venerdì 25 dicembre 2015

Buone feste con Richard Cheese

The Sunny Side Of The Moon

Richard Cheese (nome d'arte di Mark Jonathan Davis) è un cabarettista americano con la passione per la musica. La sua peculiarità è che si diverte a reinterpretare con irriverenza brani metal, rock e pop vestendoli, in una durata media di un paio di minuti ciascuno, di abiti swing, croonering e lounge. Non una novità assoluta, visti i noti precedenti di Pat Boone e Paul Anka, ma la marcia in più, oltre allo stile dissacrante (e alle cover degli album...), sta anche nella scelta dei brani. 
Ascoltare un fac simile di Sinatra che canta allegramente I want to fuck you like an animal (Closer, Nine Inch Nails) o Everybody hates me now so fuck it (People = shit, Slipknot) o ancora sentirgli dedicare Rape me (Nirvana) "to all the ladies" fa un effetto decisamente straniante. 
The sunny side of the mood è una best of che raccoglie il meglio dei primi album. Rende l'idea, anche se rimangono fuori tracce meritevoli, come Welcome to the jungle dei Guns 'n' Roses (da Aperitif for destruction), Guerrilla radio dei RATM (da Lounge against the machine) oppure, sempre dei RATM, Killing in the name of che potete ascoltare di seguito.
Buone feste a tutti.



mercoledì 23 dicembre 2015

Vintage Trouble, 1 Hopeful Rd.

1 Hopeful Rd. - Vintage Trouble.png
 
 
Okay. Quando un gruppo semi sconosciuto ha la possibilità di aprire, davanti a decine di migliaia di persone, i concerti di Rolling Stones, The Who, Dave Matthews Band e AC/DC, alla mia veneranda età la prima cosa che mi viene da pensare non è "quanto sono bravi!" ma "chi li raccomanda?".
Il dubbio rimane ascoltandoli perché, stante l'autorevolezza vocale del singer e frontman Ty Taylor, l'impressione che si tratti di un prodotto accuratamente confezionato per i nostalgici di un certo tipo di suono (vintage, appunto) è penetrante e fastidioso.
Dopodiché la band si destreggia bene tra soul, classic errebì, rhythm and blues e rock 'n' blues, offrendo canzoni tanto gradevoli quanto ruffiane, buone come sottofondo in una cena tra amici (modello Il grande freddo per intenderci) ma, temo, altrettanto effimere.
Comunque un pezzo come l'opener Run like the river riesce ad essere suggestivo, così come Angel City, California trascinante,  Another man's words dolcemente introspettivo e la stonesiana Strike your light accattivante.
Un bignamino rhythm and blues figlio di questi maledetti tempi di ascolti usa e getta.

lunedì 21 dicembre 2015

Saxon, Battering ram

Saxon Battering Ram.jpg
 
Cinque dischi in otto anni. Da The inner sanctum del 2007, i Saxon non hanno mai mancato l'appuntamento biennale con una nuova release. E visto che Sacrifice era stato pubblicato nel 2013, ecco che i tempi per Battering ram erano maturi.
I fan del combo (tra i quali posso tranquillamente annoverarmi), saldamente capitanato un ottimo Biff Byford sanno già cosa aspettarsi e difficilmente verranno traditi.
Però è evidente come sia dannatamente difficile stupire quando la proposta musicale è così monotematica come quella della band britannica. Se Call to arms e il già citato Sacrifice riuscivano a tenere alta la media per la maggior parte della tracklist, arrivando addirittura a proporre un buon numero di brani che non sfigurano con il glorioso passato, qui i filler cominciano a prendersi la scena rispetto ai brani potenzialmente tramandabili ai posteri.
Questi ultimi sono riassumibili nel midtempo Queen of hearts, Stand your ground, Top of the world e la riflessiva Kingdom of the cross, che per una volta vede i Saxon occuparsi dell'aspetto meno epico delle guerre: quello dei tanti sacrifici umani lascito della prima guerra mondiale. 
In qualità di voce narrante è graditissima nel pezzo la presenza di David Bower (frontman degli Hell, band attiva dai primi ottanta ma che è riuscita ad incidere il suo primo lavoro solo nel 2011).
E comunque 'sti cazzi, il signor Byford, che tra qualche settimana compirà sessantaquattro anni, si conferma una delle poche ugole superstiti della nwobhm che ancora ci sta dentro alla grande.

giovedì 17 dicembre 2015

Girlschool, Guilty as sin


Ricordate le riot grrrl? Si trattava di un movimento che molti leggono in relazione al grunge (siamo quindi nei primi novanta) e che portò un buon numero di all female bands agli onori della cronaca grazie ad una proposta musicale aggressiva, in genere baricentrata su un suono aspro di chitarra, una semplice ma perentoria sezione ritmica basso/batteria e testi all'insegna della cazzimma. Un decennio prima, con la musica hard and heavy che aveva appena scoperto le grandi platee, era più difficile imbattersi in gruppi di fanciulle che venissero presi sul serio in un mondo che più maschile e misogino non si poteva.
Tra le poche eccezioni le Girlschool. Inglesi, grandi amiche dei Motorhead (con inusuale eleganza Lemmy ha solo lasciato intendere una relazione con la singer Enid Williams), hanno raggiunto un buon successo commerciale solo con l'album Hit and run (1981, reinciso nel 2011), ma non hanno mai smesso di incidere musica arrivando all'invidiabile cifra di una dozzina di lavori distribuiti in sette lustri.
Oggi sono in tour con un claudicante Lemmy (oltre che con i Saxon), e pubblicano Guilty as sin, un lavoro senza particolare guizzi di fantasia (e come potrebbe esserlo?), ma con tanta attitudine e una buona manciata di killer tracks, a partire dal trittico di apertura che mette subito sull'attenti l'ascoltatore più distratto (Come the revolution; Take it like a band; Guilty as sin) posizionandosi in fin dei conti non lontanissimo dai lavori delle Hole, L7 o Babes in Toyland implicitamente citate in premessa. 
Chiaramente non possono mancare i riferimenti ai Motorhead, come la punkeggiante Night before, mentre non vanno oltre un piacevole stupore iniziale  l'interpretazione di Staying alive (sì proprio quella) e il pop metal stile Kiss più bolsi Everybody loves (saturday night).
E alla faccia dei tanti macho borchiati che provano a fare il botto con gli immancabili lenti in falsetto, queste quattro cazzutissime inglesi in dodici brani non ci piazzano nemmeno una ballata, come il maestro Lemmy insegna.
Mucho respeto.

