lunedì 23 dicembre 2024

Charley Crockett, $10 cowboy

Cerco ancora di seguire la scena true country, ma devo ammettere che probabilmente sto perdendo qualche colpo. Diversamente non mi spiego come possa essere rimasto fuori dai miei radar Charlie Crockett, texano, che sostiene di essere discendente proprio da quel Crockett lì, e che dal 2015 ha pubblicato la sciocchezzuola di quindici lavori, tra full lenght ed EP. 

Nell'arrendermi al tempo che passa e allo spare time che si riduce ad una fessura, ho ancora però la passione e l'entusiasmo per esaltarmi davanti ad un'opera satura di una sensibilità e di una cultura musicale fuori dal comune, qual è 10 $ Cowboy
Il buon Charley, pur essendo nato nel Lone Star State, ha passato del tempo in New Orleans, e deve essere proprio lì che ha imparato ad allargare i propri orizzonti musicali e a contaminarli, assimilando la lezione dell'epocale Modern sounds in country and western music di Ray Charles ma anche di Sturgill Simpson, con tanta black music.

Solo così, assolto il compito dell'open track country di gran classe, che è anche il titolo del disco, si può passare ad una magnifica America, per me una delle canzoni dell'anno, nella quale il nostro è accompagnato da un sax (Jeff Dazey) che regge la tensione per l'intera durata del pezzo. Non c'è traccia del mio amato honky tonk in questo lavoro, per l'approccio musicale allargato di Crockett sovviene un paragone anche con Lyle Lovett, non tanto per il pattern swingato dell'ex della Roberts, quanto per l'approccio "orchestrale" usato. Qui infatti il texano usa sì la slide ma anche strumenti caldi, quali viola, violoncello e violini, ma non nella modalità danzereccia country western.

Insomma, mentre sorprendi la tua mente vagare leggera e sognante su tracce malinconiche da loser come Hard luck & circumstancies; Good at losing; Gettin' tired again o Ain't done losin' yet, forse puoi convenire con me che sei in presenza di un grande artista che pompa linfa nel nuovo country di qualità, e, nel farlo, probabilmente realizza uno degli album dell'anno. Ce ne accorgeremo?


lunedì 16 dicembre 2024

Lo squartatore di New York (1982)


Lucio Fulci, al suo quarantesimo film (a volte ci si dimentica delle dimensioni della sua produzione sterminata e trasversale ai generi), e dopo aver infilato una serie di titoli che dalle nostre parti saranno purtroppo rivalutati abbondantemente post portem (Beatrice Cenci; Una sull'altra; Una lucertola con la pelle di donna; All'onorevole piacciono le donne; Non si sevizia un paperino; Sette note in nero; Zombie 2; Luca il contrabbandiere; I quattro dell'apocalisse e la trilogia della morte - Paura nella città dei morti viventi; L'aldilà; Quella villa accanto al cimitero - ), decide di lasciare il sovrannaturale e dedicarsi al whodunit, ovviamente caratterizzato da ultra violenza e gore. 

Sotto l'ala protettiva del leale produttore Fabrizio De Angelis, con gli interni rigorosamente girati in Italia e gli esterni strettamente necessari ripresi in location americane (sempre "all'italiana" comunque, cioè spesso senza permessi e autorizzazioni), Fulci mette in scena un altro incubo di violenza, disinteressandosi al meccanismo investigativo (effettivamente fiacco) e invece accelerando in un crescendo di splatter non sempre sostenibile, lasciando traccia nella storia del genere, nonostante le implacabili stroncature critiche dell'epoca, per almeno un paio di sequenze sadicamente memorabili: in particolare quella dell'omicidio con la bottiglia rotta usata come arma e le sevizie finali sulla malcapitata di turno, brutalizzata con una lametta da barba.

Tutte scene realizzate attraverso effetti speciali artigianali brutalmente efficaci, nonostante l'assenza dello storico truccatore Giannetto De Rossi, qui sostituito degnamente da Franco Di Girolamo. L'altro aspetto che caratterizza la pellicola è l'aspetto erotico - morboso - soft porn, con alcune scene piuttosto esplicite, come quella al bar dei portoricani che stimolano sessualmente per poi umiliare la signora ricca, annoiata e malauguratamente perversa. 

Il film non è tra i prioritari che consiglierei per approcciare l'arte di Fulci, e pur tuttavia, se sei in possesso di uno stomaco forte e gradisci questo tipo di intrattenimento splatter, siamo sempre dalle parti di cinema povero ma superiore a tante produzioni attuali, che possono beneficiare di budget rilevanti, ma prive di idee e passione.

Curiosità: il giovane stallone che si esibisce nello spettacolo porno dal vivo in un club per adulti altri non è che Urs Althaus, futuro Aristoteles de L'allenatore nel pallone.
Cortocircuiti di quando il nostro Paese era una fucina ad alto tasso produttivo del cinema di genere.


Prime Video (noleggio)

lunedì 9 dicembre 2024

Dostoevskij



Dopo anni di dibattito sul livello delle serie televisive in rapporto al cinema, sono arrivato alla personalissima conclusione che, nella maggior parte dei casi, un'analogia la si può evidenziare solo nella scelta di serialità delle due forme d'espressione audiovisive. Cioè tra il tanto cinema odierno che nasce già con l'intento di diventare franchise e, appunto, i serial. Per il resto tendo a pensare che il prodotto film, con una traiettoria temporale ben definita di esistenza artistica (mediamente 90-120 minuti), continui ad essere preferibile ad un formato che nel tempo si può plasmare e stravolgere a seconda di algoritmi e sopravvenute preferenze degli spettatori. Ci sono però delle eccezioni che rilevo nelle serie cosiddette autoconclusive o "mini", soprattutto se affidate ad autori indipendenti con una loro forte identità. 
E' il caso di Dostoevskij, serial da sei episodi firmato dai fratelli D'Innocenzo, dove, con la "scusa" del poliziesco, i registi rovesciano per quasi cinque ore la loro visione da incubo della realtà addosso all'incauto spettatore.

Dostoevskij è il soprannome che un gruppo di investigatori di cui fanno parte Enzo (Filippo Timi) e Fabio (Gabriel Montesi) hanno assegnato ad un serial killer che ogni volta lascia sul luogo del delitto una lettera fitta di considerazioni filosofiche sulla disperazione della condizione umana. Questa sinossi è contemporaneamente fedele e quanto di più fuorviante ci possa essere per inquadrare il mood dell'opera, che è tutto meno che una scopiazzatura di un pattern di soggetto di genere americano. 

Si tratta piuttosto di un viaggio nella psiche tormentata e sanguinante di Enzo Vitello, interpretato da un Filippo Timi mostruosamente bravo, che conduce un'esistenza alla deriva, divorato dai sensi di colpa per aver abbandonato la figlia ancora piccola e sentendosi quindi responsabile della sua crescita da tossica e sbandata. Ed è come se le location in cui si svolge la storia, un non luogo depresso, fatiscente, periferico nell'accezione più deprimente del termine, sia essa stessa una protagonista, un luogo oscuro e perverso da cui nulla di buono potrà mai originare. Mentre Vitello ben si adatta a questo scenario deprivato di ogni speranza e ai suoi protagonisti, che in lui e nei suoi fallimenti si rispecchiano, il suo antagonista Fabio (un Montesi che indubbiamente gode di buona stampa), ambizioso, cinico e arrogante, capisce solo quando ormai è tardi di non poter sopravvivere nel contesto.

