5. BRUCE SPRINGSTEEN – The promise
Eccola qui la tanto agognata parola fine sul contratto quindiciennale con la Curb Records. C’era forse da aspettarsi un disco tirato via, farcito di riempitivi, volutamente approssimativo e invece Hank conclude il suo impegno con la label lasciando in testamento la sua opera più tradizionale. A parte due-tre episodi si viaggia infatti sull’onda di grande blugrass e di trascinante honky-tonk. Non manca ad ogni modo lo sfanculamento finale all'ormai ex etichetta. Liberatorio.
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Ultimamente il canadese ci mette un pò più di tempo del solito ad azzeccare un disco, quando lo fa però gli orologi tornano magicamente a fermarsi. Quanto sia merito suo e quanto di Lanois che produce non è dato saperlo (anche se, visti gli ultimi lavori di Neil, io propendo per un 60-40 a favore di Daniel) e alla fine importa poco, nel momento in cui si azzeccano in maniera così clamorosa suoni e liriche.
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La sorpresa dell’anno. Un concept album che racconta di astronavi e pianeti perigliosi dipanando classicissimi riffoni blacksabbathiani, ma riuscendo anche a sorprendere con poderose accelerazioni trash (Astreas's dream) e addirittura accenni glam (Night city). Fantascientifico.
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Un'opera collocata armoniosamente tra lo Springsteen dei settanta, Van Morrison e i Replacements, suonata però da tizi che dicono di avere sull’auto il santino dei Pearl Jam e dei Social Distortion che probabilmente li esortano ad andare piano. Pardon, forte, a suonare forte. Out of time.
1 commento:
I Gaslight Anthem?
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