sabato 30 luglio 2011

Album o' the week / Gang, Dalla polvere al cielo (2009)




Visto che ancora mi fischiano le orecchie per il concerto dei Gang di ieri sera, in attesa di buttare giù qualche pensiero che renda giustizia all'immensità di Marino Severini e band, il disco della settimana è il loro bootleg ufficiale Dalla polvere al cielo. Dà un idea della dimensione live del gruppo, anche se il consiglio è di andare a vederli sul serio perchè ci sono poche band che hanno il repertorio del combo marchigiano e ancora meno artisti che sanno divertire e comunicare emozioni al pari di Marino.

giovedì 28 luglio 2011

Hap & Leonard chapter I








Pensavo a come impostare la recensione de Una stagione selvaggia di Joe R. Lansdale quando ho improvvisamente realizzato che a prescindere dal valore intrinseco dell'opera il romanzo ha comunque prodotto un risultato molto significativo: farmi tornare a leggere dopo qualche mese di black-out assoluto. Si sa come vanno queste cose, ti intestardisci a leggere il libro sbagliato, lo molli,lo riprendi, passi ad un altro titolo, torni al precedente, ti viene la malavoglia. Ecco dunque il primo elemento di valore assoluto dell'arte di Lansdale:non si corrono questi rischi.


Entrando nel merito, Una stagione selvaggia è il libro che introduce ai lettori Hap e Leonard, la coppia di amici protagonista di una lunga saga di romanzi (nove, ad oggi). A causa della schizofrenia delle strategie editoriali italiane, questo esordio (del 1990)insieme al secondo episodio della serie sono stati pubblicati qualche anno dopo(2006) rispetto ai volumi dal terzo al sesto della cronologia originale (2001-2005). Peccato veniale, le storie sono godibilissime anche fuori continuity, ma siccome noi siamo precisini, leggerle in sequenze ci dà più soddisfazione.


Questo pilota (per usare un termine da serial tv) ci presenta i due amici, scavando nel loro passato (più in quello di Hap per la verità) e mettendoli in una situazione che dal primo istante minaccia di deragliare dalla prospettiva di partenza (soldi facili, c'è da chiederlo?) ad incognite mortali. Il tutto recapitato a domicilio dalla ex-moglie di Hap che, sfruttando l'ascendente che ancora ha su di lui, lo induce ad infilarsi in un'impresa complicata che riporterà Collins nei suoi luoghi d'infanzia: le paludi di Marvel Creek. Come complici un manipolo di improbabili oppositori al Sistema Capitalistico che hanno bisogno di fare cassa per iniziare la loro guerriglia.

Lansdale scandaglia una parte d'America che evidentemente conosce bene, quella parte degli stati del sud che vivono di violenza, razzismo,sopraffazione. Popolata da bifolchi, gangster, sognatori, falliti e disillusi. Attraverso scenari di povertà, sottoproletariato e lavori per passare la nottata ma senza alcuna prospettiva di stabilità. E' in questo humus che al freddo di una catapecchia senza riscaldamento, con il fiato che si condensa in nuvolette bianche, si srotolano piani e strategie per il colpo della vita, si pianificano omicidi, si oliano pistole arrugginite comprate al mercato nero pregando che non s'inceppino al momento sbagliato. Si va incontro a fallimenti annunciati.


Più che lo sviluppo della storia, avvincente ma in alcune parti un pò prevedibile per chi ha confidenza con il genere noir, gli elementi convincenti del romanzo sono un ritmo costantemente sostenuto, dei dialoghi sempre micidiali, battute corrosive, fantastiche caratterizzazioni di personaggi sghembi e assurdi, ma percepiti come reali.

Son qui che mi chiedo com'è che Hollywood, sempre alla disperata ricerca di soggetti cinematografici validi, non si butti a capofitto sulle storie di Lansdale. In alternativa la saga di Hap & Leonard potrebbe dar vita ad un serial televisivo di qualità, come ne abbiamo visti in questi ultimi anni.

martedì 26 luglio 2011

MFT, luglio 2011

ASCOLTI

Gang, La rossa primavera
Aloe Blacc, Good things
Edoardo Bennato, Storytellers
Hank Williams, 40 Greatest hits
Flogging Molly, Speed of darkness
Eddie Vedder, Ukulele songs
Uncle Tupelo, 89-93 An anthology
Anvil, Juggernaut of justice
Emmylou Harris, Hard bargain
The Horrors, Skying
Gomez, Whatever's on your mind

VISIONI

Falling skies
I Soprano quarta stagione

LETTURE

Joe Lansdale, Una stagione selvaggia

lunedì 25 luglio 2011

Le dimensioni (della chitarra) non contano






Eddie Vedder

Ukulele songs (Universal, 2011)



Non lo so perchè ho pensato ad Elvis Presley quando ho saputo dell'intenzione di Eddie Vedder di pubblicare un album di canzoni nel quale si sarebbe accompagnato solo con l'ukulele. Forse per il collegamento alle Hawaii e quindi al film e all'album Blue Hawaii. O forse perchè the King, al massimo della sua popolarità pubblicava dischi in pressochè ogni stile musicale americano Elvis sings the country, Elvis sings the blues eccetera. Forse l'improprio collegamento è scattato perchè già mi vedevo, dopo il disco con l'ukulele, una sfilza di titoli tipo Eddie Vedder plays the banjo e chissa cos'altro ancora.