I D'Innocenzo, qui alla loro quarta prova dopo tre film tra il 2018 e il 2021 nei quali sono stati equamente lodati e criticati per eccesso di sicumera, tirano dritto e se ne fregano, non limitandosi a restare nel loro ma rilanciando, girando con una sporchissima pellicola Super 16 millimetri quanto mai efficace a conferire ulteriore morbosità ad una storia marcia che sembra mostrarci una spirale di purgatorio ad un passo dall'inferno in cui tutto è un macguffin: la stazione di polizia, gli agenti senza divise e auto contrassegnate, l'indagine, un tempo sospeso tra passato (i novanta, forse) e il presente. 

Soprattutto i D'Innocenzo ci obbligano ad osservare l'abisso di un sudicio threesome con DP che arriva direttamente da un mondo del porno evidentemente conosciuto dai due e a decidere se parteggiare per la vendetta di adulti con un passato di abbandono che hanno passato l'inferno di un orfanotrofio o per un pedofilo che ha scelto di annullarsi per non cadere nei suoi desideri più aberranti e reconditi, passando anche per una fulciana, sadica sequenza splatter con accanimento sul bulbo oculare (con tutti i suoi significati cinematograficamente noti), fino ad un finale catartico, ma non esattamente come ti aspetteresti.

Una serie così in Italia non si era mai vista. 


Sky/Now

lunedì 25 novembre 2024

Fontaines D.C., Romance

Va beh, togliamoci il dente. Eccolo qui l'album dei Fontaines D.C. che proietta la band irlandese al successo mainstream. Dietro una delle copertine più brutte che mi sia capitato di vedere, undici brani che puntano apertamente al grande pubblico tentando una difficile connessione con la storia del gruppo, costruita fin qui con tre album all'insegna della crescita costante. Dietro le dichiarazioni che accompagnano ogni nuovo album, (aspetto ormai metabolizzato e gestito da Chatten da consumata rock-star), e che tendono a "giustificare" l'alleggerimento dei pattern con la volontà di allontanarsi dai temi irlanda-centrici, c'è in realtà la legittima ambizione di allargare la propria fan-base. Mettendo in conto di perdere, o ridurre, quella storica, chiaramente più snella. 

Il nuovo viaggio si apre, un pò ingannevolmente, con una traccia abbastanza in linea con la tradizione malinconica che è quota parte del DNA dei Fontaines D.C. e che è anche la title track, una opener perfetta, soprattutto per preparare il terreno al singolone che ha cambiato la storia del gruppo: quel Starbuster caratterizzato dalla geniale intuizione di contrassegnare il termine del refrain con una plateale e grezza inspirata per riprendere fiato. Ma è con la successiva Here's the thing che la band diventa letteralmente irriconoscibile, travolta da una melodia smaccatamente UK pop alla Blur anni novanta, ai tempi del dualismo con gli Oasis. 
Probabilmente consapevoli dell'effetto straniante creato con una traccia così anomala, nel proseguo della tracklist i Fontaines D.C. piazzano i pezzi probabilmente migliori dell'intero lavoro, su tutti In the modern world Bug, prima dell'altrettanto valida, al tramonto dell'album, Death ink.

E' certamente importante per una band darsi degli obiettivi e ancora di più lo è riuscire a raggiungerli, non è un'operazione banale decidere di fare un passo in direzione mainstream ed avere scaltrezza e capacità artistica di riuscirvi, restando tutto sommato fedeli alla propria storia (mi viene il paragone con Springsteen, che con Born in the USA ha sempre continuato a proporre il suo blu collar rock, semplicemente poppizzandolo). Per quello che mi riguarda, senza tragedie (visto che, ahimè, non ho più sedici anni), nei Fontaines D.C. dei primi tre, splendidi, dischi (due recensioni le trovi qui e qui) e arrivo a dire forse finanche il lavoro solista di Chatten (qui) mi ci trovavo di più. 

Cioè questo passaggio da una musica da fili elettrici scoperti, dagli spasmi di una Hurrican laughter o di una Televised mind, dalla malinconia atonale di I don't belong o di una How cold is love, alla coolness di Starbuster o Here's the thing fatico a sedimentarlo. Insomma, le mie solite menate. Romance resta comunque un buon disco, senza dubbio sopra la media della roba che di questi tempi fa classifica o visualizzazioni a rotta di collo. Nella mia bolla snob, sono felice di averli visti dal vivo prima del grande botto.

giovedì 21 novembre 2024

Recensioni capate: The Penguin



Cosa si dice dei film noir/crime/polizieschi/action? Che se azzecchi il villain sei a metà dell'opera. La lezione è stata ampiamente metabolizzata dagli studios che ai villain dei comics sono arrivati a dedicare addirittura dei solo cinematografici, dalle fortune alterne. Nella serie tv The Penguin i villain sono due, e sono entrambi strepitosi. Il Pinguino, appunto, sideralmente lontano dalla caratterizzazione dei Batman televisivi dei sessanta o da quella di Tim Burton (che da quella visione pop pescava, aggiungendoci l'immancabile tocco gotico), interpretato (come nell'ultimo film) da un eccellente Colin Farrell, sottoposto a ore di trucco prostetico, e dalla (per me) rivelazione Cristin Milioti, nei panni della figlia del defunto boss Falcone, Sofia. Per certi versi è lei la vera protagonista, dolente, furiosa, umiliata da chi più di tutti avrebbe dovuto proteggerla. Anche Oswald Cobb/The Penguin è un personaggio che si farà ricordare, traditore patologico, narcisista, affabulatore, cinico e omicida fino all'ultimo. Una serie crime a tutto tondo che nulla a che vedere con i comic movie (il collegamento con The Batman si riduce all'incipit dell'inondazione provocata dall'Enigmista) e che si concentra su dinamiche malavitose universali crude e dark. Da vedere.

Sky/Now

lunedì 18 novembre 2024

Recensioni capate - La leggendaria storia degli 883

Sarà la nostalgia, come cantava quel tale, sarà che nel novantadue novantatre ascoltavo sì i Nirvana e i Sepultura ma il terreno comune per quelle estati di una compagnia quanto mai oscillante come gusti musicali furono proprio i primi due dischi degli 883, gli unici con il duo Pezzali Repetto dietro il monicker. Ma sarà anche che Syndney Sibilia, dopo il folgorante Smetto quando voglio (e i suoi sequel), si è ritagliato questo spazio di racconto nostalgic-pop su piccoli grandi avvenimenti nazional popolari (L'incredibile storia dell'Isola delle Rose; Mixed by Erry) e insomma ci ha preso bene la mano. Ne deriva che la serie Hanno ucciso l'Uomo Ragno - La leggendaria storia degli 883, al netto della celebrazione per gli attuali cinquantenni dell'ultimo "decennio analogico" rappresentato dai novanta, risulta fresca, divertente e pop nell'eccezione migliore. Sarebbe un prodotto riuscito anche se fosse totalmente frutto di fantasia, e in effetti le licenze che gli sceneggiatori si sono presi pare siano più d'una. Per parafrasare un altro disco dei primi novanta, Watch without prejudice.

Sky/Now

lunedì 11 novembre 2024

Manuel Agnelli, Ama il prossimo tuo come te stesso (2022)

A sei anni dall'ultimo album degli Afterhours (Folfiri o Folfox) Manuel Agnelli, assunto nel frattempo, grazie a X Factor, a star nazional popolare, mette per la prima volta la band in pausa e a cinquantasei anni, dopo oltre trentacinque di carriera, pubblica il suo primo lavoro solista. Una scelta attesa ma non banale, posto che gli Afterhours stanno ad un padre padrone (Agnelli, appunto) quanto, per dire, i Nine Inche Nails a Raznor o gli ultimi Cure a Robert Smith. Non siamo pertanto di fronte ad un'esigenza di affrancamento artistico (e il contenuto dell'album, come vedremo lo conferma) ne tantomeno ad una scelta dettata dall'urgenza di veicolare liriche intimamente personali, da questo punto di vista è molto più personale e introspettivo Folfiri o Folfox, che metabolizza il dolore per la malattia e la morte del padre di Manuel.

