mercoledì 31 dicembre 2014

MFT, dicembre 2014

MUSICA

Ultimo giorno dell'anno, tempo di bilanci. Mi soffermerò più in là, nel post sui migliori dischi dell'anno, sulle ragioni che mi hanno portato ad ascoltare, nel corso del 2014, un numero di album nettamente inferiore alla media degli ultimi anni. Oggi mi limito alla consueta lista di ascolti del mese, segnalando l'interessante elenco di uscite annunciate per le prime settimane del 2015, che vedono tra gli altri: Gang, Sangue e cenere (nuovo full lenght di inediti dopo quattordici anni); Blackberry Smoke, Holding all the roses; Steve Earle, Terraplane; Waterboys, Modern blues; Decemberist, What a terrible world, what a beautiful world; Bob Dylan, Shadows of the night (composto da cover di Frank Sinatra!); Thunder, Wonder days.
Insomma dài. Ci sarà di che fremere ed appassionarsi.

Blackberry Smoke, New honky tonk bootlegs
Blackberry Smoke, The Whippoorwill
AC/DC, Rock or bust
Ben Vaughn, Road trip
Garth Brooks, Man against machine
Mariachi el Bronx, III
John Mellencamp, Plain Spoken
Pierpaolo Capovilla, Obtorto collo
Lucinda Williams, Down where the spirit meets the bone

VISIONI

Dopo la conclusione della saga Sons of Anarchy e della prima di Les Revenants ho tirato un po' il freno dei serial, accantonando la quarta di Homeland e la terza di Mad men. Mi piacerebbe recuperare e chiudere con I Soprano e The Wire, autentici masterpiece dei quali mi mancano solo le stagioni conclusive. Avrei voluto tenerle da parte ancora un po' e gustarmele nei periodi di magra, ma è troppa la preoccupazione di incappare in spoiler.

LETTURE

Grandi soddisfazioni dall'ottimo The sound of the beast, di Ian Christie che traccia la parabola dell'heavy metal dagli esordi dei sessanta ai giorni nostri.



lunedì 29 dicembre 2014

Garth Brooks, Man against machine


Stavo per tediarvi con una breve cronistoria di vita e carriera di Garth Brooks, poi per fortuna mia e vostra mi sono reso conto che l'avevo già scritta qui, perciò se vi va andate a leggerla e una volta tanto saltiamo i convenevoli. 
Diciamo soltanto che in un periodo, gli anni novanta, in cui i miei gusti erano agli antipodi rispetto al country, Brooks mi ci ha fatto avvicinare e ancora oggi che di redneck music ne ascolto invece a vagonate, resta lui l'unico artista mainstream che seguo. Attendevo dunque con una certa eccitazione il suo ritorno sulle scene, dopo il lungo esilio volontario (l'ultimo disco è del 2001) per stemperare le tensioni con il music business e godersi seconda moglie (la collega Trisha Yearwood) e figli.
Le cicatrici delle sue battaglie contro major e file sharing si prendono comunque la scena con l'apertura di Man against the machine, titolo dell'album e della prima omonima traccia, deputata ad introdurre l'opera. Brooks sceglie non a caso di ripresentarsi sulle scene attraverso un brano non country ma venato di soul bianco, corredato da un lirismo drammatico e avvalendosi di un arrangiamento che, nonostante danzi in pericoloso equilibrio con il farsesco per l'uso di campionamenti di soldati in marcia, risulta convincente.
Sono necessari invece più ascolti per convivere con la scelta dell'artista di mettere da parte i pezzi più tirati e concentrarsi sulle atmosfere maggiormente introspettive e sulle ballate, nelle quali comunque la classe superiore di Garth emerge cristallina, come in She's tired of boys (interpretata in coppia con la Yearwood), nella spettacolare Cold like that o in Mom, l'immancabile (in ambito country) dedica alla madre. Il disco va su di giri unicamente con Rodeo and Juliet, honky tonk che riporta ai bei tempi di Ropin' the wind, per poi tornare a farsi riflessivo con Cowboys forever, Send'em down the road, You wreck me o il country-blues Tacoma.
L'album, uscito a novembre,  non ha spaccato le classifiche americane come erano solito fare le precedenti produzioni di Garth Brooks, di acqua sotto i ponti, musicalmente parlando, ne è passata tanta in quasi tre lustri, ma le canzoni di Man against the machine hanno dalla loro le caratteristiche giuste per diventare dei classici moderni e l'album un buon long seller.

L'elemento più importante è che Garth sia tornato. Certo, non ha sfornato un capolavoro, ma solo una raccolta di canzoni pregiate, suonate ed interpretata con passione. E con tutta la roba usa e getta che gira a Nashville di questi tempi, va benone così. 
Speriamo solo di non dover attendere altri tredici anni per il prossimo episodio (il numero dieci) della sua discografia.

giovedì 25 dicembre 2014

I miei guilty pleasures di Natale

Quello dei dischi natalizi è un rito irrinunciabile negli Stati Uniti, dove, tradizionalmente, già settimane prima delle feste, si assiste ad una vera e propria eruzione di album a tema. Da noi la cosa è ancora considerata abbastanza kistch e solo ultimamente artisti di varia levatura (a memoria mi sovvengono Irene Grandi, Baglioni e... Valerio Scanu) hanno provato a cimentarsi con questa prova.
Devo confessare che lo sconfinato amore che nutro per la musica e il fascino un pò infantile che ancora subisco per il Natale mi ha fatto, nel tempo, apprezzare qualcuna di queste opere. Da qui l'idea di dedicare il post natalizio ad una succinta playlist di quei dischi a tema (suddivisi per genere) un pò guilty pleasures ma tutto sommato anche no.