Ma lasciando da parte le mie illogiche sinapsi mentali, ho messo su questo disco con molta curiosità, perchè sono un estimatore sia della voce di Vedder che degli strumenti a corda meno tradizionali. Nonostante questo, beh, il primo impatto è stato davvero scoraggiante. Dopo due-tre pezzi sono scappato a gambe levate per via di quello che mi è parso un canone di una monotonia insopportabile. In effetti lo strumento da solo non permette molte variazioni e sia le parti arpeggiate che quelle "grattate" dopo un pò sembrano tutte uguali.


Mi ci è voluto un pò perchè mi tornasse la voglia di ascoltarlo e devo dire che con un pò di pazienza l'anima del progetto viene fuori e con lei la bellezza di alcune composizioni. Can't keep (da Riot Act) stupisce per come, in questa scarna veste, riesca comunque a far emergere una sorta di tensione trattenuta, così come avveniva nella versione originale, che poteva però contare sul supporto del resto dei Pearl Jam con la spina attaccata. Suggestiva anche la successiva Sleeping by myself mentre con la romantica Broken Heart si tocca uno dei picchi del disco, così come con Longin to belong, del resto. Mentre Sleepless night, guarda un pò, sarebbe stata perfetta per la voce al caramello di Elvis Presley. Almeno questo link con The King concedetemelo.





Difficile dare un giudizio definitivo ad un lavoro così particolare. In alcuni punti sembra volare alto, in altri è difficile resistere alla tentazione di skippare le tracce. Certo, alla lunga ha una sua coesione, un suo perchè, un suo personalissimo fascino. Avessi dato un voto al primo ascolto sarebbero state al massimo un paio di palle, che all'apice della mia empatia con il disco sarebbero salite a quattro. Facciamo che tiro una media matematica e la chiudiamo qui.





domenica 24 luglio 2011

Jade

Torno da trentasei ore di isolamento dalla civiltà e trovo sui quotidiani on line la notizia della morte di Amy Winehouse. Per quanto non si possa evitare di dire che Amy abbia cercato con drammatica perseveranza di arrivare fino a questo punto, sono ugualmente sgomento di fronte alla sua morte. Di più non mi viene. Condivido ogni riga del post di commiato di Titta. Lo trovate qui.

sabato 23 luglio 2011

Album o' the week / Lyle Lovett, I love everybody (1994)




Ho una particolare simpatia per Lyle Lovett perchè è un fenomeno tutto particolare del music buisness. Schivo, fuori dagli schemi, dall'aspetto non certo glamour (anche se la cosa non gli ha impedito di impalmare Julia Roberts) il texano, nel tempo, ha creato un suo personalissimo stile musicale che potremmo definire country-swing-jazz.


Gli episodi migliori della sua discografia sono probabilmente Lyle Lovett and his large band, The road to Ensenada, My baby don't tolerate; forse per iniziare va bene anche la raccolta Anthology vol I, ma io sono significativamente legato a I love everybody, release del 1994.

venerdì 22 luglio 2011

Una piccola storia ignobile (cit)

Sì, dunque. C'è questa piccola ragazza che lavora in una grande azienda italiana. Le succede una cosa che normalmente porta con se gioia immensa o preoccupazioni laceranti. Rimane incinta. Il suo è un caso da situazione due. Il padre del nascituro infatti non ne vuole sapere e la lascia. I suoi genitori le consigliano di abortire per evitare scandali e di fronte al suo rifiuto troncano immediatamente ogni rapporto. La piccola ragazza adesso è sola e per giunta lontana da casa. Decide di rivolgersi al sindacato e sceglie il nostro. Il problema è trovare un modo di farla stare a casa il più possibile (oltre la maternità), in modo che possa prendersi cura del piccolo ma con una retribuzione che non sia limitata al 30% previsto dalla legge alla scadenza dei tre mesi dopo il parto. L'occasione si presenta sotto forma di accordo di cassa integrazione siglato da sindacato e grande azienda per circa il 5% del personale. Prendiamo contatto con i capi locali dell'azienda. Ci rispondono picche. Attraverso i nostri responsabili nazionali interpelliamo i dirigenti romani dell'azienda. La faccenda è delicata, spieghiamo. Mettetevi una mano sulla coscienza, esortiamo. Niente da fare.


