lunedì 30 giugno 2025

Recensioni capate: Metallica, 72 seasons (2023)

Dalla bara di Death magnetic alla culla di 72 seasons i Metallica, novelli Benjamin Button, fanno il percorso anagrafico all'inverso, ma solo per la scelta grafica, non certo stilistica, che, dopo il pasticcio di St. Anger (2003) è invece collocata nella rassicurante confort zone di un thrash metal (con divagazioni classic heavy, doom, etc.) che, grazie a loro, è diventato mainstream. Torno su un concetto che probabilmente ho già espresso ma non mi va di andare a cercare nel blog: ai Metallica, diversamente da quanto accade ad AC/DC, Iron Maiden, Megadeth, Red Hot Chili Peppers ed accadeva ad Motorhead o Black Sabbath, non viene perdonata la reiterazione di un sound sostanzialmente homemade (questo è figlio del black album) e però, quando si avventurano fuori dal loro perimetro (Load), le critiche sono ancora più impietose. 
Se il problema è non essere all'altezza dei primi tre mitologici album alzo le mani. 
72 Seasons è il terzo lavoro in oltre vent'anni, esce nel 2023, a otto lustri da Kill'em all, direi che bisogna fare i conti con la realtà. 
Certo che il drumming del sessantaduenne Ulrich è sempre più ripetitivo, così come il riffing e i solos di Hammett. Ma ciò non toglie che con un disco così ci si può anche divertire in leggerezza, senza troppe menate. Con pezzi come la title track, Shadows follow, Screaming suicide, Lux AEterna, Sleepwalk my life away. E con l'assenza di pezzi lenti, al massimo break o tracce midtempoes (You must burn!). 
Su una cosa concordo con le critiche, a partire dal titolo sgrammaticato passando per gli undici minuti di durata, Inamorata è un obrobrio incomprensibile.

lunedì 23 giugno 2025

Il giorno dell'incontro (2023)

Mark Flannigan vive come uno squatter in un appartamento che cade a pezzi, come unica compagnia un gatto. Non è vecchio ma nemmeno giovanissimo. Lo vediamo alzarsi ed allenarsi a casa e per strada, inifine raggiungere una palestra dove lo attende Stevie, il suo allenatore di pugilato. Mark "The Irish" Flannigan aveva infatti toccato l'apice del successo come pugile professionista per poi cadere in una spirale di eccessi ed autodistruzione, fino alla condizione attuale. Faticosamente, la sua rete di conoscenze riesce ad organizzargli un incontro come match in fondo al cartellone al Madison Square Garden, ma prima che la giornata si concluda con il combattimento, Mike deve regolare i conti sospesi con le persone che contano nella sua vita.


Jack Huston, una lunga carriera da attore iniziata da bambino, esordisce dietro la macchina da presa con un classicissimo film sulla caduta e sulla ricerca di redenzione di un (beautiful) loser, dimostrandoci che la forza dirompente del grande cinema magari può non stare sempre in un soggetto geniale o una sceneggiatura "ad orologeria", ma anche nella potenza gentile di una messa in scena semplice, pulita ma dannatamente efficace ed emozionante e nella performance di attori che probabilmente potevano ambire ad un posto più importante nello stardom americano in relazione alle proprie capacità. O semplicemente sono io che ho sempre avuto un debole per Michael Pitt, qui in grado di regalarci un'interpretazione indimenticabile.

Ma dicevo del canovaccio abusato alla base del film. La storia contiene diversi clichè, a partire dalla boxe (a mani basse lo sport più cinematografico) come metafora della vita, un arte nobile che può lavare via, purificare ogni cosa, chiudere un percorso catartico. Mettiamoci poi che Huston non si tiene nel ricorrere allo stimolo lacrimale plurimo (cito per sintesi Jessica, l'ex moglie di Mike, che esegue al piano una versione straziante di Have you ever seen the rain, l'incontro di Mike all'ospizio con il padre interpretato da Joe Pesci) e un finale che tutto è meno che sorprendente, e ci sarebbero tutti gli ingredienti per derubricare il film ad inutile scopiazzatura.