Ama il prossimo tuo come te stesso (parliamone, di questo titolo...) viene concepito e costruito durante i mesi del lockdown causato dalla pandemia e certamente qualche tossina di questo periodo si avverte, ma Agnelli dimostra che la notorietà di massa non ha intaccato la sua verve artistica totalmente indipendente, piazzando più di una canzone i cui testi sono contraddistinti dall'irriverenza punk e dalla ferocia lirica che i fan degli Afterhours ben conoscono e amano. Parto da qui, dalla sorpresa di due pezzoni come Signorina mani avanti e Proci, che fungono da repellente (soprattutto il secondo) per ascoltatori occasionali che cercano dal "giudice del talent di successo" melodie facili e parole accattivanti e viceversa da raccordo con quanti (here I am), con gli Afterhours hanno vissuto anni totalizzanti.

Poi certo, essendo nato "in cattività", si capisce come la gestazione dell'album sia stata solitaria, al pianoforte, e alcune tracce tali siano rimaste: sarebbe stato sanguinoso stratificarle con inutili orpelli. Pezzi come l'opener Tra mille anni mille anni fa, la title track e, soprattutto, Milano con la peste, una canzone semplicemente meravigliosa, raccordano sontuosamente l'indie delle origini con i chansonnier più classici. 
Essendo poi il disco uscito a invasione in Ucraina iniziata, Manuel non si nega un'incursione sul tema, con due tracce, Severodonetsk (che rimastica l'epocale intro di chitarra di Male di miele) e Guerra e pop-corn (100% Afterhours). 

A voler trovare un difetto ad un'opera insperatamente convincente e decisamente necessaria, c'è da dire che Lo sposo sulla torta (co-singer Emma Agnelli, figlia del nostro) è un divertissement pop che avrebbe potuto funzionare come alleggerimento strategico infilato tra le atmosfere di Milano con la pesteSeverodonetsk ma che manca il bersaglio a causa della sua manifesta inferiorità rispetto a tutto ciò che lo circonda. 
Poco male davvero, a fronte di tanti dischi in cui oltre la metà della tracklist è composta da filler, qui non posso lamentarmi di un brano debole su dieci esaltanti. Avercene.
E insomma sì, arrivo in ritardo su uno degli album dell'anno (2022).

giovedì 7 novembre 2024

Playlist (poco) sciuè sciuè - Autumn edition

01. Terry Allen, Amarillo highway (1979)
02. The Meters, People say (1974)
03. The Vaccines, If you wanna (2010)
04. Grant Lee Buffalo, Mockingbirds (1994)
05. One Dimensional Man, Tell me Marie (2004)
06. Sleater-Kinney, Entertain (2005)
07. Marta Sui Tubi, Cromatica (2011)
08. Charley Crockett, America (2024)
09. The Stone Roses, I am the resurrection (1989)
10. Van Morrison & The Chieftains, I'll tell me ma (1988)
11. Zeal & Ardor, Clawing out (2024)
12. Samara Joy, You stepped out of a dream (2024)
13. Sergio Caputo, Un lentissimo rock (1993)
14. X, Big black X (2024)
15. Losers, Flush (2010)
16. Lone Justice, Sister Anne (2024)
17. Nick Cave and the Bad Seeds, Long dark night (2024)
18-19. Superjoint Ritual, The alcoholic/Fuck your enemy (2002)
20. Manuel Agnelli, Milano con la peste (2022)
21. CW Stoneking, I heard the marching of the drum (2008)
22. The Hold Steady, Sequestred in Memphis (2008)
23. Amyl and the Sniffers, Big dreams (2024)
24. Pixies, Chicken (2024)
25. D-A-D, Keep that mother down (2024)
26. Còsang, Perdere 'a capa (2024)
27. Chrystabell & David Lynch, Sublime eternal love (2024)
28. Fontaines DC, In the modern world (2024)
29. Natalie Merchant, Wonder (1995)
30. The Chieftains feat Ry Cooder, Canciòn mixteca (2010)

lunedì 4 novembre 2024

MFT, Settembre e Ottobre 2024

ASCOLTI

Manuel Agnelli, Ama il prossimo tuo come te stesso
Blood Incantation, Absolute elsewhere
Slits, Cut
CòSang, Dinastia
JD McPherson, Nite owls
D-A-D, Speed of darkness
Eric Clapton, Meanwhile
Wire, Chair missing
Steve Earle, Alone again 
Samara Joy, Portrait
Manu Chao, Viva tu
Gang of Four, Entertainment!
Lone Justice, Viva Lone Justice
Amyl and the Sniffers, Cartoon darkness
Magazine, Real life
The Pixies, The night the zombies came
Fontaines DC, Romance
Charlie Crockett, $10 Cowboy
The Mavericks, Moon & stars
Human League, Dare!
Johnny Cash, Songwriter
Neneh Cherry and the Thing, The Cherry thing
Zeal & Ardor, Grief


Monografie

Scritti Politti
XTC
Miles Davis (the 80's)
Mina
The Rural Alberta Advantage


VISIONI (in grassetto i film visti in sala)

Il coraggio delle due (3,75/5)
King of killers (1,5/5)
Beetlejuice Beetlejuice (3/5)
Il gioco del falco (4/5)
Lacci (3,5/5)
Limonov (3/5) recensione
Prey (2022) (3,5/5)
Dumb money (3/5)
Un mondo a parte (2,25/5)
Kin (2,75/5)
Rebel Ridge (3,75/5) recensione
Gli infallibili (2/5)
La misura del dubbio (3,75/5)
Vite vendute (5/5)
Autosufficienza (2,25/5)
Fineskind (2,5/5)
Io e Angela (2/5)
Nostalgia (3,5/5)
La corta notte delle bambole di vetro (4/5)
Confidenza (4/5) recensione
La terza stella (1/5)
The apprentice - Alle origini di Trump (3,75/5) recensione
Special delivery (3,75/5)
Megalopolis recensione
Eravamo bambini (3/5)
Berlinguer - La grande ambizione (3,25/5)
Il profumo dell'oro (2/5)
The substance (3,75/5)
La terrazza (5/5)



Visioni seriali

A town called malice (2,5/5)
The veil (USA) (2,75/5)
The woman in the wall (3,25/5)
Hanno ucciso l'Uomo Ragno (3/5)