Country
Il country è probabilmente il genere che più di ogni altro "ha dato" al fenomeno christmas records. La lista di artisti che hanno sfornato dischi natalizi è pressochè infinita, e contiene i massimi esponenti del genere (incluso Johnny Cash), gli outsiders e i cantanti più commerciali.
La mia preferenza va a Martina McBride, il cui White Christmas, uscito per la prima volta nel 1998, è stato più volte ristampato con tracks aggiuntive (l'ultima re-release è dell'anno scorso).


Soul
Phil Spector, A Christmas gift for you from Phil Spector. Grande groove nelle versioni  degli standards stagionali ad opera di Ronettes, Crystals e Darlene Love

Album A Christmas Gift For You From Philles Records cover.jpg


Boogie woogie/Rock and Roll/Big Orchestra sound
Brian Setzer, Christmas rocks! The best of collection. Eccone un altro che sul tema ha detto molto (almeno tre dischi). Questa dovrebbe comunque essere l'opera definitiva: venti tracce che sferzano i classici con la verve rockabilly che ci si aspetta da Setzer, ma anche con suite orchestrali di pezzi di musica classica, come lo Schiaccianoci, o jazz, come My favorite things.



Heavy Metal
Twisted Sister, A twisted Christmas. Non poteva mancare, in questo sunto natalizio dei miei generi di riferimento, l'hard rock. E allora sotto con l'imprevedibile lavoro della band di Dee Snider, uscito nel 2006. Irriverenza e divertimento garantiti.

E buon Natale in musica ai lettori di Bottle of Smoke.

mercoledì 24 dicembre 2014

John Mellencamp, Plain spoken


A pochi mesi dalla pubblicazione del suo primo disco dal vivo (l'eccellente Live at Town Hall) arriva nei negozi (perlopiù quelli online, purtroppo) Plain spoken, il ventesimo album di John Mellencamp. E a confermare la trance agonistica degli ultimi tempi e l'ottimo stato di ispirazione del nostro, anche questa volta si tratta di un eccellente prodotto. Ostico se vogliamo, perchè a fronte di una manciata di melodie dalla presa immediata ne contiene altre che pretendono la giusta sedimentazione, ma eccellente.
In ogni caso, dopo la recente esperienza di No better than this, album frettolosamente accantonato per poi essere incondizionatamente amato, il sottoscritto non si fa più fregare e concede al vecchio Coguaro tutto il tempo che necessita per imporre stile e pezzi nuovi. Tanto lo avete capito da tempo che non è su questo blog che dovete cercare le recensioni agli album appena usciti o addirittura che ancora devono farlo.

L'inizio di Plain spoken è perfetto nel suo presentarsi rassicurante e confortevole, al pari di una casa riscaldata da un grande camino nella quale si viene invitati dopo aver trascorso una giornata al gelo. Troubled man, Sometimes there's God e The isolation of Mister ci mostrano un Mellencamp al suo apice di scrittura e, sopratutto, di interpretazione, grazie ad una voce sempre più dolente e ferita, ma più che mai evocativa. Il pattern è quello rurale degli ultimi anni, cioè l'essenzialità fatta melodia: violini e chitarre acustiche a competere con delicatezza con il cantato.
Con The company of cowards siamo invece in presenza di un reggae sui generis che viene, come il blues dell'album Trouble no more, reinventato attraverso la strumentazione della band, che lo suona come se appartenesse non ai rasta jamaicani ma alla provincia rurale americana di inizio secolo.

Le tematiche affrontate nell'album, oltre a coinvolgere gli aspetti sociali tradizionalmente cari all'artista, si inoltrano per una volta dentro i sentimenti più intimi e personali di Mellencamp. Così Tears in vain riflette le emozioni del cantante in merito alla fine, dopo vent'anni, del matrimonio con la prima moglie, accusata velatamente ma non troppo di tradimento. Le considerazioni sui pessimi tempi che viviamo deflagrano invece rumorosamente nel New Orleans blues di Lawless time, che chiude come meglio non potrebbe il lavoro.

La critica illuminata può dire quello che vuole di John Mellencamp: che è diventato autoreferenziale, retorico, paternalistico o prevedibile, ma se vi interessa la mia opinione è esattamente in questo modo che dovrebbe invecchiare uno che al genere americana o heartland ha dato così tanto. Scavando nelle radici di quella musica, portandola a nuovi ascoltatori, traghettandola nel futuro. Facendolo peraltro attraverso composizioni inedite quasi sempre coerenti col proprio ingombrante passato, a dimostrazione che quando l'ispirazione scorre fluida non servono arrangiamenti ridondati o produzioni sofisticate per far emergere le Canzoni. 
Un esempio, una scelta di vita artistica che farebbe bene, ne sono sicuro, anche a un certo Bruce Springsteen.


lunedì 22 dicembre 2014

AC/DC, Rock or bust


Le premesse alla recensione vera e propria di un nuovo album degli AC/DC rischiano sempre di diventare la parte più corposa del pezzo. Ma come si può sorvolare sull'unicità di questo gruppo, che dal 1974 è riuscito nella solo apparentemente semplice impresa di fendere prog, disco, punk, new wave, metal, glam, grunge ed ogni altro genere e sottogenere abbia monopolizzato l'attenzione degli ultimi otto lustri di storia musicale americana, armato solo di un sound che nel tempo ha oscillato dal blues all'heavy metal e dagli inconfondibili ricami di boogie rock generati dalla Gibson di Angus Young?
Facile sostenere che suonino sempre gli stessi due-tre pezzi, se fosse così banale sopravvivere al tempo, agli acciacchi, alle sciagure e ai cali di ispirazione, riuscendo quasi sempre a fornire prodotti all'altezza della propria storia, la band di Young e Johnson oggi sarebbe in buona compagnia, invece di godersi la propria mitologica solitudine.

