giovedì 30 giugno 2011

Capitani coraggiosi







La nuova Cai-Alitalia, azienda privata, nonostante sia nata con diecimila dipendenti in meno, il taglio delle tratte, la riduzione degli aeromobili, la fusione con Air One, perde esattamente quello che perdeva la vecchia Alitalia, statale e coacervo di ogni tipo di clientela. Vale a dire un milione di euro al giorno. Unico dato in controtendenza col passato, gli ottimi risultati di performance (puntualità voli).

Adesso il problema dei capitani coraggiosi, che vorrebbero disfarsi al più presto del pessimo affare, non è tanto vendere allo straniero (al nome già noto di Air France si sta aggiungendo quello di Delta Airlines) ma piuttosto quello di non svendere, per non perdere i soldi dell’investimento. Altro che patrioti. Altro che italianità (lo dico per chi ci aveva creduto, neh).
La fine dell’ex compagnia di bandiera è dunque nota. Restano solo da valutarne tempi e modi. Presto l’Italia sarà l’unico paese tra i grandi (veri o presunti) d’Europa a non avere una compagnia aerea di riferimento.

Un altro fragoroso fallimento delle politiche di sviluppo nazionali. Gliene fregasse qualcosa a qualcuno...

mercoledì 29 giugno 2011

Rust never sleeps

Io non so davvero se Shelton Hank Williams,per gli amici Hank III, sia un genio incompreso o un folle assoluto. Di certo non sta fermo un attimo. Dal 2008 ad oggi ha pubblicato cinque album. Due prevalentemente country (Damn right, rebel proud; Rebel within) e tre metal (due con gli Arson Anthem insieme a Phil Anselmo e uno con la ragione sociale degli Assjack), senza contare le numerose collaborazioni a dischi di amici e ai tributi. Senza contare che è praticamente sempre in tour.



Bene, il suo sito ufficiale ha dato qualche giorno fa la notizia che il 6 settembre uscirà il suo nuovo lavoro. E che lo stesso sarà composto da quattro cd che attraverseranno tutti gli spettri musicali e le sfumatore stilistiche care ad Hank.



Per cui, Ghost to a ghost/Guttertown sarà un doppio album country; Attention Deficit Domination è annunciato come un disco doom-metal; 3 Bar ranch cattle callin come un progetto speed-metal.

Ospiti del monumentale lavoro Tom Waits e Les Claypool.



Pazzo o genio, l'avevo detto io che una volta libero dal contratto capestro con la Curb non l'avrebbe tenuto più nessuno...



domenica 26 giugno 2011

Radici






Gang
La rossa primavera (Latlantide, 2011)









Dopo circa un mese di ascolto intensivo de La rossa primavera, ancora non ho individuato una e una sola ragione per cui ogni volta che faccio suonare questo disco le lacrime cominciano a solcarmi il viso.





Sarà perchè queste canzoni mi fanno pensare a quei ragazzi, provienenti da culture ed estrazioni diverse, che, giovanissimi, decisero di diventare partigiani Mi fanno pensare al loro coraggio, alla loro forza, ai loro sogni, ai loro ideali, alle loro speranze di un futuro migliore. Mi fanno pensare al fatto che in molti pensavano che il comunismo avrebbe fatto vivere tutti in pace ed armonia. Mi fanno pensare a quanti sono stati perseguitati, arrestati, torturati, uccisi. Magari insieme alle loro famiglie, ai loro affetti. Mi fanno pensare anche ai soldati mandati a morire nella campagna di Russia, partiti tutti da fascisti, con la testa piena di propaganda del regime e tornati (pochi) da partigiani, perchè avevano capito. Mi fa pensare che mentre loro morivano per cacciare i nazi-fascisti, noi oggi ci ritroviamo con uno come Berlusconi.





Mi fanno pensare a mio padre, classe 1933, comunista da sempre, sindacalista in un pastificio vicino Salerno già all'età di sedici anni. Una vita intera dalla parte giusta, che tutti dicevano essere quella sbagliata. Tanta amarezza e smarrimento negli ultimi vent'anni di politica. Mi fanno pensare ai viaggi verso il sud che facevamo tutti insieme, inscatolati nella R4 di famiglia, con quella cassetta di canti della resistenza che non mancava mai e che da bambino detestavo.





Mi fanno pensare alla nostra generazione, queste canzoni. Dalla resistenza ad oggi i nostri padri hanno sempre conquistato più diritti per i figli, per dare loro un futuro, una vita migliore della loro, mentre noi saremo i primi che lasceranno ai propri eredi un posto peggiore di quello che abbiamo trovato. Mi costringono a pensare a me stesso. Mi fanno fare ciò che di norma evito accuratamente, cioè un bilancio del percorso che ho fin qui fatto. A ciò che sono oggi e a ciò che pensavo di diventare.





Potere della musica, di una manciata di canzoni a volte suggestive, altre dolorose, ma sempre pregne di emozioni.





Il progetto La rossa primavera segue idealmente quelli di altri dischi (provo a dire almeno Materiale Resistente e Appunti Partigiani, senza dimenticare i lavori di Giovanna Marini) che si pongono l'obiettivo di mantenere viva la memoria della resistenza al nazi-fascismo, di cosa abbia davvero rappresentato per l'Italia quell'oscuro periodo e di chi erano, loro malgrado, i veri eroi di quegli anni tremendi. Oltre ai canti tradizionali, i Gang hanno interpretato anche brani più moderni, loro e di altri artisti, tutti rigorosamente a tema. Ma La rossa primavera è anche un disco sfaccettato, attraversato da tanti link , con i pezzi che progressivamente si incastrano, in un gioco di rimandi tra gli autori delle canzoni e i protagonisti delle stesse.