lunedì 14 dicembre 2015

Darlene Love, Introducing Darlene Love


Dopo quello di Southside Johnny, ecco un altro nuovo disco soul / rhytm and blues interpretato da una vecchia conoscenza. A dispetto del titolo (Introducing Darlene Love) infatti, Darlene (all'anagrafe di cognome fa Wright) è sulla piazza da tempo, se è vero che ha visto i natali nel 1941 e ha iniziato a pubblicare dischi nel 1963 nella squadra di soul singer alla quale si affidava Phil Spector (vista la stagione non posso non rimarcare che la trovate anche nell'imperdibile A Christmas gift for you).
La cantante (e attrice) è da tempo nei radar di Springsteen e Little Steven, ma solo oggi il bandanato chitarrista (e attore) italo-americano è riuscito nel sogno di produrle un album, contribuendo sostanziosamente attraverso il suo inconfondibile imprinting musicale e con brani propri (la trascinante apertura Among the belivers arriva dal misconosciuto capolavoro Voice of America che Miami Steve registrò insieme ai Disciples of soul nel 1983 e Last time, più o meno dello stesso periodo ma scritta per Gary U.S. Bonds) e portando regali da parte degli amici, come l'inedito springstiniano Just another lonely mile
Il risultato è un album che parla, oltre che agli appassionati di black music d'annata, a tutti i nostalgici dei primi lavori solisti di Van Zandt, del periodo soul di Springsteen (1975/77) e in generale del wall of sound della E Street Band originale con incantevoli sconfinamenti nel gospel ( l'uno-due conclusivo Marvelous e Jesus is the rock).
Con queste premesse, non potevo lasciar correre.


mercoledì 9 dicembre 2015

Alice Cooper & Motley Crue, Milano 10.11.2015 parte1/2


Non avessi comprato i biglietti a luglio, sull'onda dell'entusiasmo per un inaspettato ritorno, trovo difficile che il 10 novembre mi sarei trovato al Forum di Assago per l'ultima esibizione dei (ex) ragazzacci del rock and roll. Il tour, lo ricordo, è quello d'addio alle scene dei Motley Crue, vergato da tanto di contratto stipulato dai quattro che non solo si sono impegnati ad appendere gli abiti di scena al chiodo dopo la prossima esibizione di capodanno a Los Angeles, ma anche a non interpretare mai più, nemmeno individualmente, i pezzi dei Crue. So già cosa state pensando: "bullshit! Aspetta solo che rimangano senza contanti e ne riparliamo...". 

Tant'è. Arrivo al Forum sulle note conclusive del set del primo gruppo di supporto, i canadesi Saint Asonia, giusto in tempo per congratularmi mentalmente per la voce piena del singer e la pulizia del suono della band. Vedremo se avrò tempo e voglia di approfondire.

Il tempo di un paio di tramezzini e un'acqua naturale (vi aspettavate hot dog e birra, eh?) e le luci si spengono di nuovo per l'arrivo dell'immenso Alice Cooper. Vi dirò una cosa: quest'uomo è il vero mito vivente della serata. Si materializza all'improvviso su di una pedana al centro del palco avvolto in un mantello nero che apre con gesto teatrale e attacca Mr Nice Guy
Vi dirò un'altra cosa: in pochi, nel circo del rock, possono vantare un repertorio pari a quello di Vincent Damon Furnier. Repertorio che viene proposto in una sintesi di poco meno di un'ora che, nonostante la posizione di opener, non risparmia l'aspetto visivo, componente fondamentale degli spettacoli di Alice, decapitazione e gigantesco Frankstein inclusi. La backing band dell'autore di Welcome to my nightmare è straripante e conta addirittura tre chitarre, di cui una impugnata in maniera molto sensuale dalla brava Orianthi Panagaris
Lo show è trascinante e la gente si diverte letteralmente un mondo con i grotteschi effetti speciali, specialità della casa. L'apice dell'esibizione non può che essere Poison, il brano di Vincent più noto da queste parti, ma se volete la mia opinione sul podio vanno Ballad of Dwight Fry, Go to hell, Under my wheels e I'm eighteen
Finisce letteralmente in tripudio, con i sette-ottomila (fino a quel momento) presenti a tributare, con tutte le luci accese, il sacrosanto riconoscimento ad un'autentica icona del rock.




continua

lunedì 7 dicembre 2015

MFT, ottobre e novembre 2015

ASCOLTI

Sono uno che musicalmente si fa enormemente influenzare dai gusti delle persone che ha attorno. Mettetemi nella stessa stanza con con un melomane e nel giro di pochi giorni diventerò un irriducibile appassionato di opera lirica (per citare un genere che non sono mai riuscito ad approfondire). Per cui un mese di corso (legato ad una nuova attività lavorativa) assieme a due colleghi che non frequentavo da tempo, uno appassionato di metal melodico e l'altro di heavy classico non poteva che lasciare un segno profondo nei miei ascolti. Ne deriva che nelle ultime settimane l'airplay personale è stato molto orientato a gruppi come Toto, Harem Scarem, Riot, Lynch Mob; Girlschool e Viciuos Rumors. Per il resto proseguono gli ascolti di Gang e Teatro degli Orrori; Warren Zevon e Darlene Love; Joe Ely e Grandpa's Cough Medicine. Sulle recensioni ho accumulato un ritardo che difficilmente colmerò in tempo per la pubblicazione dei migliori dischi dell'anno. Per cui le cose sono due: o ritarderò la classifica finale o ci infilerò degli album non recensiti.

LETTURE

Anche se mi sono un pò arenato, sono sulla violentissima e realista epopea western di Corman McCarthy narrata in Meridiano di sangue.

VISIONI

Tanta, tanta roba. Ho finalmente iniziato In Treatment, poi The Walking Dead (6); Homeland (5); The leftover (2); Daredevil; Show me a hero. E infine, beh, l'ultima stagione di The Wire.

lunedì 30 novembre 2015

Lucero, All a man should do


Ecco, i Lucero riescono ad incarnare quel lato leggero ma non superficiale, tosto ma con leggerezza, del genere americana. Lo ribadiscono, qualora ce ne fosse bisogno, con quest'ultimo All a man should do, uscito a fine estate a suggellare quindici anni di carriera e una decina di dischi all'attivo.
La band del cantante chitarrista Ben Nichols, che ha probabilmente raggiunto l'apice della produzione nel 2009 con 1372 Overton Park, non riposa sugli allora e sforna un ten tracks carico di tutte le influenze che hanno fatto dei Lucero una realtà immediatamente riconoscibile nell'ampio panorama del genere trattato. 
E così ci basta Baby don't you want me, la traccia d'apertura, per rimanere intrappolati nel calore delle loro melodie e nei ganci killer dei loro refrain. Va ancora meglio con il secondo pezzo nel quale omaggiano il mondo di un grandissimo e sfortunato artista: Went looking for Warren Zevon's Los Angeles è un tributo sincero che solo un vero fan avrebbe potuto comporre, per come va a pescare con disinvoltura nei titoli del repertorio di Zevon, utilizzandoli nelle liriche del pezzo. Sicuramente uno degli highlits dell'album.
Se qualcuno, controllando la scheda della band su wikipedia, dovesse chiedersi come mai, tra gli stili indicativi del gruppo è citato anche il punk, sappia che non si tratta propriamente di un refuso. L'attitudine più aggressiva della band non si traduce in pezzi sguaiati eseguiti con la chitarra scordata, ma sicuramente nell'approccio irriverente di un brano come Can't you hear her howl o nelle liriche del country They called her killer.
I'm in love with a girl, un pezzo alla Steve Earle periodo Transcendental blues, è la title track mascherata che conduce per mano alla conclusiva My girl and me in 93, che suona come se dietro alla batteria e al piano fossero seduti MaxWeinberg e Roy Bittan.

