lunedì 16 settembre 2024

Jim Thompson, Bad boy (1953)


Prosegue l'opera di recupero di libri che giacevano intonsi sul mio scaffale da un quarto di secolo. Libri che, come nel caso di Bad boy, nemmeno ricordavo più di avere e che ho notato solo dopo essermi immerso nelle atmosfere torride e allucinate di L'assassino che è in me.

A testimonianza della sua prolificità, nel 1953 Jim Thompson pubblica cinque romanzi. Tra questi la prima parte della sua autobiografia, che copre la sua vita dall'infanzia a circa vent'anni. Un racconto avventuroso che immagino lo accomuni a tanti americani di quel periodo, che passavano, già in giovane età, da una professione ad un'altra, a causa sì della profonda crisi degli anni trenta (a seguito del crollo di Wall street e dalle migrazioni di massa causate dalle dust bowl) ma anche dallo spietato capitalismo americano, che non offriva protezione alcuna ai lavoratori e stimolava invece la competizione a basso costo tra "poveracci", con risultati drammatici. Nella storia di Thompson, nato da un genitore faccendiere estremamente colto e intelligente ma tragicamente ingenuo, sembra di rileggere l'epopea di Jack, il protagonista de La falena di James Cain, che passa da impiego a impiego arrivando, per una fase, a vivere da homeless. 

Anche Jim Thompson lascia scuola e casa da adolescente e si misura con la dura realtà di quegli anni, cercando lavoro nei giornali locali, per poi trascorrere un periodo come fattorino di hotel, nel quale diventa dipendente dall'alcol con conseguenze patologiche permanenti, per poi partire verso l'ignoto e finire a lavorare nel recupero di materiali di costruzione dei pozzi di trivellazione, una professione evitata da chiunque dotato di un briciolo di amor proprio in quanto mortalmente pericolosa. E' in questa occasione che incontra uno spaventoso poliziotto sul quale modellerà il personaggio di Lou Ford, nel suo romanzo migliore: L'assassino che è in me

Non poteva mancare, in un'autobiografia che è anche una fotografia nitida dell'America a cavallo tra gli anni venti e i trenta del secolo scorso, la presenza del crimine organizzato, che proprio in quell'orizzonte temporale cominciava a costruire il suo oscuro mito. E l'incontro che il futuro scrittore racconta con il mob di Al Capone nell'ambito del commercio illegale di alcol durante il proibizionismo, sebbene avvenga in maniera quasi occasionale e controvoglia da parte del giovane Thompson, spiega bene quanto fossero spietati già allora i metodi dei criminali italo-americani. Direttamente a causa dei quali si giunge alla conclusione delle memorie di Jim, con uno dei cliffhanger più inaspettati che mi sia capitato di leggere.

Entrare in sintonia con la vita di Jim Thompson significa cominciare a capire le basi della sua letteratura, la disillusione di un mondo popolato da disperati e persone senza scrupoli, folli lucidissimi e drifters destinati sin dall'inizio al fallimento e alla sconfitta, nell'eterno gioco di quella partita truccata che per lo scrittore è la vita. 

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