Vorrei provare a commentare le tracce che più mi hanno colpito, premettendo che l'album consta di quindici pezzi per oltre settantacinque minuti di durata, e si apre con Fischia il vento.





Fischia il vento non è Bella ciao. Bella Ciao è diventato l'inno ufficiale della resistenza, è di tutti quelli che si riconoscono nei valori fondativi della nostra Costituzione, è la canzone che, anche grazie alla versione dei Modena City Ramblers, contribuisce ad unire le generazioni che andarono sulle montagne a quelle moderne. Fischia il vento è sì un pò questo, ma è anche una più radicale scelta di campo. E' la speranza che avevano una parte dei partigiani di costruire con il comunismo un futuro migliore. Non sta a me giudicare come e perchè queste aspettative siano state disattese. Resta il fatto che ci vuole coraggio oggi, con il parlamento che ha tanti post-qualcosa, ma nessuna espressione della sinistra cosidetta radicale, ad andare a riprendere versi come "scarpe rotte e pur bisogna andare/ a conquistare la rossa primavera / dove splende il sol dell'avvenir". Premesso questo, pur non essendo ai livelli di intuizione dei Modena City Ramblers con Bella Ciao, il pezzo è splendido. Lo stile è un driving-rock con innesti folk (dei Ned Ludd, ospiti in diverse canzoni del disco). Marino intona la prima strofa con voce monocorde e perentoria, ma poi con il ritornello il pezzo si apre in modo solare e la voce del cantante dei Gang torna ad essere quella armoniosa che ricordiamo, fino al finale con la cassa a sottolineare impetuosamente i passaggi "sventolando la rossa sua bandiera / vittoriosi alfin liberi siam". Molto più sincera e commovente delle altre cover fin qui ascoltate ( Banda Bassotti, Skiantos e di nuovo MCR).





Dante Di Nanni. Prima di commentare il pezzo, vi esorterei a leggere la storia di Dante, qui brevemente descitta. Il brano che prende il nome da questo partigiano torinese nato da genitori immigrati pugliesi, è una cover degli Stormy Six che la band dei fratelli Severini propone in concerto già da tempo, al punto che è diventato praticamente un classico del loro repertorio. Il testo ripercorre in maniera onirica, molto evocativa, la vita di Dante. Come un sogno nel quale, pur essendo la realtà filtrata dalla fantasia, tutto appare molto chiaro. Il pezzo che nella versione originale era proposto in chiave psichedelica, qui viene proposto in una chiave folk semplice ma diretta, che esalta le liriche e la figura di un uomo (un ragazzo di diciannove anni) con una forza ed un coraggio tali da sembrare quasi un magnifico personaggio letterario. Un'icona.

La Brigata Garibaldi è un traditional riproposto sottoforma di marcetta, con un attacco quasi blugrass (sempre grazie al contributo dei Ned Ludd, presumo). Non conosco la versione originale, ma ritengo, visto lo stile, che non sia molto diversa da quella proposta dai Gang. Volendo dividere le melodie della resistenza in due filoni: canzoni di morte e canzoni di riscossa/orgoglio/lotta, questo pezzo fa sicuramente parte della seconda sezione. Un brano tutto sommato semplice e diretto, ma, una volta superata la barriera dello stile (non certo rock), diventa irresistibile. Anche in questo caso vi invito a fare come me. A documentarvi cioè sulle gesta della
Brigata Garibaldi, storica formazione partigiana. Nel gioco ad incastri a cui accennavo in precedenza, l'inno delle Brigate Garibaldi era proprio Fischia il vento.

Su in collina. Ecco, questo è un altro degli acme dell'album. Il brano è di Francesco Guccini (da non confendere con La collina, dal disco L'isola non trovata del 1970). E' un inedito (il cantautore tosco-emiliano non l'ha ancora incisa) che Guccini propone ultimamente dal vivo. Nasce dalla traduzione (e dall'elaborazione) di una poesia in dialetto bolognese su un episodio della resistenza. Il fatto che i Gang abbiano deciso di riprendere un pezzo che a sua volta è stato recuperato dagli anni della resistenza emiliana, dà, a mio avviso, il senso della continuità circoolare insito nella cifra stilistica dell'opera. Lo stile del testo è descrittivo. Ascoltarlo è come vedere un film o addirittura essere lì al gelo, a marciare insieme ai partigiani. Viene raccontata una vicenda drammatica (filone canzoni di morte dunque) di vita quotidiana di una brigata partigiana. Rispetto alla versione di Guccini, i Gang la interpretano attraverso un rock veloce, con un intro bluesato a conferire solennità, pathos e suggestione.

Pane, giustizia e libertà è una canzone di Massimo Priviero. E' dedicata alla straordinaria, incredibile figura di
Nuto Revelli, partigiano ex tenente degli alpini, che è delittuoso non conoscere. Il pezzo è davvero toccante. Devo confessare che non ritenevo Priviero (almeno quello che ricordavo io) capace di scrivere brani di alta scuola come questo. Una lezione di storia racchiusa in pochi minuti di musica leggera. Nuto, sempre per il gioco di rimandi a cui accennavo, è anche l'autore di Pietà l'è morta, traccia numero 13 del disco.

Quei briganti neri è un tradizionale che Marino canta accompagnato dal solo pianoforte. E' giocato sulla continua ripetizione della seconda parte di ogni strofa e sa guidare le emozioni in maniera struggente.