Non è un caso se Matt Woods, nel suo splendido disco dell'anno scorso, dedicando una canzone ai Lucero abbia compiuto un'operazione che di norma si riserva ai grandi. Nichols e i suoi sodali si sono guadagnati, se non spaventosi ritorni economici, almeno quel tipo di inarrivabile rispetto.

venerdì 27 novembre 2015

Goatsnake, Black age blues


Anche se sono in giro da una ventina di anni, scopro solo ora i Goatsnake. Va bene, a mia scusante posso portare il fatto che la band, dopo la doppietta di album del 1999 e del 2000 abbia interrotto l'attività per riprenderla solo con la recente pubblicazione di questo Black age blues.
La spina dorsale del gruppo è costituita da due pezzi da novanta dell'indie che conta, il cantante Peter Stahl che, all'apice delle sue diverse esperienze è stato infatti il singer di quegli Scream nei quali ha militato anche Dave Grohl e il chitarrista Greg Anderson, altro irrequieto della musica più ostica, che ha misurato le sue capacità anche nei Sunn O))).
Non mi sarei mai imbattuto in questo disco se non avessi, negli ultimi tempi, ripreso a leggere riviste metal, e devo dire che sarebbe stato un vero peccato, perché il ritorno dei Goatsnake è autorevole e carismatico. A dispetto delle banalizzazioni utili a definire un sottogenere, il combo losangelino (nato dalle ceneri degli Obsessed) rende onore al titolo dell'album, proponendo un disco che del blues ha sicuramente le atmosfere, proposte però così come erano state rese dai primissimi album dei Black Sabbath, quelli perlappunto più impregnati della musica che ha dannato l'anima di Robert Johnson. Quindi sì, parliamo di doom della specie che prediligo, vale a dire riff cadenzati perfetti per un headbanging consapevole, come nella suggestiva opener Another river to cross.
Ma lo stile vocale di Stahl si apre ad altre suggestioni: molto nitida ad esempio è la sua similitudine con l'ugula di Ian Astbury dei Cult (provate la title track) e, come diretta conseguenza, a tratti emergono assonanze perfino con l'inconfondibile timbrica di Jim Morrison (Coffe and whiskey) che contribuisce a rompere gli argini con la psichedelia sixties.
Anche gli amanti del genere stoner possono avere il loro momento di gloria, grazie ad un'imperiosa Grandpa Jones, prima che il doom torni a reclamare lo scettro della cifra stilistica del disco con la conclusiva A Killing blues.
 
Insomma, un lavoro dove la componente retrò si coniuga alla perfezione con atmosfere profondamente sciamaniche, per un risultato impeccabile.

domenica 22 novembre 2015

giovedì 15 ottobre 2015

80 minuti di Black Sabbath, the dark years

Partendo dal presupposto che in momenti diversi, e impiegando un ampio orizzonte temporale, ho mandato a memoria tutta la produzione Black Sabbath inerente i periodi con Ozzy e R.J. Dio, a un certo punto ho realizzato che mi sarebbe piaciuto farmi un opinione anche sugli anni più oscuri e marginali della formazione, quelli in cui guidava il capriccioso estro del leader silenzioso Tony Iommi. Parliamo della discografia che va dal 1983 (Born again) al 1990 (Tyr) e, dopo un intermezzo con il ritorno di Dio dietro al microfono (Dehumanizer, 1992), dal 1994 al 1995, per un ampio frangente artistico in cui Iommi si è affidato a singer affermati, quali Ian Gillan per Born again, Glenn Hughes per Seventh star (che nasce come progetto solistico del chitarrista, per poi passare sotto lo storico monicker su richiesta dell'etichetta discografica) prima di trovare in Tony Martin un sodale più stabile con il quale realizzerà ben sei album. L'approfondimento di tutto questo materiale ha partorito la seguente playlist di quindici pezzi che si pone l'obiettivo di trarre il meglio da una manciata di opere non esattamente imprescindibili ma nemmeno (non sempre almeno) inadeguate a rappresentare lo storico brand.
 
1. Trashed
2. Zero the hero
3. Hot line
4. No stranger to love
5. Seventh star
6. The shining
7. Born to lose
8. Eternal idol
9. Headless cross
10. Devil and daughter
11. Feels good to me
12. The hand that cross the cradle
13. I witness
14. Can't get close enough
15. Rusty angels
 

lunedì 12 ottobre 2015

Chris Stapleton, Traveller

E poi arriva uno come Chris Stapleton, che alla soglia dei quarant'anni, dopo essersi affermato come songwriter di successo in ambito country (per gente del calibro di George Strait; Kenny Chesney; Tim McGraw; Brad Paisley; Sheryll Crow) e un breve periodo nella blugrass band degli SteelDrivers, decide finalmente di tenere per se una manciata di composizioni e tentare il debutto personale.

Il risultato di questa svolta si chiama Traveller, quattordici tracce per oltre un'ora di country- folk caldo, onesto, appassionato, malinconico ed evocativo.
I temi toccati dal songwriting di Stapleton si baricentrano attorno ad abbandono, solitudine, derive esistenziali, il ricorso all'alcol come unica strategia di uscita dai più insopportabili dolori dell'anima. Temi ampiamente abusati in musica e clichè ancora più diffusi nel country. Ma l'artista di Lexington, Kentucky elude senza sforzo ogni possibile trappola derivativa mettendosi a nudo come solo i grandi sanno fare.

Si comincia con la title track e siamo già conquistati. Traveller è la perfetta country song: mainstream ma senza il prefisso pop, semplice nel suo andamento ma al tempo stesso con tutte le caratteristiche per restare a lungo e divenire un evergreen. Con la successiva Fire away siamo già stilisticamente da un'altra parte, con un pezzo che si gioca la carta del pathos e del coinvolgimento viscerale, attraverso un urlo straziante che ci strappa dalle confortanti atmosfere sulle quali ci aveva cullato l'apertura, giusto per mettere in chiaro che l'ascolto dell'album non sarà un viaggio ovattato.
Le liriche del disco sono tutte composte da Chris (da solo o coadiuvato), ad eccezione di Was it 26, di Don Sampson, e Tennessee whiskey, straordinaria intuizione ripescata da repertorio di Dean Dillon e Linda Hargrove, e resa in maniera talmente convincente da divenire immediatamente una degli highlight del lavoro, complici le analogie letterarie tra donna amata e i migliori distillati, cui fa riferimento il testo (You're as smooth as Tennessee whiskey / You're as sweet as strawberry wine / You're as warm as a glass of brandy / And honey, I saty stoned on your love every time).
 
Il lato oscuro dell'album è invece rappresentato da una manciata di canzoni che poco hanno di mainstream e di commerciale e molto invece della vita border line tipica del genere outlaw, ma più in generale dell'autentica disperazione delle persone sole. Da questo punto di vista pezzi come Nobody to blame, Daddy doesn't pray anymore, Might as well get stoned e soprattutto l'accoppiata The devil named music e Sometimes I cry rendono patetico ogni nostro meccanismo difensivo a controllo delle emozioni.