Qui mi tocca una precisazione. La cassa integrazione è senza dubbio uno strumento drammatico, che abbatte retribuzioni e prospettive occupazionali, ma in questa impresa, in questo settore, è integrata da un fondo di categoria che aumenta un pò l'importo. Nel tempo siamo arrivati a situazioni per cui ci sono molti lavoratori che la chiedono volontariamente per un periodo sabbatico che però a differenza dell'aspettativa canonica è retribuito. C'è discreta richiesta quindi e la grande azienda usa questo strumento, incredibile a dirsi, come merce di scambio con il personale e forse anche come clientela con qualche sindacato che al momento giusto si turerà il naso.


Il tempo passa e la piccola ragazza è smarrita. Le sue certezze cominciano a vacillare. L'importante sindacato non riesce a risolvere l'insignificante (in termini di proporzionali rispetto alle dimensioni dell'azienda) problema. Paga probabilmente una qualche (minima, rispetto all'assertività degli altri) intransigenza in fase di trattativa, qualche NO di troppo.


Un bel giorno il sindacalista che seguiva la piccola ragazza cercando di risolvere il rompicapo prima della deadline riceve un sms con scritto:



Ciao, so che ti sei impegnato a fondo per la mia situazione

ma per risolverla mi hanno detto che dovevo cambiare sindacato.

E scusa ma io l'ho fatto.

Grazie ancora, Giulia.



Il sindacalista si sente un pò sollevato perchè il problema finalmente si risolverà ma è l'indignazione il sentimento che prevale. La frustrazione. L'impotenza. Vomita nel cesso tutta la sua rabbia.

giovedì 21 luglio 2011

Lo voglio anch'io un autobot in garage...




Alla fine è arrivato anche il tempo dei Transformers. Abbiamo però deciso di saltare il primo film e di passare direttamente al secondo perchè l'idea era quella di vedere poco dopo al cinema il terzo episodio della saga, attualmente in programmazione, ed evitare però l'overdose. Ci siamo divertiti sulle scene di combattimento tra robot (Optimus Prime il più forte dei buoni è pronunciato Ottimu Sprait da Stefano) ma il film è di una lunghezza esasperante e, gesù, Megan Fox è talmente cagna da far rimpiangere Valeria Marini in Bambola. Senza contare la fatica che ho fatto per spiegare a Stefano tutti i doppi sensi a sfondo sessuale che farciscono le parti leggere di un film per ragazzini. Simpatico Shia LaBeouf. Turturro ha invece fatto un bancomat. Capita.




Alla fine eravamo evidentemente entrambi poco convinti, tant'è che abbiamo deciso di soprassedere sulla visione del terzo episodio al cinema.

mercoledì 20 luglio 2011

martedì 19 luglio 2011

Into the groove






Pensi di essere sempre lì sul pezzo, attento ad ogni nuovo fenomeno musicale che si manifesti, nell'ambito dei generi che segui, e poi ti sfugge clamorosamente uno come Aloe Blacc.
Questo tizio dal nome improbabile non è,tra l'altro, nemmeno al suo esordio, visto che incide, compresi lavori autoprodotti e sotto diverse ragioni sociali, dal 1995. Il disco che mi ha folgorato (del 2010) si ispira alla black dei settanta e si chiama Good things.

Tra i tanti che provano a misurarsi con il revival del soul di quegli anni, Blacc (al secolo Egbert Nathaniel Dawkins III, classe 1979) emerge con classe realizzando un progetto credibile e appassionante. A partire da I need a dollar, il pezzo d'apertura che ha goduto di una certa diffusione radiofonica e che in USA è usato sui titoli di testa della serie How to make it in America. Ma parlavamo di credibilità. Good things viaggia principalmente sulle coordinate dei dischi di Marvin Gaye,Isaac Hayes, Bobby Womack: soul rilassato, bassi in evidenza, horns che sottolineano taluni passaggi, tanto groove. Ci sono accenni alla blaxpotation (Hey brother ) e pezzi che si contaminano con il reggae solo per i delicati movimenti in levare delle tastiere (Miss fortune), classicissime ballate fifties (Femme fatale).

Classe a tonnellate.

lunedì 18 luglio 2011

Svolte




Gomez

Whatever's on your mind (ATO, 2011)






L'auto esilio dall'ascolto dei nuovi dischi dei Gomez che mi sono imposto qualche anno fa mi ha fatto bene. Dopo il promettente esordio di Bring it on e l'ottimo seguito di Liquid skin (anni di grazia 1998-99) il mio interesse è crollato, per ripresentarsi timidamente nel 2006, con la release di How we operate. Torno sulle loro tracce in occasione dell'uscita di Whatever's on your mind, disco di studio numero sette della loro produzione che stavolta arriva al momento giusto (per me intendo: si sa, c'è un tempo per ogni cosa...).