LETTURE

Leo Malet, Trilogia nera
Simon Reynolds, Post Punk 1978-1984


lunedì 28 ottobre 2024

Recensioni capate: Megalopolis



Devo iniziare dai giudizi riservati al film. Io invidio, autenticamente e senza polemica, tutti quelli che un secondo dopo lo scorrimento dei titoli di coda hanno decretato che Megalopolis è un capolavoro (una minoranza, ma ci sono), così come chi l'ha bollato una cagata pazzesca (i più). Sì, perchè io sono arrivato al termine visione privo di punti di riferimento e totalmente frastornato. 
L'opera dell'ottuagenario Coppola mi ha lasciato in preda a mixed emotions che forse solo una visione plurima può tradurre in un'analisi coerente. 
Nel tentare comunque di lasciare traccia critica della visione, mi è tornata in mente la recensione che scrissi per la Grande bellezza di Sorrentino, perchè, in effetti, Megalopolis nell'arco della sua narrazione mi ha, alternativamente, emozionato, annoiato, provocato stati di allucinazione lisergici, commosso, irritato, convinto e lasciato perplesso allo stesso tempo. 
Come puoi vedere, non è questa una recensione "tecnica" (ammesso io sia mai stato in grado di farne), ma totalmente emotiva, che, per tutto quello di personale che Coppola ci ha infilato, è comunque un aspetto da tenere in debita considerazione. 
I social ribollono di opinioni che più balcanizzate non si può, e non escludo che la polarizzazione possa essere uno degli obiettivi di Francis, oltre a quello di destrutturare (ci sia riuscito o meno) la forma del prodotto audiovisivo. 
Riconosco a Coppola un coraggio d'altri tempi per aver osato una pellicola così. Per averci investito capitale personale (visti gli esiti del botteghino, saranno contenti i suoi eredi) e per aver rifiutato qualunque tipo di product placement (o almeno io non ne ho notati). Rinunciare per la propria indipendenza artistico intellettuale ai soldi di Apple, Microsoft, Google, Jack Daniel's o McDonald non deve essere proprio irrilevante, alla fine sarebbe bastato piazzare due smartphone e qualche pc.
Tuttavia se il gioco al giudizio di questo maestoso guazzabuglio cinematografico, nella classica scala con voto massimo cinque, si deve orientare esclusivamente ai suoi estremi, cioè o è da "uno" o da "cinque", ebbene, io "uno" proprio non mi sento di affibbiarglielo.

lunedì 21 ottobre 2024

The apprentice - Alle origini di Trump


In premessa lasciami esporre un concetto che mi guida in relazione ai film che si pongono un obiettivo di denuncia politico-sociale: non sempre l'encomiabile proposito degli autori si traduce in cinema di qualità. Si potrebbero fare davvero tanti esempi di pellicole "impegnate" che si sono rivelate mediocri o proprio brutte. In ogni caso, specialmente in un periodo storico come quello che stiamo attraversando, con la marea nera delle peggiori destre che sta avanzando come il Nulla de La storia infinita, è senza dubbio apprezzabile il coraggio di esporsi.

In questo caso di esporsi con una persona che, se da qui a circa due settimane dovesse tornare ad essere presidente degli Stati Uniti (prospettiva purtroppo probabile, visto un meccanismo elettorale risalente al 1787), ha già ampiamento anticipato che il suo sarà un governo di "retribution", vale a dire ritorsivo e vendicativo nei confronti dei suoi avversari. E di certo Ali Abbasi, regista iraniano naturalizzato danese (si parla tanto di Holy spider, grande film, meno del disturbante, gotico, fiabesco Border) di motivi per scatenare la faida trumpiana, con questo The apprentice, ne offre tanti, all'ossigenato ex palazzinaro newyorkese.

Com'è noto, la storia prende in esame la formazione di Trump, partendo dalla New York sporca e decadente della metà dei settanta, fino alla notorietà e alla costruzione della Trump Tower (chiaro esempio di compensazione fallica, se mi passi la battuta). Molto spazio, nella fase giovanile del futuro presidente, è data alla figura di Roy Cohn, ex procuratore sciovinista e maccartista nei cinquanta e successivamente avvocato di successo che usa spregiudicatamente ricatti e minacce. Lo impersona Jeremy Strong, un attore che, al netto della notorietà derivata da Succession, è probabilmente qui al suo primo ruolo davvero caratterizzato e non butta via l'occasione, con una prova che si fa ricordare. Lo stesso vale per Sebastian Stan che, soprattutto nella seconda parte del film, quella in cui emerge il Trump cinico e spietato che abbiamo imparato a conoscere, ci regala un'interpretazione maiuscola, eludendo con bravura il rischio parodia.

Abbasi sceglie il formato 4:3 e una pellicola sgranata, sporca, per restituirci la sua visione di un Paese che in quel periodo era nel pieno del delirio di onnipotenza capitalistica, in nome del quale tutto si giustificava: la "esportazione" della democrazia in America Latina, gli imbrogli e la compressione dei diritti civili o individuali. 
Dopo tutto, come ci ricorda Ellroy (repubblicano dichiarato): l'America non è mai stata innocente. 
La sceneggiatura (Sherman) ci racconta in parte fatti storici acclarati, come il rifiuto di Trump affittare case agli afroamericani, e in parte decide di forzare su alcune vicende controverse e mai del tutto confermate, dagli aspetti narcisistici, come quello della liposuzione e dell'intervento tricologico, a quelli ben più gravi e penalmente rilevanti, come lo stupro ai danni della prima moglie Ivana (che la stessa prima denuncia e poi, molti anni dopo, ritratta) o il tentativo di far sottoscrivere al padre con problemi neurocognitivi un atto amministrativo per far mettere a Donald le mani sul fondo di famiglia e coprire così i suoi tanti buffi.

Il film vola senza momenti di stanca, infatti, al suo epilogo dopo due ore, quando si arriva al Trump spietato, cinico e senza scrupoli che detta la sua biografia ad un giornalista, vorresti averne ancora. 

The apprentice, arrivato nelle sale dopo battaglie legali che hanno tentato di impedirne la diffusione, pare sia stato fin qui un flop (annunciato), la speranza è che lo streaming gli restituisca la visibilità che penso meriti, e non perchè possa essere uno strumento per la sconfitta elettorale di Trump (al contrario, io penso che in questo senso l'operazione sia controproducente), ma perchè ci troviamo di fronte ad un titolo che salda  impegno e qualità. E come scrivevo in premessa, non capita spesso.

martedì 15 ottobre 2024

Confidenza



Pietro Vella è un professore di liceo benvoluto da tutti per la sua capacità di appassionare e coinvolgere gli alunni. Durante un ultimo anno è colpito in particolare da Teresa, una sua studentessa, forse non la più seducente, ma molto promettente, dotata di un'intelligenza vivace, e dalla forte personalità. Un anno dopo la maturità, Pietro viene a sapere che Teresa, contrariamente a quanto tutti si aspettavano, ha "mollato" e fa la cameriera in un ristorante. Egli la cerca e i due si mettono insieme. Qualche tempo dopo, allo scopo di cementare indissolubilmente la loro unione, Teresa gli propone di confidarsi vicendevolmente il segreto più inconfessabile e recondito che custodiscono. Pietro è perplesso, ma cede. Quella rivelazione cambierà per sempre le loro vite.


Al di là del gusto personale e della soggettività, elementi che di norma contribuiscono a plasmare il giudizio che esprimiamo su quasi ogni opera, ci sono delle forme d'arte (film, in questo caso) che più di altre agiscono sul nostro io più sommerso, stimolandoci e facendoci riflettere, condizionando la nostra opinione al punto da condurla oltre l'esclusivo merito "oggettivo".

