5. BRUCE SPRINGSTEEN – The promise
Si capisce perchè questo lotto di ventuno canzoni non sia finito all’epoca nell’arrabbiatissimo Darkness on the edge of town. Troppo distanti dal mood che Bruce volle fortemente imprimere a quello che è universalmente riconosciuto come suo capolavoro. Tra pezzi storici che finalmente vedono la pubblicazione in studio (Fire, Because the night, Rendesvouz, The way), versioni alternate da brividi ( Racing in the streets ma non Candy’s boy, che è un’altra canzone rispetto alla definitiva Candy’s room), perle regalate agli amici (Talk to me incisa da Southside Johnny), pezzi che verranno cambiati nel testo o nella melodia o cannibalizzati per canzoni future (Come on,Spanish eyes,Candy's boy), a prevalere nettamente sono i lenti o al massimo i midtempo. Essenziale, nonostante lambisca il classico raschiamento del fondo del barile.


La sorpresa dell’anno. Un concept album che racconta di astronavi e pianeti perigliosi dipanando classicissimi riffoni blacksabbathiani, ma riuscendo anche a sorprendere con poderose accelerazioni trash (Astreas's dream) e addirittura accenni glam (Night city). Fantascientifico.

Un'opera collocata armoniosamente tra lo Springsteen dei settanta, Van Morrison e i Replacements, suonata però da tizi che dicono di avere sull’auto il santino dei Pearl Jam e dei Social Distortion che probabilmente li esortano ad andare piano. Pardon, forte, a suonare forte. Out of time.
1 commento:
I Gaslight Anthem?
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