Festa d'Aprile è davvero una festa. Una mazurka che ridicolizza repubblichini e tedeschi. Un pezzo a suo modo divertente, uno sfregio, uno sberleffo, la risata finale che ha seppellito i nazi-fascisti.

Lascio per ultimi i pezzi dei Gang: La pianura dei sette fratelli; 4 maggio 1944 in memoria; Eurialo e Niso; Aprile. Almeno i primi tre di questo elenco sono stati più volte riproposti dalla band in dischi degli ultimi anni e pertanto è naturale per chi segue la band dei fratelli Severini storcere un pò il naso nel ritrovarseli in tracklist. E' però tale la forza di queste canzoni che basta l'attacco de La pianura dei sette fratelli (" E terra e acqua e vento, non c’era tempo per la paura") o il ritornello di 4 maggio 1944, in memoria (che è semplicemente composto dai nomi di una famiglia di sette persone sterminata durante
l'eccidio nazi-fascista di Monte Sant'Angelo (AN) nel quale furono trucidati in 63 , tra civili e partigiani), a far accantonare ogni capzioso preconcetto e prendere nuovamente atto della grandiosità di queste composizioni.






L'ho fatta lunga ed è esattamente così che l'avevo premeditata. Quello che non so invece è se sto perdendo tempo sul disco di una band che per molti non ha più niente da dire, se sto dando il giusto spazio ad un capolavoro o se, più semplicemente, queste canzoni siano arrivate a me in un momento di smarrimento emotivo e io le abbia abbracciate strette come fa il naufrago con un asse di legno in mare aperto.




Di certo so che La rossa primavera è un disco necessario. Necessario a smuovere i ricordi e magari anche le coscienze, visto il revisionismo dilagante, gli attacchi alla costituzione,le banalizzazioni storiche, i pericoli di nuovi autoritarismi, i tentativi di mettere fascisti e partigiani tutti sullo stesso piano, gli Scilipoti presenti e futuri che utilizzano ancora nei loro programmi ampi stralci del manifesto del partito fascista e i ciclici tentativi di abolire il reato di apologia di fascimo.






Ma è necessario anche a me e a quanti sanno, ma troppo facilmente dimenticano.









sabato 25 giugno 2011

Album o' the week / Black 47, Live in NYC




Un altro tuffo nella mia musica del cuore. I Black 47 sono stati qualcosa di mai visto in precedenza, unici nel loro genere e ad oggi insuperati. Formatasi al termine degli ottanta, la band, partendo da una base di provenienza composta da irish music, ha creato una contaminazione di suoni che ha coinvolto gighe, hip-hop, reggae, folk, ragamuffin, rock, sotto l'unico comun denominatore del groove più intenso.

Questo album ha celebrato i loro primi dieci anni di vita riportando un torrido concerto registrato in casa, a New York City. Le influenze ci sono tutte, basta vedere i titoli delle cover che aprono e chiudono la setlist. Three little birds di Bob Marley e Like a Rolling Stones di Dylan. In mezzo quasi tutti i loro cavalli di battaglia, Desperate, Funky ceili, James Connely, 40 Shades of blue, Maria's Wedding. A ben vedere una mancanza piuttosto grave c'è. La strepitosa Rockin' the bronx, un pezzo tra i Beastie Boys e i Chieftains che normalmente butta giù i locali.

giovedì 23 giugno 2011

"Ti spiezzo in due" vs "Hai perso!"





Le recensioni dei film tratti dai fumetti hanno delle regole del tutto diverse da quelle applicate ai film "normali". Queste pellicole si sa, sono prodotti particolari. E se si è stati appassionati di quei fumetti si cerca di capire come il regista abbia portato lo spirito delle storie dell'eroe delle strips sul grande schermo. Riguardo Iron Man 2 avevo letto che sarebbe stata ripresa la celebre saga degli anni settanta sulla caduta nella spirale dell'alcolismo di Tony Stark (la Marvel all'epoca aveva autori in gamba e nel suo piccolo faceva denuncia sociale, su Spider-Man per esempio, nello stesso periodo trattò l'argomento droghe pesanti) e quindi nutrivo una certa curiosità in merito al risultato finale. Beh, il tema è stato ridotto ad un'ubriacatura serale di Stark/Downey jr e tanti saluti all'introspezione.

Nel complesso il film non mi ha convinto. Mickey Rourke, ingaggiato per dare corpo al criminare russo che sui comics si chiamava Whiplash, è tornato ad essere monoespressivo, anzi,per essere corretti le espressioni sono due: una con lo stecchino in bocca e una senza. Senza parlare del suo contributo ai dialoghi. Roba da far tornare alla mente il leggendario Ivan Drago con il suo "ti spiezzo in due". In questo caso il tormentone è "hai perso!" detto ovviamente con inflessione russa. Gli altri comprimari, beh la Paltrow si fatica a riconoscerla tanto è imbolsita, Scarlett Joahnsson nel ruolo della Vedova Nera è semplicemente inguardabile, Samuel L Jackson non ha colpe, è nero e pelato e gli fanno fare Nick Fury, che sui comics è bianco e con i capelli tagliati a spazzola, con tutta la buona volontà è dura eh. A voler vedere si salva, e anche alla grande, Sam Rockwell nei panni di Justin Hammer, antagonista nell'industria delle armi di Tony Stark.


Alla fine del film si preannuncia la costituzione di un gruppo di super-eroi, i Vendicatori (il cui nucleo principale è formato proprio da Iron Man insieme a Capitan America e Thor), film Marvel attualmente in lavorazione.