E comunque in Rock or bust gli AC/DC non si limitano a confezionare la "solita" manciata di canzoni trascinanti ma prevedibili (rientrano appieno in questa categoria sicuramente la title track e Play ball), ma tornano in maniera convincente alle origini con l'incipit in pieno mood jump blues di un pezzo come Baptism by fire, flirtano addirittura con Dazed and confused dei Led Zeppelin con l'ottima Rock the house, ci regalano un midtempo (sottovalutata specialità della casa) memorabile che risponde al titolo di Dogs of war. Insomma, quello che, anche per le recenti defezioni del membro fondatore nonchè fratello di Angus Malcom Young (per gravi motivi di salute) e Phil Rudd (guai grossi con la giustizia), potrebbe essere l'ultimo disco degli AC/DC si presenta senza nessuna malinconia ma con gli stessi, consueti, fuochi d'artificio sparati a cannonate nei concerti durante la festa finale di For those about to rock
Un disco che stupisce. Anche se ti dà esattamente quello che ti aspettavi.

lunedì 15 dicembre 2014

Foo Fighters, Sonic Highways


In tutta onestà, sulle prime, dopo aver letto le recensioni degli amici blogger Ale e Filo ed essendomi del tutto riconosciuto nelle loro considerazioni, mi è parso inutile sforzarmi di dire qualcosa di mio in relazione a Sonic highways dei Foo Fighters. 
Se ho successivamente cambiato idea è solo perchè mi sembrava giusto segnalare anche da queste pagine un disco tra i più importanti ed attesi dell'anno, le cui canzoni non s'impongono istantaneamente ma richiedono tempo e pazienza per emergere. 
Proprio come i veri classici.
Proprio come i Foo Fighters, che sono cresciuti esponenzialmente album dopo album, divenendo, verrebbe da dire loro malgrado, uno dei più importanti punti di riferimento della musica rock americana. A differenza di altre band però, quella di Dave Grohl appare totalmente consapevole del ruolo ereditato e nel caricarsi il pesante onere sulle spalle non perde la bussola ma compie un'operazione ambiziosa (senza apparire pretenziosa o megalomane) tracciando una traettoria che collega otto città degli states ad altrettanti storie, raccontate attraverso documentari da un'ora ciascuno diretti dallo stesso Grohl e dalle otto tracce che compongono la release.
Purtroppo al momento di scrivere sono riuscito a vedere solo tre dei documentari (sono trasmessi dalla HBO con cadenza settimanale) che accompagnano i pezzi, ma mi sembra di poter affermare che il rischio agiografia è stato elegantemente superato e che l'attenzione del regista si concentra su territori e artisti determinanti per la crescita musicale americana e su come essi abbiano influenzato se stesso e la sua band.
Tornando al disco, anche qui si percepisce un respiro più ampio, un affrancarsi dal rock più diretto e stadaiolo del passato, senza però rinunciare all'empatia e alla tradizionale, contagiosa energia  del gruppo.
Something for nothing, che apre il lavoro, in virtù di un inizio lento e della deflagrazione del ritornello solo nella parte conclusiva, coniuga efficacemente vecchi e nuovi Foo Fighters, che comunque poco più avanti si riappropriano della loro piena identità in Congregation (ospite Zac Brown), all'interno della quale fa bella mostra un break strumentale alla Deep Purple mark II. 
I miei pezzi preferiti una volta tanto sono anche quelli più lunghi, ed arrivano in coda all'album: i quasi quindici minuti di melodia e accelerazioni di Subterranean e I am a river condensano in maniera emozionante vent'anni di passione in musica, ponendo il sigillo a quello che di certo è un punto d'arrivo e ripartenza importante per una band rigorosa che ha sempre dato l'impressione di raggiungere i suoi enormi traguardi con naturalezza e senza sforzo. 
Di certo non è così, ma anche questa è una caratteristica dei grandi.


sabato 6 dicembre 2014

MFT, novembre 2014

MUSICA

Blackberry Smoke, Leave a scar: live North Carolina
Blackberry Smoke, The Whippoorwill
AC/DC, Rock or bust
Ben Vaughn, Road trip
Garth Brooks, Man against machine
Foo Fighters, Sonic highways
Deep Purple, Perfect strangers live
Angel City, Face to face
Mariachi el Bronx, III
John Mellencamp, Plain Spoken
Pierpaolo Capovilla, Obtorto collo
Taimi Nailson, Dynamite!

VISIONI

Sons of Anarchy, stagione conclusiva
Homeland, quarta
Mad Men, terza
Les Revenants, prima