Questa è la materia di cui è fatto Traveller. Un album che per semplicità potete inquadrare nel genere true country, ma che possiede nel DNA ogni gene che compone quel filamento sonoro, difficile da definire ma immediato da cogliere, che caratterizza il sud degli Stati Uniti. 
Lo ascolto ormai da mesi, e quando lo rimetto nel lettore dopo aver frastornato le mie orecchie con ogni tipo di schifezza, nel momento stesso in cui partono le prime note di Traveller mi sento come se fossi a casa.



Nella foto, insieme al cd, cameo di Golia II, detto Spartaco.

giovedì 1 ottobre 2015

MFT, settembre 2015

ASCOLTI

The Sword, High country
Lindi Ortega *, Faded gloryville
Buddy Guy, Born to play guitar
Warren Haynes, Ashes and dust
Jason Isbell, Something more than free
Chris Stapleton, Traveler
Southside Johnny, Soultime!
Motorhead, Bad magic
Bachi da Pietra, Necroide
Grandpa's Cough Medicine, 180 proof
Lucero, All a man should do
Los Texmaniacs, Americano Groove
Goatsnake, Black age blues
Buddy Guy, Born to play guitar
Los Lobos, Gates of gold
Richard Hawley, Hollow meadows
Darlene Love, Introducing Darlene Love
Dave & Phil Alvin, Lost Time
Slayer, Repentless
Lucinda Williams, Down where the spirits meets the bone
The Legendary Shack Shakers, The southern surreal
J.J. Cale, The best
Joe Ely, Panhandle ramble

*

VISIONI

Mad Men, stagione 7 - parte II
The newsroom, stagione 2
Justified, stagione 4

LETTURE

Eric Clapton, autobiografia

lunedì 28 settembre 2015

Warren Haynes featuring Railroad Earth, Ashes and dust


Lo ammetto, sono tra quelli che si è stupito dell'indirizzo folk di Ashes & dust, ultimo lavoro di quell'anima irrequieta che risponde al nome di Warren Hanyes. Accantonati gli Allman Brothers Band e, per il momento i Gov't Mule, il talentuoso chitarrista non ha pensato nemmeno per un attimo di prendersi una pausa dall'attività musicale, dando invece nuovo impulso alla carriera solista. Ora, tutti sanno che Warren è un onnivoro musicale, uno che, per dire, dal vivo con i muli passa agevolmente dai Black Sabbath a Prince e che la sua ultima produzione solista aveva un'impronta soul (Man in motion, 2011), ma, per qualche strana ragione, nessuno aveva considerato che potesse avere anche un'anima profondamente rurale.
Ci pensa lo stesso Haynes a spiegare le ragioni di questa scelta, nelle note scritte di proprio pugno all'interno del booklet del cd, dove si concentra sui primi anni della sua formazione musicale, quando era adolescente e bazzicava i locali della zona di Asheville, nella natia North Carolina, dove, perlappunto, il folk (così come il blues) era di casa. E' in questo contesto che sente per la prima volta brani quali Glory road, Coal tattoo e Stranded in self-pity, che sono tra gli highligths di questo disco.
Ma il leader dei Gov't Mule, per raccordarsi degnamente con la sua primissima fulminazione musicale, ha scelto di non fare questo viaggio da solo o accompagnato da anonimi sidemen. Ha deciso invece di condividere il processo creativo di sviluppo delle sue idee, delle sue canzoni (alcune riposte per anni in un cassetto), insieme ad una formazione strutturata e dalla storia ben radicata: i Railroad Earth (quindici anni di attività e sette album all'attivo) che, non fosse per la presenza della batteria, sarebbe a tutti gli effetti una string band.

E l'importanza dei Railroads si sente eccome, non solo perchè si dividono con Haynes i titoli sulla copertina del disco, ma in virtù della profonda impronta che lasciano sul mood dell'opera. Il violino, che marchia a fuoco Is it me or you, la traccia di apertura di Ashes & dust, diventa ad esempio l'elemento distintivo di quasi tutto l'album adagiandosi su liriche che si occupano di temi sempre attuali nelle zone più depresse degli states: disoccupazione, salari da fame, esistenze ai margini della società, relazioni difficili. La già citata Coal tattoo è in questo senso esemplificativa, stesa su un tappeto sonoro che rimanda al Mellencamp di Big daddy, la canzone di Billy Edd Wheeler sembra scritta in questi tempi di interminabile crisi economica, e non quarant'anni fa. 
Se ho citato Mellencamp e sto per citare Springsteen (New year's eve ricorda molto nell'andamento Dry lighting, da The ghost of TJ) non è perchè Ashes & dust abbia un sound che debba qualcosa ad altri, ingombranti colleghi, ma perchè la fonte alla quale ha scelto di abbeverarsi Haynes è la medesima, non solo musicalmente ma anche dal punto di vista delle storie raccontate, dalla quale hanno tratto linfa i due grandi del rock americano.

E' questa la vecchia/nuova tradizione sonora dentro alla quale si infila Ashes & dust, riuscendo ad armonizzare vecchie canzoni dimenticate insieme a struggenti composizioni inedite, come la splendida Company man, o, ancora,  inaspettate cover come Gold dust woman dei Fleetwood Mac, interpretata insieme alla singer di americana Grace Potter. La propensione jam di Warren emerge verso il finale, attraverso le note Spots of time (scritta insieme a Phil Lesh dei Grateful Dead), mentre l'impronta Gov't Mule è liberata nelle conclusive  Halleluja boulevard e Word on the wind.
L'album satura quasi per intero gli ottanta minuti consentiti dal supporto digitale ma, credetemi o no, sarà per l'umore malinconico di questi ultimi mesi, non lo accorcerei nemmeno di un minuto. Così come non rinuncerei al bonus cd contenente quattro pezzi in versione demo/acustica e uno (Hallelujah boulevard) in versione live.

L'ho fatta un pò lunga. Chiudo allora limitandomi a posizionare pleonasticamente Ashes & dust tra le assolute eccellenze del 2015 e lasciando ogni commiato direttamente alle parole del suo autore.

"All the songs here represent special memories to me, and I am very excited to have finally recorded a collection, hopefully the first in a series, of these types of songs that have been a big part of my musical spirit for my whole life."
W.H.




lunedì 21 settembre 2015

Motley Crue with Neil Strauss, The dirt



Non è certo per affinità con lo stile di vita dei componenti dei Motley Crue che dal 1983, anno di uscita di Shout at the devil, ascolto questa band. Il motivo, molto più banalmente, è che mi è sempre piaciuto il glam - metal che i quattro proponevano. Chiaramente l'eco delle gesta di Vince Neil, Nikki Sixx o Tommy Lee mi arrivavano anche in periodi molto antecedenti l'avvento delle comunità globali, ma prima di leggere The dirt non avrei mai pensato a quale livello di granitica ignoranza e di infide bassezze potessero arrivare i quattro, sia nei rapporti reciproci che in quelli con le persone che gravitano attorno alla band.
Non dico che la biografia non mi sia piaciuta, in fin dei conti è una lettura scorrevole e quando si parla di un soggetto che, tra picchi e valli di ascolto, ti accompagna da trent'anni, lo sfrucugliamento è assicurato. Però, ecco, diciamo che se non avessi mai ascoltato i Crue, aver appreso così tanto delle loro personalità non mi avrebbe incentivato ad acquistare un loro album o andare ad un loro concerto (cosa invece che farò il prossimo novembre).
 