Per quanto mi riguarda questo è proprio il caso di Confidenza, l'ultimo film di Luchetti, tratto dall'omonimo romanzo di Starnone. 
La pellicola indaga nel profondo le nostre ipocrisie, le superfici dietro alle quali nascondiamo vanità e bisogno di approvazione, facendo emergere la nostra vera essenza, meschina, egoista, prevaricatrice e intimamente arrogante. 
Se ci prestiamo attenzione, il racconto del personaggio Pietro Vella, magistralmente interpretato  - ma ci potevano essere dubbi? -  da Elio Germano, un prof. idolatrato dai suoi alunni attuali e passati, che s'intuisce essere di sinistra ed impegnato a migliorare l'istituzione della scuola pubblica, anche al netto dell'elemento motore del film (la confidenza di cui al titolo, che in qualche modo può essere considerata un MacGuffin) offre più di un indizio sulla sua reale natura ben celata dietro la (falsa) modestia di cui egli si ammanta che in realtà nasconde una persona piena di sè e conformista. 
Succede ad esempio quando l'ex alunna Teresa (Federica Rossellini) lo rimprovera di averci provato con lei ancora studentessa o quando egli litiga con la moglie (Vittoria Puccini) rinfacciandole la vacuità dei suoi sforzi di tentare la carriera accademica, rispetto all'importanza del suo nuovo lavoro al ministero

E anche la confidenza che Pietro rivela a Teresa (- SPOILER  - chiunque minimante scafato di meccanismi narrativi capisce da subito che allo spettatore non sarà mai svelata) agisce da grimaldello psicologico nel confronto dello spettatore, che si trova a calibrare con la sua bilancia morale cosa ci possa essere di così osceno ed atroce da far fuggire nel volgere di una notte Teresa, lasciando l'uomo che ama(va) e una relazione di due anni o, sebbene in astratto, da far urlare per l'orrore la figlia di Pietro, che idolatra(va) il padre. 
Quasi tutte le ipotesi si orientano verso crimini violenti legati alla sfera sessuale o, peggio, alla pedofilia (qualche tentativo, a mio avviso forzato, di rafforzare questa tesi ha cercato conferme scandagliando il rapporto tra Pietro e la figlia bambina), altre suggestioni avvalorano il sospetto di parricidio, a causa di una particolare interrogazione scolastica, che però avviene prima della rivelazione. Insomma tutti siamo caduti nella trappola narrativa degli autori o,  per meglio dire, ci siamo concentrati sul dito rappresentato dell'aspetto tipicamente thriller del film e non sulla luna delle autenticità delle relazioni che viviamo quotidianamente, vero focus del film.

Confidenza funziona  in virtù di una bella regia, una fotografia convincente, una colonna sonora efficace (per quanto io non sia un fan di Thom Yorke), un cast solido, dei personaggi scritti meravigliosamente e dei dialoghi mai banali (cito solo quello in cui Pietro e Teresa incappano negli amici di lui al ristorante, o quello nella stanza di hotel di Tilde - Isabella Ferrari - quando Pietro cambia idea sulla scopata). 
Difetti ne ha, pochi, e confinati al comparto tecnico, relativi al sonoro (l'audio basso dei dialoghi che a volte ne compromette la comprensione, problema che ho già riscontrato in altre recenti pellicole italiane), e al fastidioso trucco prostetico per l'invecchiamento, in particolare di Germano e Puccini: personalmente avrei usato degli attori diversi, dell'età necessaria ai salti temporali, come per Lacci, la precedente collaborazione Luchetti/Starnone, che riesce nell'impresa di farci credere che Alba Rohrwacher da anziana diventi Laura Morante.

Un ottimo film, dunque, che nel suo essere terapeutico trova la spinta ad elevarsi e diventare, per Bottle of smoke, uno dei migliori dell'anno.


Sky

lunedì 7 ottobre 2024

Dan Reed Network, Slam (1989)


E insomma, avevo questo collega fanatico del cosiddetto funk-glam-metal che stava in fissa con Electric Boys e, soprattutto, Dan Reed Network. Così, mosso dalla mia proverbiale curiosità, di ritorno da un viaggio in America del 1992 (sic) tra i cd con cui ho riempito la valigia c'era anche questo Slam, uscito nel 1989. 
Riascoltato oggi, alla luce di tutto quel ben di dio che hanno portato i novanta in termini di reale contaminazione, il disco suona quasi ingenuo e probabilmente troppo pulitino, sia nei pezzi tirati (segnalo Make it easy, Slam, Tiger in a dress) che nelle immancabili ballads (Stronger than steel, All my lovin'). 
Tuttavia, il nome tutelare di Nile Rodgers come produttore era ancora un certo sigillo di garanzia e l'album, pur guardando da distanze siderali le charts, riuscì a sfornare ben quattro singoli e mettere in qualche modo il nome del musicista a capo del progetto sulla mappa. 
Per la cronaca, il buon Dan è ancora in giro a provarci.

lunedì 30 settembre 2024

Limonov (libro) + Limonov, The ballad (film)


Qualche mese fa ho terminato la lettura l'ascolto (trattandosi di audiolibro) di Limonov, di Emanuel Carrere, biografia romanzata di Eduard Veniaminovic Savienko, detto appunto Limonov, scrittore, miliziano, politico, sarto, maggiordomo, artista underground sovietico, nato in Ucraina nel 1943.
Come spesso mi accade con le opere (siano esse film, libri o dischi) che mi prendono visceralmente, la sola idea di elaborare una recensione mi spaventava.  Ora, avendo nel frattempo visto anche la trasposizione cinematografica, provo a prendere il coraggio a due mani e a sintetizzare in un unico scritto le sensazioni che i due titoli mi hanno trasmesso.

La biografia romanzata di Carrere ci racconta di un personaggio che si stenta a credere essere reale: spigoloso, che trae la sua forza da un risentimento ad ampio spettro (contro elite, establishment, sistema sovietico, ma anche veicolato all'opposto, contro chi a questi poteri si oppone) con una sconfinata autostima, un'indubbia incoscienza e sprezzo delle conseguenze. Un personaggio che, da sovietico in terra sovietica si oppone al regime dell'URSS frequentando poeti e artisti dissidenti (che intimamente disprezza, a partire da Solzenycin) ma che, quando diventa un esule, si trasforma in un intransigente nazionalista a difesa del politburo.

Carrere ci racconta di un personaggio che antepone le esperienze dirette, anche le più sordide, e l'azione - la rivoluzione! - alle chiacchere da salotti liberal. Concetto questo portato fino alle estreme conseguenze, come la militanza nell'esercito serbo durante la guerra dei balcani nei primi novanta, con le famigerate milizie di Karadzic e la fondazione, assieme a quel Aleksandr Dugin che diventerà fidato consigliere di Putin, di un movimento "rossobruno" - tristemente in anticipo sui tempi attuali - : il Partito Nazional Bolscevico (nazbol) in cui riunisce soprattutto giovani emarginati che creano con lui un legame ombelicale, al punto di essere pronti a tutto per il loro leader, fino a morire o farsi la galera siberiana, dentro un furore epico che li ammanta e li acceca, ma, al tempo stesso gli offre una ragione di vita. Anche a causa di questa forza politica eversiva, Limonov sconta diversi anni di galera, accrescendo così (nell'ottica di cui sopra) il proprio mito. Esce in tempo per andare a combattere per Putin e la popolazione russofona in Ucraina, nel Donbass, nel 2014

Il romanzo è anche altro, visto che Carrere è tanto bravo quanto narciso, pertanto, per quanto la lettura avvinca (e respinga, a seconda dei casi), in qualche modo lo scrittore riesce sempre ad essere lui stesso al centro della narrazione, e non solo quando indugia sulla propria, di biografia.
Insomma Limonov è un romanzo a mio avviso imperdibile, nonostante (o forse soprattutto) sia in buona parte non condivisibile per la rilettura cinica e discutibile di parte dei fenomeni storici del novecento, ma che fa pensare, offrendo un punto di vista scomodo e per questo prezioso.


Sul film di Kirill Serebrennikov sarò molto più capato. Posta la difficoltà dieci dell'operazione, penso che il risultato sia sufficientemente apprezzabile, anche nelle sue parti pop. Ben Wishaw è in parte, ma senza gridare al miracolo, come ho letto in giro. A mio avviso vale maggiormente la messa in scena complessiva di Serebrennikov che l'interpretazione dell'attore inglese. La pellicola peraltro ha vissuto una gestazione complessa e articolata, iniziata in Russia e poi, a causa della guerra in Ucraina, la produzione si è interrotta per poi continuare diversi mesi dopo in Lettonia, dove sono stati incredibilmente riprodotti gli esterni di New York. 