I Gomez 2011 li ritrovo meno dispersivi e più immediati, concentrati e incisivi rispetto a quanto ricordavo (con i forumisti si ragionava del fatto che sulla breve distanza fossero micidiali ma che alla lunga il loro sound stancasse). Ebbene, qui mi sembra che i ragazzi abbiano trovato soluzione a questo problema mica da ridere grazie ad un lavoro diverso, forse più maturo e ragionato anche in termini di prospettive di vendita. L'album è aperto dal pop elegante di Options, chitarra acustica in apertura, fiati in sottofondo, cantato e refrain coinvolgenti. Queste caratteristiche sono presenti anche nella successiva I will take you there, dove però le sottolineature di sax si fanno un pò più presenti e accompagnano la voce nell'arrampicata alla scala del ritornello.

La title-track è invece la classica ballata ma senza per questo risultare fiacca o inutile, tutt'altro, Whatever's on your mind è probabilmente uno dei pezzi più piacevoli del disco, insieme alla Kingsofleoniana Just as lost as you, che ha potenzialità da singolone e stoffa per fare strada nelle programmazioni radiofoniche o nelle piattaforme musicali televisive. Da segnalare anche Our goodbye, archi e dolci melodie a sugellare malinconie un pò eighties.

In generale la cifra stilistica dell'opera predilige le atmosfere rilassate, i cori, le delicate armonie vocali, trovando in questo un suo compromesso tra un certo pop inglese e il revival folk che tanto tira in questi ultimissimi anni e senza farsi mancare qualche riferimento ai lavori di Dave Matthews.

Lo ripeto, non li ho ascoltati con continuità e pertanto non posso esprimere un giudizio storico-cronologico del tutto affidabile, ma da quello che percepisco siamo davanti ad una piccola-grande svolta nel percorso dei Gomez. Svolta che a mio avviso è piacevolmente riuscita. Qualunque cosa avessero in mente.








sabato 16 luglio 2011

Album o' the week / Primal scream, Screamadelica (1991)





Ricorrono proprio in questi giorni i vent'anni di questo dischetto che ha fatto scuola. Come? Beh, sporcando il roccherrol di musica elettronica, di techno, di house music fino a raggiungere in taluni casi risultati psichedelici. Movin' on up, il folk-gospel che apre il lavoro (al quale devono molto a livello di ispirazione i Blur di Tender) depista la vera cifra stilistica del lavoro. Mano a mano che ci si addentra, a partire da Slip inside this house, tutto risulta più chiaro. Anzi allucinato. Come suggerisce la band, Don't fight it, feeeeel it.

venerdì 15 luglio 2011

The other side of the story












Quante volte abbiamo sentito, dall'alto della loro ricchezza, i grandi del rock ricordare come la musica gli abbia salvato la vita? Che senza quest'arte avrebbero probabilmente finito per diventare tossici persi o a fare il lavoro in fabbrica dei loro genitori.

Beh, in mezzo ai (tutto sommato) pochi che sono riusciti a raggiungere livelli tali da costruirsi grattacieli privati (ogni riferimento agli U2 è voluto) , ce ne sono molti che la fama e la ricchezza l'hanno solo sfiorata, per poi tornare indietro esattamente al punto di partenza, come in un folle gioco dell'oca. Nonostante questo, una parte di loro, seppur nell'indifferenza generale, a discapito dei rifiuti del mercato e incurante di sfiorare il patetico, non ha mai mollato.

E' questa la storia degli Anvil, e l'idea di raccontarla in un documentario è un'intuizione dannatamente geniale. The Story of Anvil spezzerà il cuore di qualunque attempato amante non solo del metal, ma del rock in generale. Lo farà sorridere, emozionare, commuovere, divertire. La band canadese, che ha raggiunto il suo apice di gloria a metà anni ottanta con l'album Metal on Metal e con l'esplosione dell'hair-metal (anche se il loro genere è più vicino al trash), non è mai riuscita ad avere alcun million-seller tra i suoi album (tutti riportanti in copertina la trashissima incudine, nome e simbolo del combo).

Il nucleo del gruppo è formato da Steve "Lips" Kudlow, chitarrista e cantante, e Robb Reiner, batterista. I due si conoscono da ragazzini e il film basa proprio sul loro rapporto il filo narrativo della storia. La pellicola si apre con la band che suona nell'apoteosi di un festival metal in Giappone nel 1984, vediamo Lips vestito con delle cinghie di pelle nera unite al centro del petto da un anello, suonare l'elettrica con un vibratore. A commentare le immagini, le parole d'elogio agli Anvil di Lemmy dei Motorhead, Slash e Lars Ulrich dei Metallica. L'azione poi si sposta nella Toronto innevata dei giorni nostri. Un furgone di catering arranca sulle strade ghiacciate. A guidarlo proprio Lips, faccia stanca e affondata in un pesante copricapo, che parlando all'operatore spiega il suo lavoro da autista di catering.