Che dire? A volte i sequel sono meglio delle opere prime. Ma non è il caso di Iron Man 2.






Dimenticavo. Stefano ha deciso che invece gli eroi volanti in armatura sono i suoi nuovi idoli. Mi ha detto testualmente: "da oggi tengo per Iron Man".

mercoledì 22 giugno 2011

MFT, giugno 2011

ALBUM


Gang, La rossa primavera
Saxon, Call to arms
Ben Harper, Give till it's gone
Flogging Molly, Speed of darkness
Talking Heads, Remain in light
Stone King, Jungle blues
Eddie Vedder, Ukelele songs
Spandau Ballet, Parade - Live BBC 1985

Black 47, Live in New York City
Selah Sue, omonimo



VISIONI


I Soprano, quarta stagione
Boardwalk Empire

martedì 21 giugno 2011

Underground



Ecco, questo è un gran bel film per grandi e bambini. E ci voleva, dopo qualche sòla di troppo. Vedendo i trailer di Fantastic Mr. Fox al cinema un paio d'anni fa mi ero fatto l'idea di una palla mostruosa, di un noioso prodotto d'elite, di una pellicola buona per gli aristocratici del grande schermo, quelli che portano i figli a vedere solo film di una cevta qualità.

Niente di più sbagliato. Furbo, il signor Volpe (è il titolo originale del romanzo di Roald Dahl da cui è tratto il lungometraggio) è invece una storia che lascia i bambini a bocca aperta e i genitori affascinati. E' realizzata con una tecnica che ha fatto la storia del cinema (d'animazione e non), il passo uno (o stop-motion o frame-by-frame) , ma racconta in chiave modernissima l'arrogante lotta dell'uomo contro la natura e così facendo riesce a far passare un messaggio ecologista con intelligenza e divertimento.

Mr. Fox, una sorta di Lupin volpesco, ha lasciato la sua attività di ladro in seguito ad una promessa fatta alla moglie Felicity. Oggi fa il giornalista mentre lei si occupa della famiglia (Ash un figlio in crisi adolescenziale ed un nipote, Kristofferson, amante delle discipline orientali ed esperto di arti marziali). Nonostante il suo avvocato, il tasso Badger, glielo sconsigli, Fox porta la famiglia a vivere in un grande albero su una collina, esattamente al centro dei territori di tre agguerriti fattori. Questa decisione e il ritorno di Fox sulla strada del crimine provocheranno una serie di cataclismatici eventi a catena.

Lo dico raramente, ma in questo caso davvero il film andrebbe visto in originale per godere appieno dello straordinario cast di attori che hanno prestato la voce ai personaggi. George Clooney (Mr Fox), Meryl Streep (Felicity, la moglie), Bill Murray (il tasso Badger), William Dafoe (Rat, il lurido topo di fogna al soldo degli umani). E ancora Owen Wilson, Adrien Brody, Brian Cox e lo stesso regista Wes Anderson. L'ex Pulp Jarvis Cocker as Petey, contadino suonatore di banjo.


Coloratissimo e consigliatissimo.



lunedì 20 giugno 2011

Surviving. Against the odds







Saxon



Call to arms (Militia Guard Music, EMI, UDR), 2011






Non vengono elaborate aggressive strategie di mercato, non c'è alcun hype nè agguerriti comunicati stampa ad accompagnare le nuove uscite discografiche dei Saxon. A differenza di Iron Maiden, Motorhead e Judas Priest, loro compagni d'avventura e teste di ponte nella NWOBHM di oltre trent'anni fa,gli album del gruppo di Byford escono da almeno quattro lustri ad intervalli di due-tre anni uno dall'altro, nell'indifferenza pressochè assoluta del mercato.


La tradizione è pienamente rispettata per Call to arms, lavoro numero diciannove del combo inglese. Il disco è comparso il 23 maggio nei negozi virtuali e l'unica promozione di cui ha goduto è quella che la band si è fatta da sè, suonandolo in tour.


Onestamente però, a 'sto giro non posso parlare di superficialità dei media o di colpevole disattenzione da parte degli addetti ai lavori.


L'album è infatti dignitoso ma francamente prescindibile. Dieci i brani, più uno, quello che dà il titolo all'opera, proposto in due versioni. Il meglio è probabilmente rappresentato da Back in 79, un mid-tempo per cui è facile prevedere fortune dal vivo, vista la sua predisposizione al sing-along e all'interlocuzione con il pubblico, aspetto che da sempre Biff predilige.


Di ciò che resta salverei Call to arms, ballata in crescendo, prevedibile ma abbastanza suggestiva, When doomsday comes (tratta dalla ost del film Hybrid Theory) e l'autobiografica (ma un pò tutto il disco è in questo senso un'orgogliosa autocelebrazione) Surviving against the odds.


Al di là della mera valutazione artistica comunque, da sentimentale quale sono, non posso che espriemere gioia davanti alla testardaggine di una band che potrebbe vivere di rendita e che invece non molla di un centimetro rimettendosi sempre in gioco, così come non posso che sorridere compiaciuto quando ascolto Byff Byford che anno dopo anno cerca sempre di lanciare il cuore, pardon la voce, oltre gli ostacoli del tempo.













domenica 19 giugno 2011

When the change was made uptown and the Big Man joined the band...





