ben si adatta a questo scenario deprivato di ogni speranza e ai suoi protagonisti, che in lui e nei suoi fallimenti si rispecchiano, il suo antagonista Fabio (un Montesi che indubbiamente gode di buona stampa), ambizioso, cinico e arrogante, capisce solo quando ormai è tardi di non poter sopravvivere nel contesto.
I D'Innocenzo, qui alla loro quarta prova dopo tre film tra il 2018 e il 2021 nei quali sono stati equamente lodati e criticati per eccesso di sicumera, tirano dritto e se ne fregano, non limitandosi a restare nel loro ma rilanciando, girando con una sporchissima pellicola Super 16 millimetri quanto mai efficace a conferire ulteriore morbosità ad una storia marcia che sembra mostrarci una spirale di purgatorio ad un passo dall'inferno in cui tutto è un macguffin: la stazione di polizia, gli agenti senza divise e auto contrassegnate, l'indagine, un tempo sospeso tra passato (i novanta, forse) e il presente.
Soprattutto i D'Innocenzo ci obbligano ad osservare l'abisso di un sudicio threesome con DP che arriva direttamente da un mondo del porno evidentemente conosciuto dai due e a decidere se parteggiare per la vendetta di adulti con un passato di abbandono che hanno passato l'inferno di un orfanotrofio o per un pedofilo che ha scelto di annullarsi per non cadere nei suoi desideri più aberranti e reconditi, passando anche per una fulciana, sadica sequenza splatter con accanimento sul bulbo oculare (con tutti i suoi significati cinematograficamente noti), fino ad un finale catartico, ma non esattamente come ti aspetteresti.
Una serie così in Italia non si era mai vista.
Sky/Now