Nonostante il frontman degli Anvil si mantenga facendo un lavoro anonimo, la band, vale a dire lui e Robb, non si è mai sciolta. Suona dove capita, nei piccoli club o nei pub. La vediamo partire per un tour sconclusionato in Europa, guidata da un "manager" sui generis. E' Tiziana, un ragazza italiana dalla bestemmia facile, che svolge però l'attività per pura passione, senza ricevere da quanto si capisce, emolumenti dalla band. Tra gestori che non pagano le serate, colleghi rockstar che li guardano come una cacca di piccione sulla manica, treni persi o non presi per mancanza di prenotazione, cresce l'empatia e l'affetto per questi cinquantenni che una volta inseguivano un sogno e oggi non si sa bene cosa. Vediamo i familiari, perlopiù perplessi e negativi rispetto alla "carriera" dei loro cari, vediamo Robbie spesso silenzioso e soprattutto vediamo Lips,al contrario, parlare in continuazione, un fiume in piena letteralmente inarrestabile.

Non mancano le disavventure per registrare, pubblicare e distribuire un nuovo album (This is thirteen) con il vecchio produttore che gli scuce 12.000 dollari, e le major che, una ad una, li rimbalzano come un muro di gomma gettandoli nello sconforto più profondo, ma alla fine il sorriso da bambino felice che si allarga sul viso di Lips quando riceve la telefonata giusta, è uno dei momenti più toccanti del film.

In molti hanno paragonato The Story of Anvil a This is Spinal Tap, il film (anche quello imperdibile) di Rob Reiner che parodiava le band di heavy metal, ma beh, io non sono d'accordo. Quello era un sarcastico sfregio ad un mondo che si prendeva troppo sul serio, The Story of Anvil è più un film su due folli irriducibili che hanno la stessa speranza di farcela nel music buisness di un fienile di sopravvivere ad un tornado. Ma che nonostante questo non si fermano. E non smetteno di progettare (e di parlare, nel caso di Lips, diamine dev'essere una delle persone più logorroiche di tutti i tempi!).

Non si può non amare dei personaggi così. Non si può non provare per loro autentico affetto. Onestamente spero che il successo di critica che il progetto ha raccolto abbia rilanciato la carriera della band che tra l'altro proprio in queste settimane ha pubblicato un nuovo album, Juggernaut of Justice. Di sicuro, dopo averlo visto, anche voi come me diventerete nuovi fans dell'incudine. Garantito.


giovedì 14 luglio 2011

Misteri d'estate

Tra i tanti misteri che avvolgono queste torride giornate estive, uno in particolare tormenta le mie notti togliendomi il sonno da quando ero bambino. Fino ad oggi nessuno ha saputo darmi una spiegazione plausibile. Per quale diamine di ragione nei cartoni da cinquanta ghiaccioli del bar, a fronte di una quantità proporzionata di stecchi ai gusti di menta, cola, limone, fragola, arancia (mai trovata una sola persona che gradisse questo gusto, giuro!) ce ne siano solo, quando va bene, due all'anice?!?


Noi che apprezziamo questa delizia siamo abituati ormai a rispondere con rassegnazione alla fatidica domanda: - a che gusto lo vuole? , già pronti al ghigno beffardo del barista che sottolinerà un laconico ed insofferente : - non ne ho più.


Siamo stanchi di dover subire da tempi immemori questa umiliazione, stufi di ripiegare sul gusto menta. Chiediamo che il governo del Paese se ne faccia carico. Chiediamo che venga istituito un sottosegretariato ai gelati,ghiaccioli e coppe del nonno(che intanto sarebbe molto più serio dei tanti regalati come premio fedeltà) per dirimere subito la questione. Stavolta non ci fermeremo. Tutti uniti al grido no anise no peace!


Anticipazioni

Sono state svelate copertine e trackist dei nuovi lavori di Hank III. E' anche possibile ascoltare in streaming due brani da uno dei nuovi album, 3 Bar Ranch Cattle Callin. Ho messo tutto sull'apposito forum.

mercoledì 13 luglio 2011

“Mellencamp, ad Agosto c’ho le ferie!”

Agatha Christie avrebbe detto che tre indizi fanno una prova. Mentre con pochi amici dibattevamo riguardo la mezza delusione del concerto di Mellecamp ("è lui che è stronzo" no, è colpa dei tempi imposti dall'organizzazione"), sono arrivati, nell'ordine, la seconda data del mini tour a Roma, dove il nostro è riuscito a fare peggio che a Vigevano suonando settanta minuti dopo aver regolarmente proiettato il suo film e l'annullamento senza spiegazioni della terza serata a Udine.



E così credo proprio si concluda per sempre l'infelice esperienza del coguaro nel bel paese. Per una volta non ho dubbi: la responsabilità è tutta sua e del suo atteggiamento da snob.






P.S. Il titolo del post riprende l'imprecazione di un anonimo spettatore romano, evidentemente spazientito per il ritardo sull'orario di inizio del concerto e per la proiezione del film documentario.

lunedì 11 luglio 2011

Vigevano, Indiana

Non c'è stato il liberatorio cumshot a sugellare la fine dell'interminabile attesa per la prima dal vivo di Mellencamp in Italia. In molti da diverse parti d'Italia avevano convogliato su Vigevano per togliersi uno dei pochi sfizi che mancavano all'italico appassionato di rock USA classico (americana, se vi va), ma alla fine se ne sono andati con un saldo di luci ed ombre.