Come sarebbe potuto essere realizzato meglio, un film così difficile? A mio avviso, ma capisco sia un suggerimento anti commerciale, con almeno un'ora/un'ora e mezza in più di girato, magari dividendo il film in due parti, oppure attraverso una mini serie tv. Penso che vedere l'infanzia di Eduard e la parte come miliziano serbo sia determinante per una fotografia nitida del personaggio.

Anche così non mi lamento, sarebbe potuta andare molto peggio.


lunedì 23 settembre 2024

Rebel Ridge



Un auto della polizia sperona un ciclista che, pedalando intensamente con la musica a palla nelle cuffie, non aveva sentito le sirene della volante  alle sue spalle. Il ciclista è afroamericano e immediatamente si percepisce il comportamento arrogante e intimidatorio dei due agenti che lo ammanettano all'istante e lo perquisiscono, eludendo con la minaccia i suoi diritti, e trovandogli addosso una grande quantità di denaro in contanti. 


Jeremy Saulnier mi aveva folgorato con due film straordinari dal passo diverso ma accumunati dall'appartenenza al miglior noir, Blue Ruin e Green room (entrambi recensiti qui). Successivamente avevo apprezzato con riserva anche Hold the dark, che aveva spostato l'azione dalla periferia americana ai ghiacci dell'Alaska. 
Mi sono pertanto immediatamente fiondato sulla sua ultima fatica, da poco disponibile su Netflix, questo Rebel Ridge. E niente, Saulnier si conferma un grande regista, sia per gli aspetti tecnici che per la direzione degli attori, soprattutto quando può concentrarsi: uno - sul thriller urbano ambientato ai margini delle megalopoli USA, due - quando lavora su propri soggetti e sceneggiature (non a caso Hold the dark, l'unico film che non rispetta questa regola, è anche il meno riuscito).

Rebel Ridge è un revenge movie che rompe gli schemi classici del prevedibile action muscolare americano. Per chi conosce un pò la filosofia di Saulnier (Blue ruin), questa non è una sorpresa, ma la modalità con cui il regista lascia credere allo spettatore che lo showdown tra il protagonista tiranneggiato (Terry/Aaron Pierre, che ha l'unico limite di essere irrealisticamente e illegalmente figo) e i suoi aguzzini (the chief/Don Johnson, che ormai nei ruoli da villain ha trovato una seconda vita) sia imminente per poi disinnescarlo una, due, tre volte  (la de-escalation che Don Johnson spiega a Aaron Pierre), è in questo senso esemplare.
Terry capisce perfettamente che nella vita reale, pur avendone l'addestramento, non puoi fare come Rambo e quindi accetta i patti e le mediazioni degli sbirri corrotti, rinunciando alla vendetta, fino a quando gli sciovinisti in divisa non commettono un fatale errore.
E in ogni caso anche la resa dei conti finale, spoilero, non è all'insegna dello sbudellamento  johnwickiniano

La pellicola, che nasce con diversi stop and go, dovuti alla rinuncia di alcuni attori inizialmente assegnati ai rispettivi ruoli (John Boyega su tutti), funziona e anche bene in tutti i suoi comparti. Aggiungo all'analisi fin qui fatta il commento sonoro all'opera, dall'inizio folgorante con in sottofondo Fear of the dark dei Maiden, alle partiture orchestrali che fanno la loro in quanto contributo alla già spessa coltre di ansia che ammanta il film, e i dialoghi, privi di qualunque posa machista, non a caso l'unica volta che Terry fa il ganassa con una frase ad effetto, poi chiede al malcapitato al suo fianco: "troppo teatrale?".

Come spesso succede a noi fanboy, da una parte vorremmo che tutti si avvedessero del talento di un regista in grado di realizzare noir realistici e strepitosi, dall'altra vorremmo tenerlo tutto per noi, temendo che col successo arrivino anche mega budget e sbracature. 
Al netto di tutte questa pippe mentali, chi ha a cuore il genere e il buon cinema, deve amare Jeremy Saulnier.


Netflix

lunedì 16 settembre 2024

Jim Thompson, Bad boy (1953)


Prosegue l'opera di recupero di libri che giacevano intonsi sul mio scaffale da un quarto di secolo. Libri che, come nel caso di Bad boy, nemmeno ricordavo più di avere e che ho notato solo dopo essermi immerso nelle atmosfere torride e allucinate di L'assassino che è in me.

A testimonianza della sua prolificità, nel 1953 Jim Thompson pubblica cinque romanzi. Tra questi la prima parte della sua autobiografia, che copre la sua vita dall'infanzia a circa vent'anni. Un racconto avventuroso che immagino lo accomuni a tanti americani di quel periodo, che passavano, già in giovane età, da una professione ad un'altra, a causa sì della profonda crisi degli anni trenta (a seguito del crollo di Wall street e dalle migrazioni di massa causate dalle dust bowl) ma anche dallo spietato capitalismo americano, che non offriva protezione alcuna ai lavoratori e stimolava invece la competizione a basso costo tra "poveracci", con risultati drammatici. Nella storia di Thompson, nato da un genitore faccendiere estremamente colto e intelligente ma tragicamente ingenuo, sembra di rileggere l'epopea di Jack, il protagonista de La falena di James Cain, che passa da impiego a impiego arrivando, per una fase, a vivere da homeless. 

Anche Jim Thompson lascia scuola e casa da adolescente e si misura con la dura realtà di quegli anni, cercando lavoro nei giornali locali, per poi trascorrere un periodo come fattorino di hotel, nel quale diventa dipendente dall'alcol con conseguenze patologiche permanenti, per poi partire verso l'ignoto e finire a lavorare nel recupero di materiali di costruzione dei pozzi di trivellazione, una professione evitata da chiunque dotato di un briciolo di amor proprio in quanto mortalmente pericolosa. E' in questa occasione che incontra uno spaventoso poliziotto sul quale modellerà il personaggio di Lou Ford, nel suo romanzo migliore: L'assassino che è in me

Non poteva mancare, in un'autobiografia che è anche una fotografia nitida dell'America a cavallo tra gli anni venti e i trenta del secolo scorso, la presenza del crimine organizzato, che proprio in quell'orizzonte temporale cominciava a costruire il suo oscuro mito. E l'incontro che il futuro scrittore racconta con il mob di Al Capone nell'ambito del commercio illegale di alcol durante il proibizionismo, sebbene avvenga in maniera quasi occasionale e controvoglia da parte del giovane Thompson, spiega bene quanto fossero spietati già allora i metodi dei criminali italo-americani. Direttamente a causa dei quali si giunge alla conclusione delle memorie di Jim, con uno dei cliffhanger più inaspettati che mi sia capitato di leggere.

Entrare in sintonia con la vita di Jim Thompson significa cominciare a capire le basi della sua letteratura, la disillusione di un mondo popolato da disperati e persone senza scrupoli, folli lucidissimi e drifters destinati sin dall'inizio al fallimento e alla sconfitta, nell'eterno gioco di quella partita truccata che per lo scrittore è la vita. 

lunedì 9 settembre 2024

Blink twice


Slater King, un affascinante imprenditore di successo con un passato da farsi perdonare a causa dell'emersione pubblica di comportamenti violenti ed eccessivi, si è ritirato da tempo dalla scena pubblica. In occasione di una festa in suo onore, conosce Frida (che lo venera) e la sua amica e le invita ad unirsi a lui e al suo entourage su di un'isola sperduta di sua proprietà. Le amiche accettano e una volta arrivate lì, in una condizione di lusso sfrenato, tra sostanze psicotrope e bizzarri compagni di viaggio, tutto sembra idilliaco come sui rotocalchi del parrucchiere. Ovviamente non è così.