LETTURE

Sound of the beast, Ian Christe



lunedì 1 dicembre 2014

Blackberry Smoke, Leave a scar: live North Carolina


Normalmente non mi piace cominciare ad approcciare band che non conosco attraverso dischi dal vivo, preferisco costruire prima una certa conoscenza dei lavori in studio per arrivare preparato al fatidico momento del live album. Quella dei Blackberry Smoke è la classica eccezione che conferma la regola. Li ho scoperti proprio grazie a questo Leave a scar: live North Carolina per poi andare all'indietro, ripercorrendo gli album che ne hanno costituito l'ossatura. 
La band nasce ad Atlanta nei primi anni zero e subito si contraddistingue per l'intensa attività concertistica. Propone un southern rock legato alla solida tradizione di quelle parti, ma ha dalla sua la capacità di tramandarlo attraverso un valido songwriting e pezzi che sembrano già nascere con il marchio dei classici. 
Dal 2004 ad oggi pubblicano tre soli album ma suonano dal vivo qualcosa come duecentocinquanta giorni l'anno, consolidando un buono zoccolo di fans, tra i quali figura anche Zac Brown. 
Era giunto dunque il momento di elaborare un documento che testimoniasse i chilometri e il pubblico accumulato in tutti questi anni e la band lo fa in grande stile, con un doppio cd (accompagnato da un dvd) da ventidue tracce, nel quale l'alchimia tra southern e country, specialità della casa, emerge in tutta la sua scintillante meridionalità.
Grande spazio è concesso all'ultimo disco pubblicato, quel The wippoorwill, con il quale il combo ha annusato per la prima volta le charts americane. A partire da Shakin' hands with the holy ghosts che apre la tracklist, passando per Six ways to sundays, One horse town, Lucky seven, Pretty little lie la più recente opera dei BBS è rappresentata nella sua sostanziale interezza. Con Son of the bourbon e Lesson in a bottle trova buono spazio anche l'EP country New honky tonk bootlegs che i cinque georgiani hanno pubblicato nel 2008 a ribadire la stretta vicinanza con l'altro genere imperante da quelle parti degli States. 
Se vogliamo identificare attinenze e differenze con la band di riferimento di ogni southern rocker che si rispetti, vale a dire i Lynyrd Skynyrd, laddove ad esempio la matrice dei pezzi è molto identificabile con quella dei fratelli Van Zant, lo è molto meno il fattore jam band che porta a dilatare i pezzi dal vivo ben oltre il consentito. In questo Leave a scar solo una traccia, Sleeping dog, lascia andare la briglia dell'improvvisazione oltre i dieci minuti di timing, per il resto è quasi tutto dentro i limiti dei quattro-cinque minuti. 

Nonostante il southern rientri solo saltuariamente tra i miei generi preferiti, devo ammettere che ho preso una bella sbandata per i Blackberry Smoke, i cui dischi resistono in buona rotazione sui miei impianti al punto che la band si candida ad essere la miglior (mia) scoperta del 2014. 
Tra l'altro, per i primi mesi del 2015 è prevista l'uscita di Holding all the roses, nuova release dei BBS prodotta da niente di meno che da Brendan O' Brien. 
Sperando che il noto produttore non condizioni troppo il sound della band, attesa e curiosità sono già a livelli adolescenziali. 
Buon segno.

lunedì 17 novembre 2014

The Gaslight Anthem, Milano 10 novembre 2014

Lunedì mi sono svegliato stanco e per niente ristorato, come del resto mi capita ogni mattina di quel giorno della settimana, e, onestamente, l'idea di uscire di casa per lavoro alle cinque e mezza e tornarci alla una per vedere il concerto dei Gaslight Anthem non mi metteva le ali ai piedi, per usare un eufemismo. Poi la giornata lavorativa è passata e mano a mano che ci si avvicinava all'ora di inizio dello spettacolo l'eccitazione del dinosauro rock ha cominciato a prevalere sulla sonnolente stanchezza strutturale che mi porto in giro da un pò. 
Quindi eccomi all'Alcatraz giusto in tempo per vedere il secondo gruppo d'apertura (il primo erano i Bayside e l'ho perso): i Deer Tick. La supporter band arriva da Providence, Rhode Island ed è attiva da sette anni e cinque album, propone un improbabile look da impiegati di banca ma compensa con un sound intrigante, sospeso tra college rock, country, rockabilly e fumi psichedelici (il pezzo conclusivo). Li accogliamo con entusiasmo e i ragazzi sembrano apprezzare. 
I Gaslight arrivano dopo una quarantina di minuti e attaccano con Stay vicious, pezzo slabbrato e acido che adoro visceralmente e che apre anche l'ultimo album Get Hurt. A seguire accendono la miccia con una versione dinamitarda di 59 sounds (nel corso del tour l'avevano proposta anche acustica) che fa letteralmente esplodere l'entusiasmo dei fan, esplicitato attraverso corposi singalong e spettacolari esibizioni di crowdsurfing (che continueranno per tutto il concerto). La scelta della band di picchiare duro ed accantonare la parte più introspettiva della propria identità appare evidente e bisogna arrivare a un terzo del concerto perchè i ritmi rallentino un pò, con l'attacco di Get hurt (altro pezzo monstre). Ma è una calma effimera, perchè i cinque riprendono subito a pestare con una Biloxi Parish dalla lunga coda strumentale che si fonde imprevedibilmente (e con mia massima goduria!) con War pigs dei Black Sabbath, proposta per le prime due strofe. 

Prima del concerto avevo addocchiato qualche setlist del tour e, vedendo che si andava dai venticinque ai trenta pezzi per serata, mi ero figurato una gig che si sarebbe protratta per almeno tre ore. In realtà, dopo che  la band ha infilato una mezza dozzina di brani nei primi quindici minuti ho realizzato che non ci sarebbe stata correlazione tra durata dello show e numero di canzoni suonate, anche per la singolare richiesta  formulata da Fallon, e approvata dal pubblico, di saltare la liturgia degli encores (i bis) e suonare tutta la setlist in un'unica soluzione, dall'inizio alla fine. 
Tornando alla cronaca del concerto, ho molto apprezzato la lunga ed avvolgente versione di Too much blood (su Handwritten) così come Selected poems e Sweet morphine, dall'ultimo (continuo a ripetere, ottimo) lavoro in studio. Il rammarico per l'orientamento punk-rock manifestato dalla band si concretizza tutto quando mi tuffo estasiato nella versione rallentata di Great expetactions, ovvero come tramutare una tirata rock  in un gioiellino vagamente fifties. Poi l'esecuzione di 45 torna a sconquassare le fondamenta dell'Alcatraz e il trittico We're getting a divorce, you keep the diner; She loves you e The backstreets chiude la serata lasciandomi con diverse luci ma anche qualche ombra, che va oltre il rammarico per la mancata esecuzione di alcuni pezzi che amo in particolare (American slang, Ain't that a shame, Film noir, Wherefore art thou, Elvis; Blue jeans and white T-shirt).