Tutto sbagliato a mio avviso il programma che l'ex coguaro ha preparato per la serata. Con un orario di inizio show previsto alle 20:30 la band è salita sul palco che erano quasi le 22:30. Ad attenderla un pubblico giustamente spazientito ed indispettito. Prima del concerto è stato proiettato It's about you, un documentario sulla realizzazione di No better than this (i cui particolari potete leggere nella recensione), che,nonostante il pippotto autocelebrativo, poteva anche essere interessante, a patto che non facesse slittare lo spettacolo di 120 minuti e che non avesse mostrato ampi stralci di un concerto di Mellencamp...a pochi minuti dall'inizio del concerto vero e proprio. Una scelta a mio avviso davvero bizzarra e controproducente.


Ad ogni modo, con i fischi ed il boato del pubblico ad accogliere il The end del film e non senza qualche ultima sistemata agli strumenti, sulle note di God's gonna cut you down di Johnny Cash, Mellencamp e la band salgono finalmente sul palco. A quel punto è difficile capire se siano più irritati loro per i fischi al documetario o il pubblico per l'attesa. Sia quel che sia, Authority song, saggiamente scelto come apertura, scioglie ogni tensione e manda in visibilio gli attempati fans.


La formazione base della band è composta da cinque elementi, tre chitarre, un contrabbasso e una piccola batteria senza cassa. A parte il pezzo d'apertura, John userà perlopiù un'acustica, lasciando le elettriche al fido Michael Wanchic e a Andy York. Al combo si aggregheranno all'uopo la straordinaria Miriam Strum al violino e Troye Kinnet alla fisa o al piano. Il risultato è un suono molto fifties, asciutto e versatile, che riesce a passare con noncuranza dal country (No one cares about me) al soul più nero (Death letter)al folk-blues (The west end). La voce del piccolo bastardo (vecchio nick di Mellencamp) è spettacolare e l'acustica della location una volta tanto dignitosa.


Scopriremo a fine show che il concerto è suddiviso in tre parti, della prima ho detto, la seconda è invece acustica ed è probabilmente la più emozionante della serata. John resta infatti da solo sullo stage e regali ai presenti (ipotizzo tre-quattromila persone nel piazzale del Castello Sforzesco di Vigevano) una Longest days memorabile, introdotta da un racconto sull'ultracentenaria grandma del singer. Poi la band torna per un attimo sul palco per una versione country-swing di Jack and Diane, quindi John si riprende la scena per una delicatissima interpretazione di Jackie Brown, una Save some time da magone, una versione unplugged di Small Town e un accenno (solo la prima strofa )di Cherry Bomb. Ecco, questa scelta di presentare i suoi classici più famosi riarrangiati o in veste scarna non l'ho condivisa. Per carità i pezzi erano suggestivi, ma se è la prima volta che suoni in un posto che ti ha atteso tipo trent'anni magari fai uno strappo alla regola del tour e non stravolgi i classici, no?


Neanche il tempo di rimuginare su questo concetto che la band al completo è di nuovo al suo posto per la terza parte dell'esibizione, quella elettrica. John E. Gee abbandona il contrabbasso e comincia a slappare il suo basso mentre Dane Clark si siede alla batteria completa e la brutalizza. Rain on the scarecrow lascia tutti stecchiti, con la sezione ritmica a sfondare lo sterno ai presenti. Non è da meno la ferocia con la quale è suonata Cramblin' down. Una doverosa Pink Houses ci accompagna all'acme di R.O.C.K. in the U.S.A. con tanto di ragazzotto (pescato chissà come tra tanti cinquanta/sessantenni) invitato sul palco ad intonare una strofa. Si è fatta mezzanotte, la band si ritira, lo stage, elettrizzato dall'ultima parte dello show, freme per i bis. Peccato che non arriveranno mai. I roadies cominciano a smontare e tra lo sconcerto generale ci si dirige un pò mestamente verso l'uscita.


Ripenso brevemente al live act e mi rendo conto che quello che non ha funzionato è stata la quasi assoluta assenza di empatia tra Mellencamp e il pubblico. Tutto è stato molto, troppo perfetto, eccessivamente pulito e professionale e forse un pò freddo, nessun fuori programma, nessuna "pazzia". E sì che la gente era davvero bendisposta. Centinaia di diversamente giovani spelacchiati ma con il codino, dalla boccia lucida bilanciata da un lungo pizzetto annodato da un elastico. Tutti eccitati al pensiero di aggiungere al loro puzzle di concerti la tessera mancante dell' uomo from Bloomington, Indiana. E invece...Invece ce ne siamo andati tutti con l'amaro in bocca, impressionati da un fugace accenno del potenziale della band ma poi abbandonati sul più bello. Come in un coito interrotto, altro che cumshot.