Già cantante e attrice, Zoe Kravitz, aggiunge al suo curriculum di artista anche la regia, e lo fa in maniera tutt'altro che banale, con un film di genere (di cui co-firma anche soggetto e sceneggiatura), girato con sorprendente personalità, che mette al centro l'intrigo, il terrore e la violenza, ma senza lesinare il messaggio femminista, affidato in particolare a Sarah (una convincente Adria Arjona), che accompagna la protagonista Frida (Naomi Ackie) alla ricerca della verità, e la critica alla società moderna nella quale siamo oltre i tre minuti di popolarità preconizzati da Warhol, e dove ognuno vuole una fetta della high life dei vip che legge su Chi e guarda a Verissimo.

Tuttavia, analogamente a Trap, altro film che ho apprezzato e che spero di riuscire a recensire, è un attore maturo che ha solo sfiorato l'enorme popolarità e che di norma non è incline ai ruoli da villain, a regalarci un'interpretazione indimenticabile nella sua ferocia. Se nell'ultima pellicola di Shyamalan era Josh Hartnett, qui è Channing Tatum a dare corpo all'imprenditore miliardario Slater King, nel cui esclusivissimo cerchio magico tutti vogliono entrare, anche a costo di perdere l'umanità o, all'opposto, per dare libero sfogo ai propri impulsi più reconditi, nella certezza di farla franca. Nella finzione del film grazie ad un particolare escamotage chimico, e, purtroppo, nella realtà in virtù della protezione garantita da livelli di potere economico inimmaginabile.

Il film vive del consueto patto non scritto tra regista e spettatori sul quale vive l'intrattenimento di genere: concedetemi qualche elemento di inverosimiglianza e vi ripagherò con una buona dose di thrilling e suspence. In Blink twice non tutto ha logica ed è verosimile, ma la Kravitz gestisce bene la tensione crescente e il mistero, disseminando la narrazione di frammenti di indizi visivi, trasmettendo un malessere costante, anche nelle scene apparentemente all'insegna del divertimento della combriccola. C'è da dire che il risultato è raggiunto anche grazie anche alle musiche e soprattutto ad una superba fotografia,  che ammanta le location di una luce sempre minacciosa, sia nelle scene di giorno che in quelle di notte, negli spazi aperti e in quelli chiusi. Imprevedibile il plot twist del pre-finale così come inaspettata la conclusione del film, a conti fatti forse la trovata in assoluto meno realistica dell'opera, ma che, a mio parere, in virtù del patto con lo spettatore di cui sopra, ci appare come il più congruo dei contrappesi.

giovedì 5 settembre 2024

MFT, luglio e agosto 2024

ASCOLTI

Mr Big, Ten
Eminem, The death of Slim Shady (Coup de grace)
Pearl Jam, Dark matter
Saxon, Hell, fire and damnation
The Jesus and Mary Chain, Glasgow eyes
Jack White, No name
Fucked up, Another day
Cheap Wine, Faces
Chrystabell & David Lynch, Cellophane memories
Fulci, Duck face killings
X, Smoke and fiction
The Mavericks, Moon and stars
Johnny Cash, Songwriter
Johnny Blue Skies, Passage du desir
Green Day, Saviors
Ghost, Rite here rite now
Deep Purple, = 1
AAVV, Petty country - A country music celebration of Tom Petty (recensione)
Fontaines D.C. , Romance
Zael & Ardor, Greif
Nile, The underworld awaits us all


VISIONI  (in grassetto i film visti al cinema)

Caracas (3/5)
Hit Man - Killer per caso (3/5)
The longest nite (vedi recensione : 3,75/5)
La morte è un problema dei vivi (3,75/5)
Non aprite quella porta - parte 2 (3,5/5)
Piggy (vedi recensione : 3,75/5)
Doggy style (2/5) 
Jonah Hex (2/5)
Benny loves you (3,25/5)
Letto n. 6 (vedi recensione: 3,25/5)
Stasera ho vinto anch'io (4/5)
Knockout - Resa dei conti (3/5)
El correo (2/5)
Maigret (2,75/5)
Five nights at Freddy's (2,5/5)
They talk (3,25/5)
Falla girare (3/5)
Anchorman (3,25/5)
Deadpool & Wolverine (2,75/5)
Un colpo all'italiana (3,5/5)
Il ministero della guerra sporca (2,75/5)
Vestito per uccidere (3,75/5)
Django (1966) (3,5/5)
Chaos (2/5)
The village (3,5/5)
Perfido inganno (3,75/5)
Escobar - Paradise lost (3/5)
Seduzione mortale (3,5/5)
Trap (3,5/5)
The last witch hunter (2/5)
Lo strangolatore di Boston (3/5)
Borderlands (2,5/5)
Becky (vedi recensione 3/5)
The wrath of Becky (vedi recensione: 3/5)
Ferrari (3,5/5)
Sisu - L'immortale (3,5/5)
American sniper (2,5/5)
Il colpo della metropolitana (3,5/5)
La persona peggiore del mondo (3,75/5)
Il discorso del re (3,5/5)
Vengeance (2022) (3,5/5)
Horizon (3/5)
Casino Jack - Il gioco dei soldi (2,25/5)
Neve rossa (3,5/5)
Blink twice (3,5/5)
Divorzio all'italiana (4/5)














Visioni seriali

Pax Massilia (3/5)
Mayor of Kingstown (2,75/5)
The Gentlemen (3/5)
Vita da Carlo, 2 (2,5/5)


LETTURE

Luis Sepùlveda, Diario di un killer sentimentale 
Peter D'Angelo e Fabio Valle, Il figlio peggiore (recensione)
Alan Bennett, La sovrana lettrice

lunedì 2 settembre 2024

AA/VV, Petty Country - A country music celebration of Tom Petty (2024)

Devo confessarlo, non sono mai stato un die hard fan di Tom Petty. L'ho sempre ascoltato a piccole dosi e raramente per la durata di un intero album (con qualche eccezione, ad esempio Full moon fever e Wildflowers - casualmente entrambi senza gli storici sodali Heartbreakers - e Southern accents). Ciononostante mi sento legato ad una manciata di sue canzoni che appartengono di diritto ad una mia ipotetica playlist della vita. Inoltre questo disco tributo, che mette un pò il meglio del country americano mainstream, autoriale e storico davanti al compito di ricordare l'uomo di Gainsville, Florida, attraverso la reinterpretazione del suo songbook, era troppo ghiotta per non addentrarcisi. Aggiungo che la filosofia del tributo (i musicisti country che omaggiano la produzione di Tom) ha senso, visto che Petty è stato, inconsapevolmente, il pioniere di quel genere, chiamato poi "americana", che saldava assieme country, folk e rock.

Come funzionano gli album di tributo? In maniera abbastanza schematica. Ci sono gli artisti che vi partecipano per autentica riconoscenza al soggetto celebrato, quindi, in genere le loro interpretazioni risultano anche essere le più appassionate ed efficaci, e sovente i pezzi scelti non sono i più noti dalle masse. Poi c'è chi partecipa perchè ha uno status di musicista per cui "è meglio esserci", e in questa circostanza di norma ascoltiamo elaborazioni scolastiche dei brani di maggior successo del caro estinto. Infine ci sono le band emergenti, cui le major  - almeno fino a quando esisteva il mercato discografico - cercavano di allargare la platea inserendoli, nella tracklist, tra i tanti big. 