Ho fatto una ricerca per immagini su Google. Non ci sono molte foto recenti del Big Man. Le più lo ritraggono venti,trent'anni fa, statuario a fianco di Springsteen o nelle take, ufficiali o scartate, della cover di Born to run. Forse è meglio così. Ultimamente le gambe faticavano a sostenere il suo peso e spesso doveva aiutarsi con un bastone o con una sedia a rotelle. E invece per noi Clarence Clemons è l'indistruttibile gigante soul, l'unico nero in un gruppo di bianchi, la rappresentazione iconografica di una band, una leggenda, un valore aggiunto che andava molto al di là dei suoi contributi artistici.E' Tenth Avenue Freeze-Out.



Nell'incertezza delle notizie che arrivavano dagli USA non mi ero reso conto che la sua situazione clinica fosse così grave. Nonostante l'età (la mia) e l'inevitabile cinismo galoppante, il dolore è grande. R.I.P.




"When the change was made uptown
And the big man joined the band
From the coastline to the city
All the little pretties raise their hands
Im gonna sit back right easy and laugh
When scooter and the big man bust this city in half "


(10th Avenue Freeze-Out)

sabato 18 giugno 2011

Album o' the week / The Style Council, The singular adventures (1989)





Poco dopo lo scioglimento dei seminali Jam, Paul Weller mise su il progetto Style Council in duo assieme al tastierista Mick Talbot. Lo stile dei primi dischi era un pop sofisticato, con sfumature jazz, che raggiunse comunque un grande successo in Inghilterra. A seguire il gruppo si spostò più in ambito pop-soul con qualche puntata, grazie ad un intenso rapporto con le operazioni di remix dei brani, nella dance. La vita degli Style Council si consumò tutta tra l'inizio e la fine degli ottanta, quattro album e una manciata di singoli ed EP's. La raccolta di singoli che propongo è molto salomonica nel percorrere la carriera del duo e rappresenta un'opportuna introduzione al loro sound, ma la mia preferenza va agli esordi di Introducing the Stile Council (EP), Cafè bleu e Our favorite shop.

venerdì 17 giugno 2011

Catalogami questo! / 13

Visto che l'ho recentemente citato in merito a La pistola y el corazon dei Los Lobos, oggi approfondisco lo stile tejano.

Innanzittutto con il termine tejanos si indicano gli abitanti del Texas aventi origine ispanica o latino-americana, che sono circa il 35% della popolazione totale.

In ambito musicale il tejano, o tex mex, è una musica folk che nasce proprio dalla contaminazione dei popoli latini e americani nel Texas centromeridionale. Le sue origini sono radicate addirittura nella metà del 1800, quando emigranti tedeschi, polacchi e cechi introdussero la musica delle loro tradizioni (polka, walzer) all'interno della cultura messicana.



I suoi interpreti più recenti, che hanno commercializzato con successo il genere, rispondono ai nomi di La mafia, Selena, Jay Perez, Jennifer Pena. Mentre i Texas Tornados rappresentano bene la componente americana del genere, più rock'n'roll oriented.



mercoledì 15 giugno 2011

Relationship's dummies

Nonostante negli ultimi anni abbia fatto passi da gigante, i rapporti interpersonali continuano ad a non essere, per usare un eufemismo, il mio punto di forza. E dico in generale, eh, sfera familiare inclusa. A volta ho la sensazione di non azzeccarla neanche per sbaglio. Di aver bisogno di un bignami, una guida pratica, essenziale, a consultazione rapida, possibilmente a prova di stupido. Non so, tipo quelle della collana "for dummies". Vabbeh.



martedì 14 giugno 2011

Hold on

Clarence Clemons, 69 anni, uno dei componenti della celebre E Street Band di Bruce Springsteen è stato colpito da un ictus nella sua casa in Floirda. Lo riferisce la rivista "Rolling Stone" secondo la quale non sarebbe ancora nota la gravità delle sue condizioni. L'ultima apparizione di Clemons al fianco del Boss risale a dicembre.




Riporto la notizia per il profondo affetto che mi lega, che lega tutti i fan storici di Springsteen, al Big Man, fratello di tante notti passate ad ascoltare in cuffia dischi clandestini registrati dal vivo in bassa fedeltà. Per il resto come ho già detto, la E Street è artisticamente morta da una decina d'anni. Hold on Clarence.

La luce nell'oscurità





Flogging Molly


Speed of darkness, 2011 (Borstal Beat Records)




Mi è venuto un mezzo coccolone quando ho sentito Don't shut 'em down, il singolo che ha anticipato il nuovo lavoro dei Flogging Molly. Dell'irish-punk che ha contraddistinto la storia della band non c'era traccia. Al suo posto un west coast punk moderno, rieccheggiante in modo pericoloso i Green Day.



Poi è arrivato l'album e mi sono ricreduto. Anzi, l'ho fatto solo in parte. Perchè Speed of darkness effettivamente continua nell'operazione iniziata con il precedente Float, nel quale chitarra elettrica/basso/batteria avevano cominciato a relegare in secondo piano banjo/violino/flauto che fino ad allora tiravano il sound degli irlandesi-californiani (si pensi a quel delirio di Drunken lullabies, canzone e album).

La band di Dave King in realtà non ha eliminato quegli strumenti, li ha solo nascosti, annacquati nella caciara elettrica,diluiti come si fa con l'acqua in un whiskey troppo forte, allo scopo farlo bere anche ai fighetti, cambiato le proporzioni del cocktail. Nell'obiettivo di allargare il proprio pubblico, diversificare.