Non tanto per la dissoluta decadenza degli anni ottanta, nei quali alcol e droghe sono stati l'unico interesse dei quattro; non per la delusione di scoprire che i primi quattro album del gruppo (Too fast for love, Shout at the devil, Theatre of pain, Girls girls girls), da me all'epoca molto apprezzati, siano stati incisi in uno stato di quasi totale incoscienza facendo ampio di ricorso a scarti, outtakes e frattaglie accumulati nel tempo; neanche per l'indifferenza ostile che ogni componente della band ha nutrito per anni nei confronti degli altri, al punto che un crue vivo, morto o in galera non faceva alcuna differenza per il resto della formazione, ma probabilmente l'elemento che più mi ha indignato è stato l'esagerata misoginia applicata nella pratica giornaliera alle groupies o alle donne in generale che gravitavano introno al circo dei Motley. Mi si dirà che si tratta di relazioni tra adulti consenzienti, ma le tante umiliazioni alle quali sono state sottoposte le diverse fanciulle in cerca di quindici minuti di gloria insieme alle rockstar di turno mi hanno provocato rigetto e disgusto.
 
Non è tutto qui The dirt, ma è chiaro che il settanta per cento (stima per difetto) di acquirenti del libro sono interessati a sbirciare da dietro il buco della serratura le evoluzioni sessuali di Vince, i dettagli della relazione tra Tommy e Pamela (non mancano, tranquilli) o per avere contezza di quanto accadeva nei camerini prima (durante) e dopo i concerti, piuttosto che per documentarsi sui processi creativi dei dischi nel periodo coperto dalla bio (dalla nascita dei singoli componenti all'uscita di New Tattoo, nel 2000).
Se è questo che cercate, tra le pagine di The dirt troverete pane per i vostri denti.
 
Io preferisco tornare ad ascoltare Dr. Feelgood cercando di concentrarmi su ciò che dovrebbe contare di più in un gruppo di artisti: la musica.

giovedì 17 settembre 2015

80 minuti di Amos Lee

"O merda...oggesù...". Fa sorridere se ci ripenso, ma ancora oggi, a dieci anni giusti di distanza, quando viene il momento di parlare di Amos Lee, mi scatta spontaneamente l'aggancio mnemonico con il titolo del thread a lui dedicato, lanciato sul nostro forum di dinosauri dall'amico Maurino, che comunicava efficacemente lo stupore derivante dal primo ascolto del debuttante artista di Philadelphia e del suo sound sospeso tra folk e soul. Ancora oggi quel debutto resta probabilmente il lavoro migliore di Lee, che però, anche nelle produzioni successive, ha comunque sempre garantito anima ed onestà, anche grazie ad una voce empatica come poche nel panorama moderno ed un approccio alle composizioni rispetto al quale il paragone con Ben Harper è ormai decisamente superato. Cinque album in dieci anni più un recente live con la Colorado Symphony Orchestra mi ha fornito materiale a sufficienza per questa playlist, che spero torni utile a ripercorrere la carriera di Amos o, perdonate la presunzione, ad aiutare qualcuno a scoprire "uno dei nostri".

1. Keep it loose, keep it tight
2. Seen it all before
3. Arms of a woman
4. Bottom of the barrel
5. Black river
6. Supply and demand
7. Sweet pea
8. Night train
9. Won't let me go
10. Truth
11. Street corner preacher
12. El camino
13. Windows are rolled down
14. Flower
15. Jesus
16. Cup of sorrow
17. Trickster, hucksters and scamps
18. Chill in the air
19. The man who wants you
20. Violin (live with the Colorado Symphony)
21. Colors (live with the Colorado Symphony)

lunedì 14 settembre 2015

Southside Johnny & The Asbury Jukes, Soultime!


Musicalmente parlando, quello della nostalgia per il passato è sicuramente uno dei temi ricorrenti del blog. E se parliamo di passato, pochi artisti appaiono demodè al pari di Southside Johnny, l'archetipo dell'outsider, dell'underdog che rimane tale, del loser che il successo l'ha sempre e solo sfiorato con la punta delle dita senza mai riuscire ad afferrarlo.
Benché il suo periodo migliore sia racchiuso negli anni dal 1976 (l'irrinunciabile I don't wanna go home) al 1981 (l'essenziale Live: Reach up and touch the sky) e alla collaborazione con Springsteen  e Little Steven, John Lyon (vero nome del musicista) è riuscito anche successivamente a scaldare i cuori dei suoi seguaci con lavori che avrebbero meritato ben altra fortuna, come ad esempio lo straripante Better days del 1991. Sempre fuori dalla luce dei riflettori, con o senza i sodali Asbury Jukes, Southside è stato costante nelle sue uscite a ritmo di una ogni due-tre anni, senza considerare i numerosi live. Per questo il lustro trascorso da Pills and ammo mi è sembrato un'eternità.
 
Soultime! giustifica però pienamente l'attesa, visto che ci consegna un artista tirato a lucido e undici episodi di una bellezza abbacinante, bagnati nell'oro liquido  dei tempi migliori. Il titolo dice tutto (ma anche no): se la partenza è infatti da cardiopalma con tre pezzi che riprendono la migliore tradizione soul della ditta di casa e una Don't waste my time che in un mondo giusto scalerebbe le classifiche dei singoli, la prosecuzione della tracklist riesce nell'impresa di non abbassare di un millimetro l'asticella della qualità complessiva, spostando orizzontalmente il mood verso un elegantissimo errebì bianco alla Style Council (Looking for a good time) e un brano che pesca a piene mani dalla blaxpotation e da un tipo come Bobby Womack (Walking on a thin line), passando per la toccante love song "adulta" Words fails me. Insomma una festa. E come ogni festa vintage che si rispetti, alla fine arrivano i lenti. E che lenti. Dal mosso con brio I'm not that loney alla ballad con bolla papale The heart always know, Johnny tira fuori il crooner che ha dentro, non lasciando scampo al nostro cuore di burro.
 