I Gaslight Anthem (nonostante una certa staticità sul palco) hanno infatti scelto rumore e monoliticità in luogo delle altre sfumature musicali che sanno sicuramente esprimere. Capisco che sia un'opzione quasi fisiologica con una formazione a tre chitarre elettriche (che non vengono cambiate mai, nemmeno durante i lenti), ma, magari anche a causa della mia età, avrei preferito si fossero aperti ad un più ampio spettro sonoro, secondo me consono alle corde del gruppo e in particolare di Brian Fallon, come ampiamente dimostrato anche nel progetto parallelo degli Horrible Crowes. Ecco, a voler trovare un difetto alla serata mi limiterei a questo elemento, comunque non sufficiente a scalfire l'affetto per la band e il sano divertimento di  vederla on stage.

lunedì 10 novembre 2014

Steel Panther, All you can eat


La musica rock, per chi scrive, è una cosa dannatamente seria. Anche se suoni un genere considerato poco nobile come il glam-metal, mi devi dire esplicitamente se ci fai o ci sei, se il tuo modello sono i Poison o gli Spinal Tap. I losangelini Steel Panther non sono ancora riusciti a convincermi su questo punto preliminare. Tutto nei loro atteggiamenti (guardate su youtube il loro tits contest del Wacken 2014), nel look e nei nomi d'arte dei singoli componenti del combo rimanda a quella stagione, nella seconda metà degli ottanta, quando le band agghindate in spandex proliferavano come lombrichi dopo un'acquazzone, ma la goliardia che li contraddistingue è spinta un pò troppo oltre, facendo nascere più di un sospetto sulla "serietà" dell'operazione.
Detto questo passiamo ad analizzare All you can eat, lavoro numero quattro del gruppo, degno successore di quel Balls out che me li ha fatti scoprire. L'opera non si discosta in maniera significativa da quello che ormai è il brand del gruppo: testi sbracatissimi nell'ambito del sesso e delle sue pratiche più border-line (vi basti come indizio Bukkake tears, titolo della traccia numero quattro) su basi musicali che rendono omaggio ai soliti grandi del passato (Ratt, Motley Crue, Poison, Cinderella, i Bon Jovi fino a Slippery when wet). L'album, dal quale sono stati estratti quattro singoli/video: Pussywhipped, Party like tomorrow is the end of the world, Gloryhole e The burden of being wonderful, scorre piacevolmente, strappando qua e là dei sorrisi rassegnati per linguaggio e "metafore" usate dal gruppo (mai una canzone d'amore si era intitolata Fucking my heart in the ass), ma non riesce a dissolvere quel maledetto dubbio iniziale. Alla fine me ne farò una ragione.

sabato 8 novembre 2014

Chronicles 42

Chi mi conosce bene lo sa. Faccio una fatica enorme a liberarmi dalle cose. Probabilmente è un difetto, anzi sicuramente lo è. Sta di fatto che nella vita ho accumulato enormi quantità di roba dalla quale, nonostante due traslochi, non sono mai riuscito a separarmi. Potete quindi capire il travaglio nel rinunciare al mio archivio di centinaia di fumetti e riviste musicali, ospitati in due case (la mia e quella dei miei) e un garage. Le motivazioni che mi hanno portato a questa scelta sono le solite: lo spazio che si restringe, lo stato di progressivo deterioramento della carta, l'imbarazzo crescente nel trovare risposte alla domanda: "che li tengo a fare?".
Per cui, dopo aver preso accordi con un negozio che ritira l'usato, nell'ultimo mese ho pazientemente diviso i fumetti della vita, collana per collana, anno per anno, editore per editore, (vi dico solo che alla fine hanno occupato per intero la superficie del garage, sfrattando l'auto), poi ho inscatolato quelli da vendere, li ho caricati in macchina, ho guidato fino a Milano e li ho scambiati per qualche banconota da cento che ha rappresentato il denaro meno appagante di sempre. 
A volte gli oggetti ti appesantiscono, ti tengono giù, ti costringono a guardare sempre al passato. Per cui disfarsene può risultare catartico, come liberarsi da una pesante zavorra. Magari anch'io, più avanti, proverò questo effetto. Per ora però avverto solo un costante senso di inquietudine, una leggera morsa alla bocca dello stomaco. Chissà come mai.

lunedì 3 novembre 2014

Nashville Outlaws, A tribute to Motley Crue


Il gruppo è formalmente ai box dal 2008, in teoria starebbe portando in giro un farewell tour con tanto di carte bollate che attesterebbero la serietà dell'impegno. Al microfono Vince Neil s'è inquartato al punto che sembra si sia mangiato un altro Vince Neil intero. Le possibilità che riescano a scrivere il minimo sindacale di dieci canzoni nuove per riempire un ultimo disco è vicina allo zero. Cosa resta per i vecchi fans di quella che, tra alti e bassi, resta probabilmente la più grande glam metal band della storia? Facile rispondere le canzoni, quelle del passato glorioso, ma anche una manciata delle più recenti. Magari rivisitate in chiave pop country, a certificare l'esiguità del delta tra i due macro generi. Nasce così un tributo la cui qualità, come tutti gli album di questa natura, è poco omogenea e più legata ai singoli episodi e a come ogni artista si pone rispetto alle composizioni originali.
In premessa va detto a scanso di equivoci che non siamo dalle parti delle cover che hanno reso famosi gli Hayseed Dixie, che buttavano in caciara blugrass i grandi del metal. Qui l'approccio è più raffinato e radio friendly, pochi violini e nessun banjo, da produzione nashvilliana moderna, perlappunto.

