lunedì 10 giugno 2019

Josh Ritter, Fever breaks

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Quello che per le mie nozioni era un debuttante, ha in realtà oltre vent'anni di marciapiede nel music business, dieci album già pubblicati, una manciata di EP e live.
Viene da chiedersi come mai i miei radar non abbiano mai intercettato Josh Ritter, ma tant'è.
Fever breaks è dunque il decimo album del quarantenne nato a Mosca (Idaho, non Russia), ed è uno sferzante esempio di come si possa stare dentro perimetri stilistici definiti - folk,country,americana - senza privarsi della libertà di rimbalzare da un canone all'altro.
Per farlo ovviamente serve una capacità interpretativa, tecnica, empatica e di scrittura che non si compra all'eurospin, ma che ti viene concessa in dote e che tu devi avere la decenza di non sprecare.

E' anche così che si realizza un lavoro come Fever breaks. E' così che si butta lì un grandioso e strafottente contry rock qual'è Ground don't want me, in bilico tra una melodia irresitibile, un testo che sarebbe piaciuto all'Uomo in Nero e un mood per il quale Springsteen farebbe carte false.
E' così che, dopo aver afferrato per le palle l'ascoltatore, lo si porta dove si vuole, disturbando il prematuro riposo di Tom Petty (Old black magic), dando lezione ai nuovi idoli country capeggiati da Stapleton (I stilll love you), così come navigando in sicurezza verso gli approdi dei Waterboys (The torch committee), riuscendo tuttavia sempre ad essere leggero come nuvole bianche nel cielo estivo (All some kind of dream) e venendo fuori con classe da un semi plagio di Steve Earle (quanto Blazing highway home richiama Goodbye?).

Insomma, in un anno saturo di uscite di artisti della "mia scuderia"(Austin Lucas, Steve Earle, Little Steven, Hayes Carll, Son Volt) , Josh Ritter ha messo la freccia pretendendo priorità di ascolto. 
Con un album così, non ho potuto fare a meno di concedergliela.


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