Un disco travolgente e inaspettato che celebra i sessantacinque anni di un'artista testardamente attaccato alla voglia di creare musica, nonostante il resto del mondo tenti ostinatamente di marginalizzarlo. Nella short list dei migliori dell'anno.
 

giovedì 10 settembre 2015

Low Winter Sun


Le premesse per assistere ad una grande crime story sfumata di noir c'erano tutte. Poliziotti corrotti, violenza, vite border line, lo sfondo di una città - Detroit - che si prestava come meglio non si potrebbe allo scenario raccontato.
Purtroppo qualcosa, arrivo a sostenere molto, non ha funzionato e Low Winter Sun (adattamento USA dell'omonima serie inglese) non è mai riuscita a farmi superare la sospensione dell'incredulità.
Sarà stato per i characters stereotipati, il plot traballante, la recitazione ingessata e mai empatica di Mark Strong o quella sempre sopra le righe del pur bravo Lennie James, ma la serie non ha convinto. E non mi riferisco solo ai miei gusti, visto che è stata cancellata dopo una stagione.
Un peccato, perché alcuni spunti interessanti LWS li ha anche offerti, ma il più grande errore di un prodotto che vuole essere "scomodo" è quello di apparire del tutto convenzionale nel confezionamento.
E sfortunatamente non sempre buon cast e storie torbide sono sufficienti a porre rimedio.

lunedì 7 settembre 2015

Level 42, Live at The Apollo, London (2003)


Torno a scrivere dei Level 42, una di quelle band di gioventù che ciclicamente si ripropongono nei miei ascolti. A non annoiare mai è la formula musicale del tutto peculiare della formazione di Mark King, che miscela abilmente generi apparentemente distanti tra loro come jazz, pop, disco,fusion e funk. Nel tempo, l'inconfondibile basso "slappato" del leader Mark King e le tastiere, accompagnate dall'immancabile controcanto in falsetto, di Mark Lindup hanno creato un brand che ancora oggi resta un riconoscibilissimo marchio di fabbrica.
Nel corso degli anni i Level 42 hanno sempre dato grande spazio all'attività concertistica, immancabilmente fotografata su diversi live, a partire dall'imperdibile A physical presence del 1985, registrato un attimo primo del successo planetario che sarebbe arrivato grazie a World machine e Running in the family.
Live at The Apollo, London (2003), arriva, al contrario, in un momento storico in cui la band è tornata sostanzialmente nell'anonimato e, dopo qualche anno di sospensione, si è riformata per l'attività dal vivo.
Ma non c'è spazio per la malinconia, non sono dimessi i toni che escono da questo doppio CD che ci consegna un gruppo che non ha perso l'abitudine di accompagnare le sue hits con il repertorio meno commerciale e, soprattutto, a dilatare i pezzi oltre i consueti minutaggi da pop song.
Così, con l'esclusione della pessima Heaven in my hands posta in apertura, c'è di che celebrare la perizia tecnica e il mood creato dai cinque, grazie anche al recupero di pezzi come Love meeting love,  proveniente addirittura dalle prime incisioni del gruppo (The early tapes, appunto), che ci concede un delizioso bridge di stampo jazzistico. Suppergiù dello stesso periodo (proveniente dall'esordio ufficiale, self titled del 1981) la funky disco di Starchild in odore di Earth Wind and Fire, cantata per intero,e non potrebbe essere altrimenti, da Lindup.
Ma non si può parlare di festa senza i singoli che imposto la band e quindi, prima della canonica conclusione di Hot water, sfilano in ordine sparso Something about you, Lessons in love, Running in the family, Leaving me now e To be with you again a testimoniare che qualcuno, dagli anni ottanta, è riuscito ad uscirne vivo.

giovedì 3 settembre 2015

Orchid, Sign of the witch (EP)


Io lo chiamo effetto Audio 2. Sapete no, quel duo italiano che ha costruito le proprie fortune su una formula che copiava pedissequamente lo stile vocale e musicale di Battisti?
Certo, in quel caso si trattava di una trovata che aveva anche nell'eccezionalità dell'idea il suo punto forte, mentre per quanto concerne i Black Sabbath servirebbero le pagine gialle per citare tutte le band che li hanno presi a riferimento, soprattutto relativamente all'era Ozzy Osbourne. 
Gli Orchid (from San Francisco, attivi dal 2007), ora che gli Sword hanno deviato in maniera decisa dal sound sabbatiano, sono probabilmente gli epigoni più credibili di quel pattern che, a detta di molti, nel 1969 ha dato orgine all'heavy metal.
Questo Sing of the witch è un EP di quattro tracce che succede agli album Capricorn del 2011 e The mouths of madness del 2013 e già dalla cover mette in chiaro le intenzioni del combo, richiamando in maniera sfacciata la copertina del primo Greatest Hits del gruppo di Birmingham.
E' chiaro che un primo giudizio su operazioni di questa natura non può che essere critico, ma andando oltre l'aspetto più superficiale delle analisi, bisogna ammettere che non è esattamente semplice elaborare canzoni che suonino autentiche come gemme nascoste della premiata ditta Iommi/Butler/Osbourne al pari di  Helicopters, la open track, e Strange Winds, il brano conclusivo del disco. Entrambi i pezzi sono assolutamente convincenti nello spostare le lancette indietro nel tempo, ricreando un'atmosfera in bilico tra suggestioni oniriche e scenari inquietanti. 
Insomma, al netto di tutto, avercene di band derivative come gli Orchid.


lunedì 31 agosto 2015

MFT, agosto

ASCOLTI

La seconda metà di agosto è stata incredibilmente prolifica di nuove uscite discografiche, soprattutto dal punto di vista della musica hard/metal. Dentro una manciata di giorni sono state compresse le release di Lamb of God, Five Finger Death Punch, Ghost, Fear Factory, Iron Maiden, Motorhead e l'attesissimo (almeno da queste parti) nuovo lavoro dei texani The Sword.
Tutto questo proprio mentre la recente (ultima di una lunga, ricorrente serie) sbornia da rock duro sta cominciando ad abbandonarmi. Infatti da qualche giorno sono tornato prepotentemente sull'altra mia grande passione, cioè la musica root americana in tutte le sue innumerevoli interpretazioni.
Determinanti in questo senso una manciata di album che mi hanno permesso di riscoprire il fascino del blues, del country e del folk grazie a raccolte di canzoni sicuramente non rivoluzionarie ma enormemente affascinanti. I dischi di cui parlo rispondono a Warren Haynes (Ashes and dust), Buddy Guy (Born to play guitar), Chris Stapleton (Traveler) e Lindi Ortega (Faded gloryville), mentre non ho ancora trovato il momento opportuno per calarmi in Something more than free, il successore dell'incantevole Southeastern di Jason Isbell.

The Sword, High country
Vintage Trouble, 1 hopeful rd
The Strypes, Little victories
Lindi Ortega, Faded gloryville
Buddy Guy, Born to play guitar
Warren Haynes, Ashes and dust
Lamb of God, VII Sturm und drang
Jason Isbell, Something more than free
Chris Stapleton, Traveler
Five Finger Death Punch, Got your six
Southside Johnny, Soultime!
Motorhead, Bad magic
Level 42, Standing in the light
Iron Maiden, The book of souls
Gaelic Storm, Matching sweaters
Ghost, Meliora
PeeWee Moore, American outlaw

VISIONI

Per una serie di intoppi e combinazioni che non sto qui a citare, ho dovuto modificare la mia road map sulle serie tv. Ho visto le intere prime stagioni di Power, Low winter sun e Mozart in the jungle, la seconda di True detective, la terza di Justified e, finalmente, ho dato una bella scrollata a Mad Men arrivando fino alla sesta stagione.
 