Tra nomi più o meno noti del country americano, sono pochi quelli che riescono nell'impresa di interpretare con personalità i classici dei Crue. I Rascal Flatts ad esempio, così come Brantley Gilbert, si presentano con un compitino svogliato, senza nessuna idea autoctona che emerga nelle loro versioni di Kickstart my heart e Girls girls girls, che, di conseguenza, si dimenticano con la stessa velocità con la quale passano nel lettore. Ci mettono qualcosa in più le singer Cassadee Pope e LeAnn Rimes rispettivamente con l'ottimo recupero di The animal in me dall'ultimo, molto apprezzato da queste parti e meno in giro, The saints of Los Angeles,  e con una Smoking in the boys room in equilibrio tra pop e jazz. Ci si comincia scaldare, dunque. Giusto in tempo per intercettare uno degli highlights della raccolta: la delicatissima e vibrante Without you, cantata con voce angelica da Sam Palladio, in pieno mood da sequenze finali di Sons of Anarchy, che ci ha abituato a strazianti cover di pezzi storici. Buone anche una suadente Looks that kill (Lauren Jenkins) e una southern Live wire (The Cadillach Three), ma è alla traccia numero dodici che si fermano gli orologi. Entrano in scena i Mavericks e mandano tutti dietro la lavagna in virtù di una Dr. Feelgood che sposta la scena dai vicoli di L.A. allo shore di Miami Beach, ed è festa grande con sensuali movimenti di bacino e suadenti ritmi caraibici. Faccio un eccezione alla mia regola di non allegare video e la posto qui sotto, in modo possiate farvi un'idea della performance di Raul Malo e soci. 

E' tutto qui: Dr. Feelgood rappresenta il colpo di reni di un tributo piacevole ma con pochi guizzi esaltanti. Ad ogni modo i fan dei Crue dovrebbero apprezzare, almeno per qualche giro sul lettore.


sabato 1 novembre 2014

MFT, ottobre 2014

MUSICA

A parte qualche eccezione, più che concentrarmi sugli album interi, sto distrattamente spiluccando qua e là. Sulla base di ciò, la lista degli ascolti è lunga, ma potrebbe esserlo ancora di più (ho omesso fugaci ascolti a Neil Young, Raskins, Ben Miller Band, Orange Goblin, Rancid, Holly Johnson). Stiamo a vedere se l'imminente uscita di Sonic highways dei Foo Fighters potrà contribuire a farmi restare più concentrato.

U2, Songs of innocence
John Mellencamp, Plain spoken
The Gaslight Anthem, Get hurt
Pierpaolo Capovilla, Obtorto collo
Black 47, Last call
Lucinda Williams, Where the spirit meets the bone
Leonard Cohen, Popular problems
Blackberry Smoke, Leave a scar: live in North Carolina
Shaman's Harvest, Smokin hearts and broken guns
Sixx: A.M., Modern vintage
The Angels, Face to face
Nashville Outlaw, A tribute to Motley Crue
Bob Seger, Ride out
Those Poor Bastards, Viciuos losers
Mariachi El Bronx, III

MONOGRAFIE/DISCOGRAFIE PARZIALI

Dropkick Murphys, Sing loud sing proud/Blackout/The warrior's code/The meanest of time
Judas Priest, British steel/Screaming for venegeance/Defenders of the faith/Turbo
Deep Purple, Fireball/Machine head/Who do you think we are/Burn

VISIONI


Sono arrivate al capitolo finale due saghe che negli ultimi anni mi hanno regalato tante soddisfazioni: Sons of Anarchy e Homeland. Ma non mi faccio mancare il recupero di Mad Men, per cui ho ormai sviluppato una discreta dipendenza, e che è arrivato alla terza stagione.

lunedì 27 ottobre 2014

I Guardiani della Galassia


Non so a chi sia venuta l'idea di premiare, attraverso la trasposizione cinematografica, le gesta di questi super-eroi Marvel dalla scarsissima rilevanza fumettistica  ma, chiunque egli sia, dalle pagine virtuali di questo blog mi faccio promotore di una petizione mondiale: santo subito!
Coloratissimo e scoppiettante, dentro questo film gli appassionati degli albi Marvel possono trovare gran parte del mondo extraterrestre della casa delle idee, per giunta non stravolto nella resa estetica: personaggi del calibro di Thanos, Il Collezionista, Ronan o la guerrafondaia razza Kree, che tanto ci hanno affascinato attraverso lunghe saghe dei Vendicatori o di Silver Surfer, sono resi così come li avremmo sempre voluti, per nostro massimo godimento. Ma è festa grande anche per lo spettatore comune, a fronte dei continui rimandi ai classici della fantascienza su grande schermo ed in virtù di un mix vincente tra azione e commedia che colloca idealmente la pellicola tra Indiana Jones e Guerre Stellari.
Ovviamente il merito principale del successo del film è da attribuire ai cinque Guardiani: Starlord (interpretato da Chris Pratt); Gamora (Zoe Saldana); Drax (il wrestler Dave Batista), alla maestosa cazzimma di Rocket Racoon (in originale doppiato da Bradley Cooper), che deve il suo nome all'omonimo pezzo dei Beatles sul White Album (non lo dicono nel film ma fidatevi), e alla serafica calma zen di Groot (doppiato da Vin Diesel). Questi ultimi due sono indubbiamente la carta vincente della produzione, l'elemento conduttore di emozioni semplici ma trascinanti, i character che prendono per mano lo spettatore per tutta la durata della proiezione, fino ai titoli di coda.
Gesù, mi viene il mal di testa a pensare alle potenzialità del preannunciato sequel: gli Skrull, Silver Surfer, Nova, Warlock, Thanos e le gemme dell'infinito, Galactus, Howard the Duck!
 