sabato 9 luglio 2011

Album o' the week / Roxy Music, Country life (1974)



Sarà capitato a molti, sopratutto da pischelli, di comprare un disco solo per la copertina. Beh, Country life dei Roxy Music è il capostipite di questo concetto. Forse il caso più eclatante in cui ad essere maggiormente stressate sono le diottrie rispetto ai timpani. E questo nonostante The thrill of it all; If it takes all night; All i want is you e Praire rose siano grandi pezzi. Diavolaccio d'un Brian Ferry...

venerdì 8 luglio 2011

Catalogami questo! / 14

Devo confessare che le recensioni di Jumbolo rappresentano per me una fonte inesauribile di ispirazione per questa rubrica. Di recente sul suo blog ho letto di un sottogenere chiamato drone e allora sono corso a documentarmi:

il drone metal, è un sottogenere del doom metal riconducibile alla commistione delle classiche sonorità doom con elementi di musica ambient, minimalista e noise.

Il termine "drone metal" è direttamente correlato alla tipologia di sound che caratterizza questo sottogenere, difatti, l'accezione "droning sound" (in italiano suono ronzante) o più semplicemente "drone" (ronzio, vibrazione), rende a pieno la peculiarità, certamente sperimentale ed ai limiti della musicalità, che tale stile esprime. Il termine "drone" può altresì riferirsi al Bordone, ossia, all'effetto armonico o monofonico di accompagnamento in cui una nota o un accordo sono suonati in modo continuo per buona parte o per l'intera composizione.

La paternità di questa forma musicale è da molti attribuita agli Earth, band che ha saputo unire i classici stilemi di origine "sabbatiana" alla musica ambient, benché il suo sviluppo e successo (se di successo si può parlare, visto che il drone doom resta un genere di nicchia e relativamente underground) sia generalmente ricondotto ai Sunn O))) che dal 1995 ad oggi hanno permesso l'affermarsi del genere. (...)




giovedì 7 luglio 2011

Freewheelin'

Ascoltavo Freewheeling di Bob Dylan e d'un tratto ho realizzato che quella musica lì è stata concepita ed incisa quasi cinquant'anni fa. Mezzo secolo comincia ad essere un periodo considerevole: da un punto di vista storico, sociale e culturale dal 1963 è letteralmente cambiato il mondo.



Divagavo sul fatto che ho iniziato ad ascoltare musica rock all'inizio degli ottanta. All'epoca, e ancor più nella decade precedente, al massimo si andava a recuperare roba di 15-20 anni indietro (diciamo fino a Elvis). Non avevamo un background così profondo da consentire recuperi di trenta, quaranta, cinquanta anni prima, anche perchè saremmo finiti agli anni trenta.



La musica rock era quindi,ancora un fenomeno principalmente ggiovane fatto da ggiovani per un pubblico ggiovane. Molti gruppi che oggi sono icone avevano da poco smesso di suonare (non so, i Beatles?), altri emettevano gli ultimi strilli (Led Zeppelin, Who), altri ancora avevano appena iniziato la parabola discendente dal loro acme creativo (i Clash). Non c'erano band di ultrasessantenni che facevano tour milionari (ogni riferimento a Springsteen e agli Stones è voluto)e gli unici vecchi in giro erano quelli che facevano blues o jazz, ma erano settori di nicchia.



Lo stesso si può dire valesse per "l'indotto", per tutti quei canali cioè, dove, seriamente o superficialmente, si veicolava il prodotto musica (giornali, radio,tv). Anche quello era un mondo appannaggio dei venti/trentenni; anche quello era un settore che oggi è in buona parte popolato di persone che sono regolarmente negli "anta".



Ovvio che questo si lega un pò ad una dinamica generale attenente alle varie sindromi di Peter Pan, per cui è perfettamente normale che molti quarantenni spendano una fortuna in giochi per la Xbox, quando invece i nostri genitori (io sono dei sessanta) a vent'anni avevano già prole e, osservandoli sulle foto in bianco e nero, mostravano un aria da uomini vissuti.



Ecco, boh. Non ho conclusioni da fare, è solo un concetto che ha cominciato a rotolare nella testa mentre i padiglioni auricolari erano attraversati da Talkin' World War III blues. Un pezzo di mezzo secolo fa. Incredibile.


martedì 5 luglio 2011

Marchetta sentimentale / 3

A tutti, da sempre, piacciono le classifiche dei dischi. In particolare quelle "antologiche". Lo si capisce osservando la frequenza con cui le riviste di settore le sbattono in copertina. Io non faccio differenza, solo ho imparato a distinguere chi le fa bene, con un certo metodo da chi le stila invece a cazzo utilizzandole esclusivamente come i classici specchietti per le allodole.