LETTURE

In attesa della migliore ispirazione che mi permetta di cambiare genere letterario, sono all'ennesimo libro a tema musicale: l'autobiografia di Eric Clapton.

giovedì 27 agosto 2015

80 minuti of my favorite eighties pop songs

Sarà la nostalgia, come cantava Sandro Giacobbe (giusto per restare in topic), ma ci sono una manciata di canzoni del passato che si rifiutano di deporre le armi e di riconoscere la loro manifesta inferiorità rispetto all'evoluzione dei nostri gusti musicali costruita nel tempo. Sono pezzi che, ancora oggi, se intercettati alla radio ci fanno sorridere sornioni e alzare il volume, avvolgendoci in una piacevole malinconia.
Grandi artisti, gente che ha ballato una sola estate, perdenti, personaggi costruiti a tavolino dall'industria musicale: poco importa. Quella canzone, per un complicato intrecciarsi di elementi irrazionali, ha creato danni permanenti al nostro delicato sistema cerebrale.
Qualcuno li chiamerebbe guilty pleasures, stavolta la definizione non mi convince appieno.

1. Spandau Ballet, I'll fly for you
2. George Michael, Faith
3. Duran Duran, Skin trade
4. Frankie Goes To Hollywood, The power of love
5. Soft Cell, Tainted love 
6. Tiffany, I think we're alone now
7. Propaganda, Duel
8. Mr. Mister, Broken wings
9. Madonna, Live to tell
10. Toto, Stranger in town
11. Gino Vannelli, Black Cars
12. Rick Astley, When I fall in love
13. Jermaine Jackson & Pia Zadora, When the rain begins to fall
14. ABC, When Smokey sings
15. Richard Marx, Right here waiting
16. Level 42, Lessons in love
17. Cameo, Word up!
18. Cock Robin, The promise you made
19. Murray Head, One night in Bangkok
20. Bangles, Eternal flame
21. Curiosity killed the cat, Misfit
22. Jim Diamond, I should have known better
23. David Bowie, Loving the alien
24. Nikka Costa, On my own


lunedì 24 agosto 2015

Carol King, Tapestry (1971)

Un disco folk dotato di un potente allure soul. Questo è sempre stato per me, Tapestry di Carol King. E non solo per la scelta della cantautrice di reimpossessarsi di successi composti insieme all'ex marito Gerry Goffin nei sessanta, e divenuti presto classici soul senza tempo come Will you love me tomorrow delle Shirelles o (You make me feel) Like a natural woman sublimata da Aretha Franklin, ma proprio per il mood che avvolge l'album, a partire da I feel the earth move, deputato ad aprire questa meravigliosa raccolta di canzoni con una prepotente dimostrazione di come, quando si è accarezzati dalla migliore ispirazione, si può toccare le corde più profonde dell'ascoltatore senza tanti fronzoli o arrangiamenti fragorosi.
 
Il capolavoro indiscusso della King nasce dopo il divorzio (sia artistico che affettivo) da Gerry Goffin, con il quale si era fatta un nome componendo perlopiù per altri artisti, e a seguito del suo trasferimento in California, a Lauren Canyon, dove entra in contatto con James Taylor e Joni Mitchell, vale a dire il meglio del west coast folk degli appena nati anni settanta.
Della sinergia che si viene a creare tra questo gruppo di musicisti ne beneficeranno tutti i soggetti coinvolti, non ultimo Taylor che si innamorerà di You've got a friend, una delle tante gemme di questo lavoro, al punto da reinciderla e ottenere uno dei suoi più grandi successi di sempre.
Ma tutta la tracklist di Tapestry si può definire con l'ossimoro di greatest hits di inediti, non potendo prescindere il recensore dall'ignorare nessuna delle dodici tracce (quattordici nell'edizione in cd) presenti in scaletta, ognuna delle quali abbaglia di luce propria, come So far away, It's too late o Where you lead (utilizzata nel serial Gilmore girls - Una mamma per amica).
 
Alla fine, le parole meglio spese riguardo a Tapestry non sono quelle contenute in una delle innumerevoli recensioni che dal 1971 hanno avuto come soggetto l'album, ma quelle che accompagnano il semplice invito ad utilizzare il disco come infallibile soul healer.
 

giovedì 20 agosto 2015

Lita Ford, Live & deadly (2014)

 
Non è elegante indicare l'età di una signora, e allora mi limiterò a ricordare che Lita Rossana Ford ha inciso il suo primo album con le Runaways a diciotto anni, nel 1976.
Discreta cantante e ottima chitarrista, la Ford viene aggregata a questa all female band costruita a tavolino, riuscendo a farsi notare nell'ambiente quel tanto necessario a permetterle (dopo quattro album) di lanciarsi in una carriera solista che le regalerà poche soddisfazioni commerciali ma una buona visibilità nell'ambito del metal melodico.
Insomma, con tutto il dovuto rispetto, non certo una artista imprescindibile. Una però che ci ha sempre messo onestà e anima, riuscendo, nel tremendo mondo del music biz americano, a costruire rapporti solidi e duratori con i colleghi artisti.
Live & deadly , pur pubblicato nel 2014, testimonia in realtà un concerto registrato nel 2000 e pertanto comprende esclusivamente materiale risalente ai primi sei lavori di Lita (1983/1995), vale a dire il periodo migliore della suo percorso artistico, successivamente al quale seguirà una pausa lunga quattordici anni prima di tornare ad incidere materiale nuovo.
Non possono dunque mancare tutti i suoi classici più noti (Kiss me deadly, Rock candy, Black widow, Hungry, Shot of poison), i regali degli amici Ozzy Osbourne (Close my eyes forever) e Nikki Sixx (Falling in and out of love), ma anche solide dimostrazioni di tecnica chitarristica (lo strumentale The ripper).
 
Inguaribili nostalgici e aficionados del metal più educato sicuramente apprezzeranno.

lunedì 17 agosto 2015

Justified, stagioni 1 e 2

 
La mia passione per il sud degli Stati Uniti è prevalentemente legata alla musica di quelle parti: blues, folk, country, tejano, blugrass, anche se, con il tempo, e anche grazie ad uno storico viaggio coast to coast nel quale ho attraversato in macchina Tennesse, Mississippi, Arkansas, Oklahoma, Texas, New Mexico, Arizona, Nevada e California, ho cominciato a subire il fascino di quella gente e quei luoghi, nonostante l'orientamento politico che lì va per la maggiore sia quello di destra tendente al reazionario e malgrado il viscerale legame con le armi da fuoco.
Ecco, chiunque, come me, provi questo tipo di attrazione verso quelle parti non può assolutamente perdersi Justified, serie trasmessa dal canale americano FX dal 2010 e ispirata ad una serie di racconti di Elmore Leonard.
Volendo fermarsi alla superficie, si tratta di una buona produzione genere crime, una di quelle in cui, tra alterne fortune dei protagonisti, il lieto fine è garantito e i buoni trionfano sempre. Per tracciare una linea di confine: non siamo dunque dalle parti di True detectiveThe Wire o The Shield.
 