Non perdete tempo, I Guardiani della Galassia è IL film Marvel da vedere.

sabato 25 ottobre 2014

Chronicles 41

Primo post pubblicato dal cellulare mentre sto tornando da Roma, dove oltre un milione di persone hanno manifestato con la Cgil. Mentre la stanchezza sta prendendo il sopravvento mi ritrovo a sperare che questa prova di forza (o meglio, di riequilibrio delle forze rispetto alla tracotanza di Renzi) non venga sprecata. Dormo.

lunedì 20 ottobre 2014

Billy Joe Shaver, Long in the tooth

File:Billy Joe Shaver - Long in the Tooth.jpg

Ha tutto il diritto di essere stanco ed irascibile Billy Joe Shaver, classe 1939 e uno dei padri del movimento outlaw country. L'ha imparato nel peggiore dei modi quello spettatore cafone che dopo avergli rivolto un paio di epiteti di troppo durante un'esibizione è stato raggiunto da una pressante richiesta di scuse accompagnata da qualche proiettile sparato da una pistola che Billy porta sempre con sè. Ma non è per paura delle scomposte reazioni di Shaver se Long in the tooth, primo album di materiale inedito dopo sette anni, ha avuto riscontri generalmente positivi. E' che dischi così ormai li fanno solo quelli che questo genere l'hanno inventato, non esiste un grosso movimento revivalista che riproponga pezzi di questa natura, neppure da parte degli artisti che pure si mantengono integri rispetto all'imperante dinamica mainstream del country. E se c'è qualcuno che può mettere il dito nella piaga delle nuove generazioni sono proprio Billy Ray e Willie Nelson, che aprono in duetto il lavoro con Hard to be an outlaw, assecondando un canone musicale consolidato con una coppia di voci logorate dagli stravizi e dall'età (156 anni in due...) ma più potenti ed evocative che mai. La successiva title track ha un ritmo decisamente più incalzante e si fa apprezzare la scelta inconsueta di utilizzare tra gli strumenti uno scacciapensieri. Non mi sorprenderebbe se il pezzo, così com'è, potesse entrare nel repertorio di Tom Waits. 
L'album nel complesso si presenta nella forma che da qualche tempo considero la migliore: un ten tracks di poco al di sopra della mezzora di musica. E' ben bilanciato tra pezzi introspettivi (il valzer di I love you as much as I can; I'm in love), tracce che devono aumentare le battute per farsi sentire nel caos dei localacci sulle interstate ( Last call for alcohol; Checkers and chess; Music city USA) e sorprendenti border line songs (American me). 
Non ci posso fare niente, sono frocio per gente della risma di Billy Joe Shaver.

lunedì 13 ottobre 2014

The Gaslight Anthem, Get hurt


A detta di chi scrive, il più grande elemento di distinzione tra i Gaslight Anthem e la pletora di bands che affollano il panorama musicale è la capacità di portarti via. Dalla tua stanza, dall' imbottigliamento nel quale sei incastrato con la tua utilitaria, dal vagone della metro che ti porta a casa. Di farti viaggiare con le suggestioni create dal loro brand musicale: una  contaminazione tra new wave e blue collar rock (qualcuno dopo Skin or swim, l'album di esordio, ha azzardato un sodalizio tra Cure e Springsteen) con derive punk. E grunge, almeno a giudicare dall'incipit di Stay vicious, pezzo di apertura di Get hurt, lavoro numero cinque del combo del New Jersey che inizia su svisate di chitarra che rimandano appunto a quella stagione di oltre vent'anni fa, con il cantato di Fallon che, quasi irriconoscibile,  ben si adegua all'andazzo, fino a che un improvviso cambio di registro scioglie la tensione passando dall'acido al confidenziale con una disinvoltura spiazzante. Basterebbe questo per cancellare il passo falso del precedente Handwritten: il gruppo si è ritrovato e ha ritrovato la voglia di comunicare attraverso le tante anime e le passioni musicali dei singoli componenti.
E' solo così che si può centrare una ballata grondante struggimento qual è la title track, splendido esempio del perfetto romanticismo da strada della band. Certo, non mancano nemmeno a sto giro le cambiali pagate a zio Bruce, con gli ululati di Stray paper e sopratutto con le sferraglianti Helter Skeleton e Ain't that a shame, ma i ragazzi sono bravi ad evitare di rimanere intrappolati dentro pericolosi risucchi derivativi e ci regalano altre importanti gemme autoctone come Red violins o la sognante Break your heart
Ho letto in giro giudizi tiepidi per questo album, si sarà capito che non li condivido affatto. Forse una band quando arriva al quindo album senza essere diventata gli U2 registra un inevitabile calo di hype da parte degli addetti ai lavori, forse Fallon e soci sono troppo poco star rispetto a colleghi anche meno dotati di loro, forse non è (più? ancora?) stagione per questo genere musicale. 
E' la classica situazione da mixed emotions: spiace per il mancato raggiungimento del successo planetario da parte dei Gaslight, ma così almeno possiamo coccolarci un gruppo che resta, ancora per un pò, solo di nostra pertinenza.