I primi quattro brani del disco (in particolare la title track, Revolution e il già citato Don't shoot 'em down)) sono quindi per loro, gli ipotetici nuovi fans. E, al netto della premessa, non sono neanche male, intendiamoci. Ma è con The power's out, traccia numero cinque, che comincio a scaldarmi. Anzi, a dir la verità mi eccito proprio di brutto. Eccola qui la semplice grandezza che ricordavo. Un pezzo costruito sui tempi di una solenne marcia, con un giro di cornamusa che si alterna al cantato e ti spinge a maldestre esibizioni di giga irlandese. Estasi.

L'accordatura del violino cambia in Saints and sinners, è inconfondibile il mood tzigano (in chiave Gogol Bordello) del refrain. Convincente anche So sail on, la prima delle ballate del disco. In tema di pezzi lenti il meglio è sicuramente rappresentato da The cradle of human kind, per buona parte strutturata solo su voce, pianoforte e violino, anche se la ballata country a due voci A prayer for me in silence, con le sue suggestioni da grandi spazi verdi, si difende bene.

Superate le diffidenze iniziali, alla fine il giudizio complessivo è ampiamente positivo, al saldo, da una parte, di una manciata di pezzi superlativi (The power's out su tutti) e dall'altra di qualche concessione al mainstream. Peccato non riuscire a vederli (sarebbe stata la terza volta - qui e qui le precedenti - ) domani al rock in Idro.






lunedì 13 giugno 2011

Cera vs giacchetto







Qual'è il particolare del primo (1984) Karate kid che resiste nella memoria collettiva all'usura del tempo? Esatto, proprio quel "metti la cera, togli la cera", che negli anni è diventato addirittura un tormentone.


Ebbene, nel rifacimento dell'anno scorso, fortemente voluto da Will Smith per regalare il ruolo da protagonista al figliolo, lo sforzo più grande che gli autori hanno fatto è stato mutare quella scena che rappresentava le basi della formazione al karate, in un "metti il giacchetto, togli il giacchetto", che sostiene in pratica mezza sceneggiatura.


Per il resto che dire? Il tema dell'azione si sposta dalla California a Pechino e questo almeno ci permette qualche buono scorcio di fotografia. In più c'è Jackie Chan nel ruolo del tormentato maestro di Dre (Jaden Smith, che comincia a somigliare anche nelle espressioni in maniera impressionante al papà), per il quale è tale la simpatia che si evita di buttargli la croce addosso.


Il film è in sostanza destinato ad un pubblico di ragazzini. Infatti Stefano è stato talmente rapito dalla storia che alla fine ha tentato di sperimentare su di me qualche mossa di kung-fu. Rassicuro tutti: ne siamo usciti entrambi illesi.

domenica 12 giugno 2011

Blowin in the wind

La risposta, amico, soffia nel vento.






Ed è SI', SI',SI' e SI'.



sabato 11 giugno 2011

Album o' the week / Los Lobos, La pistola y el corazon (1988)






Nel 1988 i Los Lobos, che avevano cominciato a guadagnarsi una solida posizione di rispetto nel panorama rock americano e che addirittura erano balzati all'attenzione mondiale grazie alla cover de La bamba per il film su Ritchie Valens, decisero di approfondire la parte della loro musica attenente le tradizioni messicane. Così, dopo il lontano esordio in castigliano e dopo aver inserito alcune autentiche perle nei loro dischi precedenti (mi limito a citare Prenda del alma - italianizzata poi da Capossela in Ovunque proteggi - in By the light of the moon e Serenata nortena in How will the wolf survive?), decisero di comporre un intero album tributo alla musica mariachi e tejano.

Il risultato è La pistola y el corazon. Nove pezzi tra i quali spiccano la drunken song Estoy sentado aquì, La guacamaya, El gusto e il pezzo che dà titolo all'album. Un viaggio che resta affascinante anche dopo tanti anni.

giovedì 9 giugno 2011

Catalogami questo! / 12

L' hill country blues è un genere appartenente ad una regione del Mississippi chiamata Holly Springs ed è un tipo di blues costruito su pochi accordi e strutture non convenzionali della forma canzone con in genere un forte accento sul groove e sui ritmi sostenuti della melodia. Il genere ha cominciato ad avere visibilità nei primi novanta grazie ai suoi esponenti più noti, R.L. Burnside e David Junior Kimbrough.


mercoledì 8 giugno 2011

Oh no! Hanno ucciso Garfield!




Cerco di sfruttare ogni occasione per portare Stefano al cinema. Dal canto suo, lui ci viene sempre con entusiasmo e a me piace l'idea di trasmettergli questa passione. Tra l'altro negli ultimi tempi sta cominciando ad apprezzare maggiormente i film "in carne ed ossa", come li chiama lui, e le storie nella loro completezza, tenendo botta anche sulla lunga durata. Di questo però parlerò più avanti, visto che ho diversi titoli visti insieme da commentare. Oggi vorrei dire del lato negativo di questa mia tendenza a portarlo al cinema anche a prescindere dalla bontà dei film proposti.



Questo Garfield per esempio è una schifezza. Hanno sviluppato una storia che sarebbe potuta venire buona per qualunque soggetto e l'hanno appiccicata addosso al simpatico gatto arancione. Peccato che il suo ruolo in questa avventura di fantascienza, con le caratteristiche del personaggio (pigrizia, egoismo e fame atavica), non c'azzecchi nulla. Ma proprio nulla eh.