In realtà tutti questi clichè che riportano ad altre pellicole (dal primo Rocky a The wrestler, da Stasera ho vinto anh'io a The fighter) non inficiano la resa complessiva, anzi. Merito della scelta di un bianco e nero che rapisce, di una New York talmente persa nel tempo (i settanta, probabilmente) da apparire come una sorta di spazio metafisico, un purgatorio dal quale il protagonista può uscire attraverso una redenzione ma solo alla fine di una traiettoria nella quale è costretto a rivivere tutti suoi traumi. Insomma, si vede che Huston ha bazzicato Martin Scorsese. Buono il lavoro complessivo del cast (Ron Perlman, Joe Pesci, Nicolette Robinson, John Magaro, Steve Buscemi) ma senza l'interpretazione tutta per sottrazione, minimale, emozionante di Michael Pitt, probabilmente il risultato non sarebbe stato lo stesso. 
Mi maledico per averlo perso al cinema.

Disponibile su Sky

lunedì 16 giugno 2025

Land of hope and dreams: Bruce Springsteen vs Donald Trump

«L’America che amo, l’America di cui ho scritto e che è stata un faro di speranza e libertà per 250 anni, si trova attualmente nelle mani di un’amministrazione corrotta, incompetente e traditrice. Questa sera chiediamo a tutti coloro che credono nella democrazia e nella parte migliore dell’esperienza americana di opporsi con noi, di far sentire la loro voce contro l’autoritarismo».


Mentre in questi giorni guardo L.A. bruciare a causa, prima delle misure repressive messe in atto dall'amministrazione Trump che è arrivata al punto di arrestare anche lavoratori onesti, inseriti nel contesto sociale americano, portati via in manette fuori dalla scuola dei figli o quando si recano a rinnovare il permesso di soggiorno,  e poi per la repressione brutale delle giuste manifestazioni a loro sostegno, penso alla forma di protesta attuata da Bruce Springsteen. 

Il "Boss" è senza ombra di dubbio la passione musicale della (mia) vita. Ho iniziato ad ascoltarlo nel 1984 a (sigh!) quindici anni ed è stato capace di attraversare come una potente nave rompighiaccio gli anni e il mutare fisiologico dei miei orientamenti musicali (metal, irish, folk, jazz, country, jam, punk, blues, new wave, blues). L'ho visto in concerto due dozzine di volte, l'ultima nel 2016 ed è difficile spiegare razionalmente la connessione sentimentale che immancabilmente (beh, quasi) si attiva nei confronti di quest'uomo. 

Ciononostante non ho lesinato critiche per la direzione artistica e comunicativa da lui assunta negli ultimi quanti, trent'anni? Dal punto di vista creativo è assolutamente comprensibile il calo rispetto al suo prime, benchè il buttare fuori album discutibili e discontinui probabilmente solo per accelerare gli obblighi contrattuali non deponga a favore della sua leggendaria onestà intellettuale. 
Ancora di più mi ha infastidito, da uomo di sinistra quale testardamente sono e, sapendone valutare pro e contro, da sostenitore di Obama, la stretta amicizia di Bruce con l'ex presidente USA. Amicizia che esce dal perimetro dei rapporti personali e viene offerta in pasto a media e pubblico (ricorderai il podcast a due voci e il libro condiviso). Perchè io penso che la sacrosanta legittimità di un artista ad assumere una posizione politica si debba fermare un metro prima di essere percepito come parte dell'establishment, va cioè mantenuta la giusta distanza, ne va dell'integrità e dell'autonomia della persona. 
Diversamente fai la fine dei fanboy di Trump Dennis Quaid, Mel Gibson, Kid Rock o... Hulk Hogan.

Non è solo questo. E' anche che, fino ad oggi, stare dalla parte convenzionalmente ritenuta "liberal", cioè dei diritti e delle tutele per la parte più marginale della popolazione, esprimersi a favore di una sanità inclusiva o di un approccio al tema dei migranti non esclusivamente orientato a diffondere paura per ricavarne consenso, era normale per la stragrande maggioranza di intellettuali, letterati e artisti. Cioè non si pagava un prezzo e tendenzialmente si faceva bella figura. Aborro il termine radical chic, ma insomma, ci siamo capiti.

