lunedì 20 maggio 2019

Cats in Space, Daytrip to Narnia

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Insistere a scrivere su uno strumento ormai vetusto come ormai è, a tutti gli effetti, un blog, a volte porta a postare un pò con inerzia o mestiere, dimenticando l'entusiasmo che ti aveva portato a cliccare "pubblica" sul primo post.
A volte però capita ancora di avvertire davvero l'urgenza comunicativa di parlare di una nuova band, un artista, un film, un libro, che "spinge" per venire fuori ed essere irradiato.
E' il caso dei Cats in Space, combo inglese di sette elementi, con una media di età sui cinquanta abbondanti, con esperienze in ambito rock hard-rock prog, in formazioni dalle quali spiccano Arena (il cantante Paul Manzi); T'Pau, Bad Company, Ian Gillan Band (il chitarrista Dean Howard) oltre a svariate altre di non primissima notorietà.
I CIS esordiscono discograficamente nel 2015 con Tooo many gods, e , nel giro di meno di quattro anni, rilasciano tre full lenght e un disco dal vivo, riscontrando un buon successo in patria.
L'ultima fatica è l'oggetto di questa recensione, Daytrip to Narnia viene pubblicato infatti lo scorso primo marzo.

In un'epoca nella quale il bacino di band che si buttano sul retro rock è sostanzialmente saturo, i Cats in Space scelgono di stare nella tazza di tè a loro più congeniale, un grande patchwork dentro il quale conflusicono pop-prog, AOR e FM rock.
Niente di trascendentale dunque, in termini di innovazione. 
Non fosse per un piccolo particolare: il combo, sia in termini di scrittura che di tecnica, caga sul petto a tutti.
Il disco, un concept suppongo basato sui romanzi di C.S. Lewis (ma questo per me conta davvero zero), muove, sin dall'apertura di Narnia, in piena sintonia con gruppi storici che rispondono alle ben note ragioni sociali di ELO, Supertramp, Yes, ma anche Journey, Foreigner, Boston, Survivor e Queen, ma non si ferma lì, sfidando l'apertura mentale dell'ascoltatore a spingersi oltre.
Grandissimi ganci melodici, ritornelli da sturbo, aperture di voce e tastiere da paradiso dell'AOR, canzoni con la cazzo di C maiuscola.
Il disco è suddiviso in due parti, come fossero i lati A e B del vecchio vinile: la prima, che suddivide le tracce dalla uno alla sette, con Hologram man, She talks too much e Unicorn sugli scudi. La seconda, se possibile ancora meglio, è una suite divisa in sette parti titolata The story of Johnny Rocket.

Ora, normalmente quando sento la parola suite collegata ad una tracklist mi viene subito la psoriasi, ma in questo caso l'elemento a fattore comune è rappresentato solo dalla storia narrata (di Johnny Rocket), per il resto i sette brani sono totalmente indipendenti uno dall'altro, sia come struttura che, elemento più importante, come stile.
Infatti, se la parte II della suite (Johnny Rocket) continua a battere in maniera deliziosa i terreni dell'AOR di classe, con la successiva parte III (Thunder in the night) ci si impomata i capelli e si raggiunge la pista, per un incredibile pezzo discomusic anni settanta. Il brano è senza dubbio uno degli highlights del disco, e infatti viene scelto, per il suo irresistibile ritornello, come singolo, ma che dire della parte IV (One small step), che parte con un delizioso doo wop, dell'orchestrazione della V (Twilight) della ballatona alla Boston della parte VI (Yesterday's news) o, per chiudere, del soave pop alla Michael McDonald della VII (Destination unknown), che chiude suggestivamente il viaggio? 
Per il sottoscritto assolutamente nulla, se non levarsi il cappello e fare un inchino a questi mostri, che da due mesi si sono presi il controllo di tutti i miei devices musicali e non hanno intenzione di mollarlo. 
Va da sè, che è già partita l'operazione di recupero del materiale precedente così come è perfettamente scontato indicare già da oggi Daytrip in Narnia nel gruppo dei migliori del 2019.

Chapeau! 

O se preferite: mecojoni!

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