Petty Country segue questa prassi, sia nella distribuzione delle tracce che nella qualità delle interpretazioni. Premettendo che davvero in pochissime, tra le band partecipanti, hanno inciso sull'architettura delle canzoni, limitandosi quindi ad una riproposizione fedele delle armonie originali, non è una sorpresa constatare come gli artisti più autorevoli e meno interessati a finire ad ogni costo nelle rotazioni di CMT (la potente televisione country USA) siano anche quelli che ci regalano più brividi. A partire da Chris Stapleton, che prende un brano poco noto (e anche il più recente, tra quelli presenti), I should have know it, da Mojo del 2010, e lo fa suo. Così la traccia numero uno è già, se non la migliore, nella short list delle migliori. 

A seguire vanno, a mio avviso, raggruppate tutte quelle versioni piacevoli ma innocue e pedisseque agli originali, delle grandi hit (ci sono tutte) di Petty. Running down a dream (Luke Combs), American girl (Dierks Bentley), I won't back down (Brothers Osbourne), Learning to fly (Eli Young Band) e Free falling (Cadillac Three) scivolano via senza lasciare particolari residui emozionali, perlomeno Thomas Rhett, ci porta una versione di Wildflowers impreziosita da un apprezzabile violino western. 

Ora. Personalmente reputo Southern accents una delle canzoni più belle di sempre, che dovrebbe essere eletta a inno dei meridionali di tutto il mondo. Un meraviglioso fiore di campo creato da Tom Petty per l'album omonimo del 1985 ed elevata a standard nell'indimenticabile versione di Johnny Cash per Unchained del 1996. Ascoltarla qui in una versione, scegliete voi, da residence a Las Vegas o festival di Sanremo, da parte di una Dolly Parton incartapecorita fa male al cuore.

Per riprendersi bisogna tornare a chi cerca di creare un ponte autoriale tra il true-country del passato e il presente. Un ponte che sorvoli il tanto, troppo pop-country imperante da anni a livello mainstream. Quindi Jamey Johnson con una drammatica, straziante I forgive it all, il bluegrass-oriented sound di Steve Earle messo al servizio di Yer so bad, il cosmic-country di Marty Stuart che eleva I need to know.

In conclusione Petty Country è un tribute album che scorre piacevole ma altrettanto inoffensivo per buona parte della sua tracklist, facendo quasi sempre preferire gli originali. Che non è mai troppo tardi andare a (ri)scoprire.

lunedì 26 agosto 2024

Becky (2020) / The wrath of Becky (2023)


Becky è una tredicenne arrabbiata col mondo a causa della prematura morte, per malattia, della madre. E' incazzata nera anche col padre, che vuole rifarsi una vita con una nuova compagna, decisione che, dal suo punto di vista di adolescente, percepisce come un tradimento. Ragion per cui il week end fuori porta, in una baita di famiglia, che il genitore aveva programmato per farla familiarizzare con la sua nuova fidanzata non inizia esattamente nel migliore dei modi. Continuerà peggio, quando "l'idillio" della famigliola sarà messo a dura prova da un gruppo di cattivissimi nazisti fuggiti dal carcere.

Nel sequel, dopo i fatti del primo film, la sfiga continua a perseguitare Becky (ma sarà davvero sfortuna?), mettendo sulla sua strada un gruppo militare anti governativo che ha progetti eversivi.

Sarebbe bastata una frase per sintetizzare questi due film ignorantissimi: if you want blood you've got it! Infatti, la trama delle due pellicole, esile come carta velina e altrettanto inverosimile, serve unicamente all'ipotetico spettatore medio (cioè, spero, non simpatizzante di terroristi americani o nazisti) ad urlare di piacere e lanciare in aria i suoi pop-corn mentre assiste alla mattanza perpetrata da una ragazzina di tredici anni contro montagne umane tatuate di svastiche. Insomma, una specie di Mamma ho perso l'aereo però con trappole tipo quelle, sadicissime, di Itchy & Scratchy (Grattachecca e Fichetto) dei Simpsons. Nel primo capitolo da segnalare l'interpretazione, apprezzabile in un ruolo da badass villain, del comico Kevin James.

Il sequel, se vogliamo è ancora più stimolante, visto che gli sceneggiatori mettono contro Becky una banda armata americana terroristica, i Noble Men, che vuole attentare alla vita della senatrice democratica Hernandez. Tradotto, i Proud Boys o una delle tante milizie a cui si rivolge Trump (lo fece anche in occasione dell'attacco a Capitol Hill), e la senatrice Ocacio Cortez, loro obiettivo primario tra i democratici. Anche qui tutto è eccessivo e oltre ogni verosimiglianza, ma anche qui ci si diverte come bambini davanti a tanto splatter (che mi è parso tutto artigianale, e non in CG) e a una manciata di sequenze di irresistibile black comedy.

Insomma, i due capitoli di Becky - non ho citato la protagonista, Lulu Wilson, con la giusta faccia che oscilla tra ragazza della porta accanto e stronza insopportabile - , sono un'intrattenimento ad alto tasso di ignoranza, ma cattivo e fumettoso, con il quale passare, complessivamente, meno di tre ore di divertimento rigorosamente gore.


Visto su Rai Movie (Becky)
Prime Video (The wrath of Becky)




lunedì 19 agosto 2024

Recensioni capate: Peter D'Angelo e Fabio Valle, Il figlio peggiore



L'Italia non è stato l'unico Paese che, tra i sessanta e i settanta, decise, tra le altre forme repressive, di soffocare dissenso e proteste giovanili inondando le strade dei quartieri più popolari - epicentri delle proteste - di droghe pesanti, soprattutto eroina. Falcidiando intere generazioni. Centinaia di migliaia di giovani. In molti sostengono che lo fecero anche gli USA (forse memori dell'analoga strategia usata, con l'alcol, nei confronti dei nativi americani) soprattutto per sterilizzare i movimenti dei neri nel periodo di Malcom X e delle Black Panthers. Però quest'operazione infame del nostro Stato parallelo, diversamente da altre (Gladio, le stragi in collaborazione con organizzazioni eversive neo fasciste, la P2) ha avuto meno rilevanza nella ricostruzione a posteriori di quegli anni pregni di ideali ma terribili. 
E' per questa ragione che mi sono fiondato con grandi aspettative sul romanzo di Peter D'angelo (giornalista d'inchiesta tra carta stampata e televisione) e Fabio Valle (scrittore e documentarista) che ricostruiscono, dentro una vicenda di finzione ambientata a Roma negli anni dal 1970 al 1975, proprio quella strategia, nota agli atti ufficiali come "operazione Blue moon". 
Purtroppo, a lettura completata, lo spunto del romanzo resta l'unico elemento che ho apprezzato del libro. 
C'è, a mio avviso, un problema nella caratterizzazione - un pò scolastica - dei personaggi, così come dell'intreccio, privo di guizzi (con alcuni passaggi davvero improponibili, come "l'interrogatorio" durante il rapporto sessuale) e con una conclusione che mi è parsa frettolosa. 
E' un libro che si legge tranquillamente, non fraintendermi, il suo problema principale è che dopo De Lillo, Ellroy, ma anche i nostrani Genna e Di Cataldo, ci si aspetta qualcosa in più da romanzi di questa natura. Sarà per il prossimo, visto il finale aperto che va a sfrucugliare proprio l'opera di uno degli autori citati? Lo auguro sinceramente ai due autori.