Con lo speech attraverso il quale Springsteen ha aperto il leg europeo del suo tour, il 14 maggio a Manchester (il virgolettato in apertura di post), cambia tutto, perchè è lo scenario ad essere trasfigurato. Mai prima d'ora il boss, che già aveva preso posizione contro l'appropriazione indebita che Reagan aveva fatto della sua musica e poi contro i Bush e lo stesso Trump nel 2017, l'artista americano era stato così duro ed esplicito nei confronti di un presidente in carica. Quella parte la lasciava ai lavori solisti di Little Steven.
La differenza è che oggi chi si è schierato apertamente contro il presidente-gangster, che si tratti di enormi studi legali, università, governatori, dirigenti FBI, giudici o volti noti, non solo ha ricevuto risposte infantili e sprezzanti da parte di Trump, ma anche minacce, spesso messe in pratica, di utilizzo della macchina statale come arma contro l'espressione di dissenso. Io stesso, fossi americano, non sarei così sereno nel divulgare dissenso, anche su di un blog della minchia che leggi solo tu.

La dura presa di posizione di Springsteen, pertanto, non poteva passare inosservata.
Trump, oltre ad averlo insultato nella consueta modalità da adolescente viziato, ha avanzato il proposito di far partire una "bella indagine" (non si sa bene su cosa) ai suoi danni. Da sottolineare come il boss, già qualche anno fa, dopo la pubblicazione della canzone American skin (41 shots), scritta sull'onda emotiva dell'omicidio dello studente liberiano Amadou Diallo da parte della polizia di New York (perlappunto crivellato, da innocente, da 41 colpi di pistola) qualche guaio con il NYPD l'aveva già passato.

Per questo penso che nel caso specifico, a scenario drammaticamente mutato e con nazioni normalmente ben radicate nei processi democratici, storicamente quindi predisposte ad assorbire il dissenso, che oggi invece si avvicinano in maniera rapida e preoccupante alla condizione di democrature (in Italia il DL Sicurezza), Springsteen abbia dimostrato, proprio perchè nessuno è intoccabile per Trump, un coraggio non banale. Non mi sovvengono altri big del mondo dello spettacolo che si siano esposti in maniera così radicale. Non l'ha fatto certo Hollywood, sotto attacco presidenziale, che teme ritorsioni mortali, ad eccezione di Robert De Niro. Sarà un caso che siano entrambi più o meno ottuagenari?

Addirittura Bruce, dopo le minacce ha rilanciato, ripetendo ad ogni concerto (e lo fa tutt'ora) i concetti espressi a Manchester e pubblicando un instant EP nel quale, a rafforzare ulteriormente il concetto politico dell'operazione, per la prima volta, isola le introduzioni parlate rispetto alla traccia dei brani, a parer mio per poterle divulgare anche separatamente. Non solo. Ha contestualmente pubblicato una breve storia sui social, nella quale trasmette un parallelo tra il regno del risentimento e dell'odio che oggi risiede alla Casa Bianca, rispetto al passato (lo trovi qui).

Ancora: l'attuale scaletta dei concerti del Boss contiene per buona parte i suoi pezzi, più o meno noti, più o meno apprezzati, a forte carattere sociale e di denuncia delle storture del sistema americano, oggi in ulteriore frantumazione (Land of hope and dreams, Death to my hometown, Seeds, Rainmaker, Murder inc., Wrecking ball, Chimes of freedom (di Dylan), Youngstown)
Ma, in quest'ottica, anche pezzi come No surrender o The promise land sanno di resistenza. 
E poi c'è My city of ruins.

Springsteen l'aveva scritta dopo la grave crisi economica che aveva messo in ginocchio le piccole attività commerciali del suo territorio nel New Jersey: decine e decine di negozi, spesso a carattere familiare che avevano resistito a lungo nel tempo, chiusi e abbandonati riducendo interi quartieri in ghost town. Poi c'è stato l'undici settembre e il pezzo è stato usato come grido motivazionale dopo l'attacco terroristico. Oggi il pezzo diventa una preghiera laica ("let's pray", esorta Bruce presentandola) per chiamare la popolazione - c'mon rise up! - ad una rivolta civile, democratica, identitaria. Questo brano dal grande pathos - ho ancora negli occhi il viso fanciullesco, stupito e meravigliato di Springsteen quando a Milano, nel 2003, San Siro quasi viene giù nel singalong -  viene presentato così, infliggendo la seconda stilettata all'odierna amministrazione americana:

«Nel mio Paese, provano un piacere sadico nell’infliggere dolore ai lavoratori americani. Stanno smantellando leggi storiche sui diritti civili che avevano portato a una società più giusta e pluralista. Stanno abbandonando i nostri alleati e si schierano dalla parte dei dittatori e contro chi lotta per la libertà. Stanno togliendo fondi alle università che non obbediscono alla loro ideologia. Prendono la gente dalle strade d’America e senza alcun processo la incarcerano. Tutto questo sta succedendo adesso. La maggioranza dei rappresentanti politici non è riuscita a difendere il popolo americano dagli abusi di un presidente inadeguato e di un’amministrazione canaglia. A loro non interessa e non hanno idea di cosa significhi essere davvero americani».