Quello che fa amare la serie, oltre ai dialoghi che alternano sapientemente ironia e smargiassate da vecchio west, i plot semplici ma avvincenti e un cast azzeccato, nel quale spicca il protagonista Timothy Oliphant (così handsome & cool nel suo ruolo da US Marshall da provocare attacchi incontrollati di invidia maschile) ma emerge anche un Walton Goggins misurato e spettacolare, è l'ambientazione della storia: le montagne Appalachi, la città di Lexington e la contea di Harlan, nel Kentucky dove, tra miniere di carbone, povertà, fucili, razzismo e delinquenza assortita, le famiglie (i Givens, i Crowder, i Bennett) si fanno la guerra da generazioni, attraverso faide spesso sanguinose e interminabili.
 
Insomma, un poliziesco al tempo stesso classico e atipico, con una spiccata personalità che lo fa emergere dalle tante produzioni americane di analogo tenore.
Sono felice di avere ancora (almeno) quattro stagioni davanti a me.

giovedì 13 agosto 2015

80 minuti di The Strokes

Ero convinto di essermi già occupato degli Strokes nell'ambito di questa rubrichetta e invece mi sbagliavo. Rimedio oggi con un bel twenty tracks che ripercorre cronologicamente la discografia della band newyorkese attualmente in tour in Europa. La parte del leone, con sei pezzi sugli undici complessivi della tracklist, non può che farla This is it, album che nel 2001 ha letteralmente spaccato e che è indicato unanimemente come tra i più importanti del primo decennio del nuovo secolo.
A quel disco ne sono seguiti altri quattro (oltre agli immancabili progetti solisti del frontman Julian Casablancas e del chitarrista Albert Hammond jr - sì, figlio di quel Albert Hammond - ) che non sono mai riusciti a ripetere la magia del primo.

1. The modern age
2. Someday
3. Last nite
4. Hard to explain
5. New York City cops
6. Take it or leave it
7. Reptilia
8. 12:51
9. Under control
10. The end has no end
11. I can't win
12. You only live once
13. Juicebox
14. Heart in a cage
15. Under cover of darkness
16. You're so right
17. Taken for a fool
18. All the time
19. One way trigger
20. All the time

lunedì 10 agosto 2015

Motley Crue, Motley Crue (1994)


Nel 1994 il glam-metal era molto e sepolto. Nuove forme di musica dura avevano preso il suo posto nel cuore degli appassionati, il trend imperante era la contaminazione e persino il cosidetto grunge aveva esaurito la sua spinta propulsiva. In questo contesto musicale i Motley Crue erano esageratamente fuori posto. Sembrava passato un secolo dal successo travolgente di Dr Feelgood e dall'interminabile tour mondiale che ne era seguito, ma in realtà erano trascorsi solo pochi anni. Anni nel quali la band era contemporaneamente al massimo della creatività, al minimo della tossicodipendenza e allo stremo delle forze. L'acrimonia e i rancori accumulati nel tempo soprattutto dal duo Sixx-Lee nei confronti del singer Vince Neil erano deflagrati quando il biondo singer si era dimostrato poco interessato alle registrazioni del nuovo album disertando ripetutamente la sala registrazione. Questo comportamento, che di norma era tollerato vista la poca professionalità complessiva dei membri della band, improvvisamente diventa motivo di licenziamento in tronco di Neil. La ricerca di un nuovo frontman si ferma quando viene intercettato John Corabi, cantante degli emergenti Scream, che si erano fatti notare grazie al loro debutto Let it scream.

Con l'entusiasmo del novellino Corabi e la ritrovata voglia di lavorare duro del resto dei Crue, la rinnovata line-up dà vita a quello che risulterà essere l'album più atipico dell'intera discografia della formazione e al tempo stesso il migliore dal punto di vista della convinzione, della compattezza e dell'impegno profuso da tutti.
Se qualche critico dell'epoca, pigramente, aveva definito il disco grunge, non è perché l'album necessariamente lo fosse, ma perché il mood della canzoni va a pescare nello stesso bacino in cui gettavano le lenze Alice in Chains o Soundgarden, cioè l'hard-rock dei settanta. In particolar modo nella matrice blues che stava a capo di band come i Led Zeppelin o i Bad Company, come emerge chiaramente dai riff di chitarra di Mick Mars, finalmente capaci di librarsi oltre il pesante fardello dei pattern della casa e trasformarsi in affilati rasoi sonici che fendono le composizioni.
Per non parlare dello scarto tra Corabi e Neil. Pur trattandosi di stili vocali completamente diversi (sporco il primo, acuto il secondo), basta la partenza di Power to the music per capire che i Motley Crue hanno finalmente un cantante vero che surclassa il precedente. Non solo. John infatti era anche un valido chitarrista e la formazione a due asce permetteva un'ulteriore evoluzione al sound dei Crue.
E poi i testi, che, grazie a dio, finalmente escono dagli steccati stereotipati e misogini che avevano fin qui caratterizzato i brani della band, per infilarsi in tematiche più ampie, che accarezzano il sociale e l'attualità.
Persino la durata dei pezzi è in discontinuità rispetto alla tradizione della casa. Laddove infatti la durata media delle composizioni viaggiava sui tre minuti e mezzo, qui i due terzi della tracklist viaggia tra i cinque e gli oltre sei minuti. Hooligan's holiday e Misunderstood sono i singoli chiamati a rappresentare il lavoro, ma a mio avviso Poison apples, Hammered e l'esplosiva Smoke the sky hanno qualche marcia in più.

La coesione, grande forza del disco, diventa, volendo trovargli un difetto, anche il suo punto di debolezza, mancando effettivamente quei due tre pezzi radiofonici (o appetibili da MTV) in grado di veicolarlo ai piani alti delle classifiche. Forse per questa ragione, unita all'incapacità di aprirsi una linea di credito con nuovi ascoltatori, il lavoro si è rivelato un flop colossale, che ha avuto la coda disastrosa della cancellazione del tour a supporto e, di lì a poco, del licenziamento del buon Corabi. 
Non credo che, nell'anno in cui venivano pubblicati album quali Vitalogy e Superunknow, i Motley Crue avessero comunque mezza chance di riaffermarsi. Erano come un gruppo prog che cercava di sopravvivere nel 1977, dopo l'esplosione del punk. Surclassati. 

Strano scherzo del destino per una band che fino a Girls girls girls ha avuto successo per canzoni che i membri non ricordano nemmeno di avere inciso, a causa del perenne stato di incoscienza causato dalle varie tossicodipendenze, e che viene dimenticata e umiliata quando produce il massimo sforzo per rimanere sobria e pubblicare un disco di qualità. Impareranno la lezione i Motley Crue e con il ritorno di Vince dietro il microfono registreranno uno dei peggiori dischi mai ascoltati: Generation swine.
Ma questa è un'altra storia.