lunedì 12 ottobre 2015

Chris Stapleton, Traveller

E poi arriva uno come Chris Stapleton, che alla soglia dei quarant'anni, dopo essersi affermato come songwriter di successo in ambito country (per gente del calibro di George Strait; Kenny Chesney; Tim McGraw; Brad Paisley; Sheryll Crow) e un breve periodo nella blugrass band degli SteelDrivers, decide finalmente di tenere per se una manciata di composizioni e tentare il debutto personale.

Il risultato di questa svolta si chiama Traveller, quattordici tracce per oltre un'ora di country- folk caldo, onesto, appassionato, malinconico ed evocativo.
I temi toccati dal songwriting di Stapleton si baricentrano attorno ad abbandono, solitudine, derive esistenziali, il ricorso all'alcol come unica strategia di uscita dai più insopportabili dolori dell'anima. Temi ampiamente abusati in musica e clichè ancora più diffusi nel country. Ma l'artista di Lexington, Kentucky elude senza sforzo ogni possibile trappola derivativa mettendosi a nudo come solo i grandi sanno fare.

Si comincia con la title track e siamo già conquistati. Traveller è la perfetta country song: mainstream ma senza il prefisso pop, semplice nel suo andamento ma al tempo stesso con tutte le caratteristiche per restare a lungo e divenire un evergreen. Con la successiva Fire away siamo già stilisticamente da un'altra parte, con un pezzo che si gioca la carta del pathos e del coinvolgimento viscerale, attraverso un urlo straziante che ci strappa dalle confortanti atmosfere sulle quali ci aveva cullato l'apertura, giusto per mettere in chiaro che l'ascolto dell'album non sarà un viaggio ovattato.
Le liriche del disco sono tutte composte da Chris (da solo o coadiuvato), ad eccezione di Was it 26, di Don Sampson, e Tennessee whiskey, straordinaria intuizione ripescata da repertorio di Dean Dillon e Linda Hargrove, e resa in maniera talmente convincente da divenire immediatamente una degli highlight del lavoro, complici le analogie letterarie tra donna amata e i migliori distillati, cui fa riferimento il testo (You're as smooth as Tennessee whiskey / You're as sweet as strawberry wine / You're as warm as a glass of brandy / And honey, I saty stoned on your love every time).
 
Il lato oscuro dell'album è invece rappresentato da una manciata di canzoni che poco hanno di mainstream e di commerciale e molto invece della vita border line tipica del genere outlaw, ma più in generale dell'autentica disperazione delle persone sole. Da questo punto di vista pezzi come Nobody to blame, Daddy doesn't pray anymore, Might as well get stoned e soprattutto l'accoppiata The devil named music e Sometimes I cry rendono patetico ogni nostro meccanismo difensivo a controllo delle emozioni.

Questa è la materia di cui è fatto Traveller. Un album che per semplicità potete inquadrare nel genere true country, ma che possiede nel DNA ogni gene che compone quel filamento sonoro, difficile da definire ma immediato da cogliere, che caratterizza il sud degli Stati Uniti. 
Lo ascolto ormai da mesi, e quando lo rimetto nel lettore dopo aver frastornato le mie orecchie con ogni tipo di schifezza, nel momento stesso in cui partono le prime note di Traveller mi sento come se fossi a casa.



Nella foto, insieme al cd, cameo di Golia II, detto Spartaco.

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