Ci rifaremo con l'attesissimo seguito di Cars, in uscita a fine mese.

martedì 7 giugno 2011

Southern comfort




North Mississippi Allstars

Keys to the kingdom (IRD, 2011)




Mi capita spesso di parlare di musica che affonda le sue radici nella tradizione americana. Folk, country, blues, soul. Americana (inteso come genere), appunto. Chi sa dove vado a parare, se non ha interesse per il genere, probabilmente mi molla dopo un paio di righe del post per dedicarsi ad altro. Ecco, mi spiacerebbe se ciò avvenisse per questo disco dei North Mississippi Allstars, perchè i ragazzi hanno probabilmente realizzato il lavoro più maturo della loro già intensa carriera musicale.

La band è guidata dai fratelli Luther e Cody Dickinson, figli del noto produttore e musicista Jim, che ha lavorato tra gli altri con Dylan, Stones e Ry Cooder. E' proprio nel ricordo del padre, scomparso nel 2009, che la band ha realizzato Key to the kingdom.

Il rock-blues venato di southern e di rhythm and blues, mission prevalente della ragione sociale NMAS, è qui espresso ai suoi massimi livelli. Musica calda, sinceramente appassionata, coinvolgente, allo stesso tempo ruvida come whiskey di contrabbando e morbida come seta . Espressione del mix di tradizione e contaminazione di culture del meridione d'America al quale da europei siamo affezionati (vabbeh parlo per me).




Le tappe di questo viaggio sono l'iniziale This a'way, la delicata How i wish my train would come, l'intrepretazione di Stuck inside the mobile with the Memphis blues again di Dylan, la festosa Jellyrollin' all over heaven.


Nel mezzo, ad impreziosire ulteriormente il tutto, la voce e la chitarra di due ospiti d'eccezione. Mavis Staples nel vibrante gospel/soul Meeting e la Fender di Ry Cooder che presta il suo inconfondibile stile per Ain't no grave.


Sarà anche l'amore per luoghi troppo idealizzati che magari nemmeno esistono più nella realtà sociale americana, ma quando le roots della musica degli States è espressa a questi livelli, è difficile non rimanerne affascinati.






lunedì 6 giugno 2011

Boris, stagioni 1,2 e 3






Al termine dell'ultima puntata dell'ultima stagione (complessivamente parlando la numero 42), lo stagista Alessandro (Alessandro Tiberi) propone ad Arianna (Caterina Guzzanti), aiuto regista, un progetto: una serie semi-autobiografica sulla loro esperienza sul set. Una storia che parli del regista, degli attori,della troupe, della produzione, della rete televisiva. Lei risponde algida "a chi vuoi che interessi, è una roba da addetti ai lavori".

Ebbene, contrariamente a quanto, in maniera molto ironica, gli autori hanno fatto dire al personaggio di Arianna, la serie tv Boris (un progetto di Sky) è risultata essere una delle più apprezzate e riuscite nel panorama televisivo italiano degli ultimi tempi.

La storia si svolge sull'immaginario set de Gli occhi del cuore, una soap italiana tra le tante che impestano la televisione. Qui il lavoro viene svolto a catena di montaggio e tra tempi ristretti e atteggiamenti da star degli attori, è quasi sempre buona la prima. Il regista è Renato Ferretti, ex giovane di talento, oggi paraculo che per pigrizia e necessità si trova a dirigere prodotti da elettroencefalogramma piatto. I suoi gesti con le dita, le sue parole d'ordine (l'ormai leggendario dài, dài,dài!!!) si ripetono come mantra nei capannoni della produzione.

Nella prima stagione familiarizziamo con i personaggi, con le dinamiche da caserma (peggio, da schiavitù) del set, con le bizze di Corinna (Carolina Crescentini), protagonista femminile che per la qualità della sua recitazione è "affettuosamente" chiamata cagna da Ferretti, con gli esiti incerti dell'auditel, con il direttore di rete Diego Lopez (Antonio Catania). Nella seconda l'ingerenza della politica si fa più forte, entrano nuove star nella soap, figlia di un potente industriale una, conturbante coatta l'altra. Sopratutto c'è Corrado Guzzanti che interpreta i ruoli di uno psicopatico attore riluttante a proseguire con la soap e del suo prete-manager. Anche se in qualche momento si ha l'impressione che maramaldeggi un pò troppo, entrambi i personaggi varrebbero da soli la visione della stagione. Nella season three, irrompe la qualità. Basta soap, si fa fiction all'americana, il nuovo, ambizioso progetto è Medical Dimension. Il picco è a mio avviso nelle prime due puntate, nella quali Renè, provvisoriamente senza lavoro, decide di fare un programma per la concorrenza (leggi mediaset). Ebbene, laddove il set della rete pubblica è scalcagnato e sempre a corto di fondi, quello della concorrenza è faraonoico, mezzi all'avanguardia, produzione che pensa a tutto, dalla coca per Duccio alle escort nella stanza d'albergo. E' in questa parte che la parabola della storia d'amore tra Alessandro e Arianna ha la sua fugace traettoria, a causa di una tremenda incompatibilità politica tra i due.

Numerosi i camei spalmati nelle tre stagioni, cito almeno Giorgio Tirabassi, Laura Morante, Sergio Sorrentino, Sergio Brio e Valerio Mastandrea. Il theme d'apertura e chiusura è degli Elii.


Due, a mio avviso gli spunti vincenti della serie. Il primo è che, dietro le vicende di una troupe televisiva della Rai (non la si nomina esplicitamente, ma è chiaro che la rete a cui si fa riferimento è quella pubblica), di per sè divertenti, si torna a fare satira sociale, a mostrare l'italiano medio prepotente coi deboli e ossequioso coi forti. A fotografare cioè in modo corrosivo la borghesia italiana, analogamente a quanto facevano (anche in rai) trenta-quarant'anni fa Luciano Salce, il primo Paolo Villaggio, il miglior Alberto Sordi.