In questa battaglia intrapresa (l'ultima, a 76 anni?) l'uomo ha tutto da perdere - fans trumpiani, inchieste, i Proud Boys alla porta (proprio ieri è stata trucidata un coppia di politici democratici) - e nulla da guadagnare. Pertanto, pur avendo passato da tempo l'era dei fanboy acritico, ammiro e rispetto l'audacia recuperata di quest'uomo. Ciò non significa che tornerò a vederlo in concerto tra qualche giorno a Milano, perchè, per essere un credibile cantore della working class, a Springsteen manca un ultimo tassello: evitare di far pagare biglietti a tre zeri a chi proprio non può permetterseli. Tanto i suoi eredi sono già a posto per le prossime dieci generazioni.


L'EP Land of hope and dreams si può ascoltare su spotify

mercoledì 11 giugno 2025

Recensioni capate, Rhino (2021)

 


Girato da Oleg Sentsov, regista ucraino che ha passato guai seri con la Russia per vaghe accuse di terrorismo, Rhino è una sorta di romanzo criminale perlappunto ucraino, che, a differenza di quello di casa nostra, è privo di qualunque indulgenza o ricerca di empatia verso l'ascesa criminale di Serhii Filimonov (l'attore che interpreta il protagonista da cui l'alias del titolo) e dei suoi soci. Notevoli alcune scelte di regia, a partire dal suggestivo incipit nel quale ci viene mostrato il tempo che passa esclusivamente con la mdp che scivola da un ambiente all'altro del rudere di abitazione in cui cresce Rhino assieme alla sua famiglia. Lo scenario è quello di un'indefinita zona rurale ai margini della civiltà conosciuta, popolata da individui alla deriva sotto ogni punto di vista: sociale, morale e umano. Tra baracche e povertà diffusa, le skills che vengono premiate sono quelle del più forte, resiliente e privo di scrupoli. Non c'è epicità nelle azioni del gruppo che Rhino mette assieme, non c'è coraggio nella presa in ostaggio di una famiglia con minacce al bimbo neonato, non c'è onore nel fottersi l'un l'altro. Tuttavia, in una storia cruda, spietata e realistica, Sentsov ha l'intuizione di realizzare un epilogo quasi onirico e spirituale spiazzante ed evocativo, che lascia esterefatti.

lunedì 2 giugno 2025

My favorite things, maggio 2025

ASCOLTI

Astor Piazzolla & Gerry Mulligan, Summit
Black Sword Thunder Attack, ST
Bruce Springsteen, Land of hope and dreams (EP)
Counting Crows, Butter miracle - The complete sweets
Massimo Priviero, Rolling live
Dream Syndicate, The complete live at Raji's
Fust, Big ugly
Ghost, Skeleta
LA Guns, Leopard skin
Metallica, 72 Seasons
Tennesse Jet, Ranchero
The Cult, Under the midnight sun
Turnpike Troubadors, The price of admission
Gilla Band, Most normal

VISIONI

Black bag (3,25/5)
Rhino (3,5/5)
Thunderbolts (3/5)
Conclave (3,75/5)
Cleanskin (2,75/5)
City State (2,5/5)
A working man (2/5)
1992 (2,5/5)
Il Gladiatore II (2,5/5)
Athena (3,75/5)
Thelma (2024) (2,25/5)
Turning green (2,5/5)
The killer's game (2,25/5)
Captain America - Brave new world (1/5)

Visioni seriali

I favoriti di Mida, sei episodi (2,5/5)
The residence, otto episodi (3/5)
Dèrapages - Lavoro a mano armata, sei episodi (3,25/5)

LETTURE

Massimo Priviero, Amore e rabbia
Jean Claude Izzo, Casino totale
Michail Bulgakov, Il maestro e margherita