"Gli album fondamentali" delle decadi dai cinquanta ai novanta, pubblicate a puntate sul Mucchio Extra diversi anni fa (e poi assemblate in un volume Giunti), ad esempio, hanno dato alle mie basi musicali una bella salvata, costituendo una sorta di scuola serale su ciò che è doveroso ascoltare nella storia del rock (in senso allargato).





Bene, esce in questi giorni con il numero estivo di quella rivista trimestrale, il tanto agognato aggiornamento, i dischi fondamentali della prima decade degli anni zero. I cento prescelti sono presentati e commentati con la consueta meticolosità e tra titoli noti e (almeno per me) sconosciuti, si naviga in un mix di generi e di mainstream/indie che trovo, almeno concettualmente, perfetto. La rivista è venduta insieme al Mucchio mensile a €10.



Giuro che non mi pagano, eh!

lunedì 4 luglio 2011

I heard the marching of the drum



Siamo abituati ad artisti che vanno a ripescare la musica dei sessanta, dei settanta o degli ottanta. Si può anzi dire che la maggior parte della musica che ascoltiamo oggi affondi le sue radici proprio in quelle decadi. Quasi nessuno però, nemmeno in ambito strettamente jazzistico, osa creare musica originale spingendosi indietro fino agli anni venti. Beh, almeno fino all'avvento di Stoneking.

Questo folkloristico australiano (nome per esteso Christopher William Stoneking, cresciuto fino all'età di nove anni con suo padre tra gli aborigeni) dalla voce alla Louis Amstrong, propone un patchwork davvero suggestivo, tra blues primoridale, gospel, dixieland, una sezione fiati da cui prevalgono basso tuba e tromboni e atmosfere da club fumosi del primo dopoguerra giù a New Orleans o ad Atlantic City (cito questa città perchè proprio in questo periodo sto guardando il serial Boardwalk Empire, la cui colonna sonora ricorda molto la musica di Stoneking).

Già l'apertura con la titletrack ci porta per mano in questo imprevedibile viaggio, che ha poi le sue fermate più suggestive in Brave son of America, Housebound blues (cantato da una voce femminile che non sono riuscito ad identificare), The love me or die (in odore di calipso), I heard the marching of the drum, e nel teatrale finale di The greatest liar.

Pensavo fosse nuovo, ma disco è del 2008. Recupero consigliato.

sabato 2 luglio 2011

Album o' the week / Eminem, The Marshall Mathers LP (00)






Anche se normalmente l'hip hop non fa parte delle mie scorribande musicali, mi concedo ogni tanto delle doverose eccezioni, sopratutto quando gli artisti di questo genere riescono, con la loro trasversalità, a raggiungere un pubblico più vasto. Il secondo album di Eminem (alias Slim Shady, alias, appunto, Marshall Mathers) rientra appieno in questa casistica. Merito probabilmente di pezzi come The real Slim Shady e The way i am, ma merito sopratutto di una canzone come Stan, che non ho nessuna difficoltà a definire un capolavoro.




venerdì 1 luglio 2011

Real gone (again)




Curioso questo sequel di Cars. A memoria non ricordo di aver mai visto il seguito di un film che stravolgesse in maniera così profonda i temi dell'originale. Gli autori di Cars 2 invece l'hanno invece fatto, abbandonato in pratica quasi tutti i personaggi di contorno del primo film (nel caso del Dr. Hudson credo che la scelta sia stata fatta per rispetto al doppiatore originale nel frattempo scomparso: Paul Newman) e hanno ridotto lo spunto delle corse automobilistiche a mero contorno di una storia di spionaggio alla 007. Una scelta davvero sorprendente e spiazzante.


I protagonisti di questo nuovo capitolo sono quindi Saetta e Cricchetto (quasi più il secondo del primo...) e gli agenti segreti Finn McMissile e Holley Shiftwell, che sono dotati di ogni diavoleria teconologica che serva a portare a termine le loro missioni. Antagonista di Saetta è l'italiano Francesco Bernoulli, presuntuosa auto di formula uno. La trama vede McQueen impegnato in un campionato mondiale di velocità, mentre una misteriosa organizzazione criminale sta tramando nell'ombra del mondo delle corse per i suoi diabolici piani di conquista. Da segnalare in apertura un corto di Toy Story.



Stefano l'ha adorato, prediligendo in particolare le armi super teconogiche delle auto-agenti segreti.


Nella colonna sonora You might think dei ...ahem...Cars. Il doppiaggio originale è impreziosito dalle voci di Owen Wilson, Michael Caine, John Turturro, Joe Mantegna, Franco Nero e Vanessa Redgrave. Per noi invece Marco Messeri, Alessandro Siani, Paola Cortellesi e Sabrina Ferrilli. Vabè.




P.S. Ancora oggi, quando ne hanno l'occasione (in questo caso è la tappa italiana del campionato mondiale) gli americani ci dipingono tutti tarantella, vino e feste in piazza. Si vede che sono ancora fermi ad un'atmosfera tipo Vacanze Romane.