Il secondo sono i personaggi. Raramente si vede in un prodotto televisivo un gruppo di characters così riusciti (tutti!) ed incisivi. La serie è quello che si dice un lavoro corale, il protagonista dovrebbe essere Alessandro, ma spesso passa in secondo piano. Certo, Renè Ferretti (Francesco Pannofino) ha un ruolo centrale nella storia, ma il tutto non si reggerebbe senza Duccio Patanè (Ninni Bruschetta), direttore della fotografia cocainomane incallito, Stanis La Rochelle (Pietro Sermonti), il divo del cast,superlativo nel suo narcisismo; Sergio Vannucci (Alberto Di Stasio) intrallazzatissimo direttore di produzione; Nando Martellone (Massimiliano Bruno) il becero comico televisivo; Augusto Biascica (Paolo Calabresi) capo elettricista, lo strepitoso gruppo degli sceneggiatori debosciati (Sartoretti, Aprea, De Lorenzo) e via via tutti gli altri.
Ognuno di loro contribuisce con una battuta (a decine quelle memorabili, impossibile citarne solo qualcuna) con uno o più tormentoni, con il reiterarsi delle situazioni a costruire il successo del telefilm.


Nel pastone d'idee che ci propinano ormai da tempo i palinsensti di Rai e Mediaset, non è un caso che le migliori intuizioni della tv moderna (Boris come Romanzo Criminale) nascano su di una piattaforma a pagamento. Ci penso ogni volta che, da vent'anni a questa parte, pago il canone, per la miseria.

sabato 4 giugno 2011

Album o' the week / Les Negressess Vertes, Famille nombreuse (1991)



Troppo, troppo presto si è smesso di parlare dei Les Negresses Vertes. E dire che il gruppo, insieme ai Mano Negra, è stato il più influente nel creare quel melting pot di suoni e influenze(dalla musica araba, gitana, popolare francese, reggae, ska) che si è poi affermato con il nome di patchanka. Troppo presto Helno (Noel Rota, il carismatico cantante) ha buttato nel cesso la sua vita per un overdose. Senza di lui gli altri hanno continuato, ma senza incidere più di tanto.

Famille Nombreuse, secondo disco del gruppo e ultimo con Helno, resta a mio avviso la testimonianza più brillante della loro travolgente arte.
Per non dimenticare.

giovedì 2 giugno 2011

Almeno qui... / 3

La Festa della Repubblica Italiana viene celebrata il 2 giugno a ricordo della nascita della Repubblica.

Il 2 e il 3 giugno 1946 si tenne, infatti, il referendum istituzionale indetto a suffragio universale con il quale gli italiani venivano chiamati alle urne per esprimersi su quale forma di governo, monarchia o repubblica, dare al Paese, in seguito alla caduta del fascismo. Dopo 85 anni di regno, con 12.718.641 voti contro 10.718.502 l'Italia diventava repubblica e i monarchi di casa Savoia venivano esiliati.

Il 2 giugno celebra la nascita della nazione, in maniera simile al 14 luglio francese (anniversario della Presa della Bastiglia) e al 4 luglio statunitense (giorno in cui nel 1776 venne firmata la dichiarazione d'indipendenza).

In tutto il mondo le ambasciate italiane tengono un festeggiamento cui sono invitati i Capi di Stato del Paese ospitante. Da tutto il mondo arrivano al Presidente della Repubblica italiana gli auguri degli altri capi di Stato e speciali cerimonie ufficiali si tengono in Italia.

Prima della fondazione della Repubblica, la festa nazionale italiana era la prima domenica di giugno, anniversario della concessione dello Statuto Albertino.

Con la legge 5 marzo 1977, n.54, soprattutto a causa della congiuntura economica sfavorevole, la Festa della Repubblica fu spostata alla prima domenica di giugno. Solamente nel 2001 su impulso dell'allora Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, il secondo governo Amato, con la legge n. 336 del 20 novembre 2000, riportò le celebrazioni al 2 giugno che divenne nuovamente festivo .

(wikipedia)

mercoledì 1 giugno 2011

Non più sospiri




Come mai ho letto pagine e pagine di roba sui Fleet Foxes, sui Grizzly Bear e su ogni sfigato che ha messo su un gruppo con due chitarre e 4 Way Streets di CSN&Y sul comodino e non ho mai sentito celebrare a dovere i Mumford & sons? Sarà di certo colpa della mia sbadataggine, perchè gli inglesi in questione hanno pubblicato Sigh no more, il loro debutto full-lenght (dopo qualche EP di riscaldamento) alla fine del 2009.

Cosa li accomuna ai più celebrati soggetti di cui sopra? Beh, senza dubbio l'amore per il folk dei settanta, per le armonie vocali e per la melodia. Quello che li differenzia invece è una maggiore vitalità, un richiamo alla tradizione irlandese e un'abilità non comune nel piazzare degli esaltanti crescendo musicali, sempre utilizzando strumenti acustici: chitarre (tra le quali una di tipo resofonico), banjo, contrabbasso e organo. Il risultato finale è meno monocorde e di gran lunga più divertente della media di prodotti new folk che impazzano in questo periodo, almeno a mio avviso.

Sono in imbarazzo a segnalare alcuni brani privilegiandoli rispetto ad altri. L'album è davvero da ascoltare nella sua integrità, ma se proprio mi tirate per la giacca, consiglio la traccia che dà il titolo all'album, The cave, Winter winds, Roll away your stone, I gave you all, Little lion man e Awake my soul.

Da recuperare. Subito.