giovedì 9 ottobre 2014

Old Crow Medicine Show, Remedy


Un enorme ed eccitante parco divertimenti. Per gli amanti della musica rurale americana, della old - time, del folk e del country 'n' blugrass, questo rappresentano gli Old crow Medicine Show: la più eccitante string band attualmente sulla piazza. Remedy arriva dopo oltre quindici anni di attività (di cui però solo gli ultimi dieci a livello professionistico) e consuntiva tutte le influenze del gruppo, a partire da quella primaria: Bob Dylan. "Ho ascoltato Bob Dylan e nient'altro. Nient'altro che Bob Dylan per quattro anni. E' stato come andare a scuola." Questo il dichiarato manifesto di Critter Fuqua (banjo, chitarre, violino e voce) , che si traduce fedelmente in pezzi come Brushy mountain conjugal trailer e Sweet Amarillo. Per il resto, rimanendo nella metafora in premessa, l'album è un ottovolante di vorticose emozioni, a partire dalla trascinante cafonaggine redneck di 8 dogs 8 banjos, dove le liriche sono al banale servizio dello  scatenato pattern blugrass, così come per Tuttifrutti erano una scusa per liberare il delinquenziale rock and roll di Little Richard. In altre occasioni invece il songwriting è centrale nella costruzione della canzone e si armonizza con la melodia come un bicchiere di Southern Comfort ghiacciato bevuto in veranda, in una notte d'estate. Mi riferisco a due pezzi straordinariamente evocativi quali l'elegia funebre di Dearly departed friend e ancora di più l'irresistibile Firewater.
Per capacità di suggestionare, abilità compositiva,  tecnica e passione, non credo che al mondo, oggi, esista un'altra band come gli OCMS. Spero di avere l'opportunità di vederli dal vivo, prima o poi. Nel frattempo non posso che indicare Remedy come uno dei dischi del 2014.

lunedì 29 settembre 2014

MFT, Settembre 2014

ASCOLTI

Pilgrim II, Void worship
Slash, World on fire
U2, Songs of innocence
Imelda May, Tribal
John Mellencamp, Plain spoken
Paul Rodgers, The royal sessions
Ryan Adams, self titled
Billy Joe Shaver, Long in the tooth
The Gaslight Anthem, Get hurt
Old Crow Medicine Show, Remedy
Lionel Richie, Tuskegee
Old 97's, Most messed up
Lake Street Dive, Bad self portraits

MONOGRAFIE/DISCOGRAFIE PARZIALI

Van Halen, Lee Roth era/Hagar era
Rush, Moving pictures / Signals
Motorhead, 1990/2013
Thunder, 1995/2008


SERIAL

Sons of Anarchy, final season
Mad Men, stagione 2


LETTURE

Davis Stephen, Il martello degli dei. La saga dei Led Zeppelin

sabato 27 settembre 2014

Chronicles 40

C'ho messo 46 anni, ma alla fine è successo: mi sono fatto ciulare il portafogli. Probabilmente ho facilitato il lavoro dello spettabile disonesto dimenticandolo sul bancone di un bar, non riesco a ricordare. So che un momento prima ce l'avevo e quello dopo...puf! sparito. Il misfatto è accaduto a Roma, dove, a seguito della recente elezione ad una carica regionale del sindacato, mi devo recare più spesso. Fatto sta che questo evento, come potete immaginare, ha comportato una rottura di coglioni epocale che a saperlo avrei consegnato spontaneamente i miseri trenta euro custoditi nel portafogli in cambio di tutti i miei documenti. Infatti nei giorni successivi il misfatto sono stato impegnato in un tour che ha toccato: uffici di polizia (denuncia furto/smarrimento e sostitutivo patente); banca (bancomat), poste (poste pay); ASL (tessera sanitaria) e Comune (carta d'identità). Per fortuna hanno inventato i biglietti elettronici, per cui basta un codice sul telefonino per salire sul Frecciarossa, altrimenti sarei dovuto tornare dalla Capitale in autostop. Anche quello sarebbe stato un inedito (almeno su distanze così impegnative) arrivato poco prima della mezza età. Se questo è l'inizio del mio quarantaseiesimo anno di vita, sono vagamente preoccupato di scoprire il resto.

giovedì 25 settembre 2014

Io, Stefano e i One Direction 2/2



Nell'arco della mia vita ho assistito ad un discreto numero di concerti, ma posso tranquillamente affermare di non aver mai sentito un boato dell'assordante intensità di quello che il pubblico di San Siro tributa ai One Direction. Non esagero, una roba che fa tremare lo stadio fino alle sue vecchie fondamenta.
Anticipati dagli anonimi (veri) musicisti che prendono posto nella parte tradizionale del palco, Niall, Zayn, Liam, Harry e Louis (visto? mi sono documentato...) fanno il loro ingresso on stage e subito gratificano la folla con Midnight memories, il cui refrain è supportato da cinquantamila voci gaudenti. I ragazzi si piazzano lungo la passerella centrale e lì resteranno per tutto il concerto, dandosi a turno il cambio all'estremità di essa per eseguire ognuno la propria canzone, mentre gli altri attendono (talvolta un po' annoiati, devo dire) su una panchina posta all'inizio della lingua di palco. E' noto che gli show di Milano verranno immortalati su di un apposito dvd (in uscita a Natale) e quindi ogni atteggiamento dei cantanti appare ancora meno spontaneo di quanto non lo sia già normalmente. Per l'intera esibizione è tutto un invitare la folla al botta e risposta, un elogiare i fan italiani e un proclamare l'emozione di trovarsi nella Scala del calcio. Parti integranti dello spettacolo anche gli immancabili selfie e l'utilizzo di twitter, piattaforma attraverso la quale la boy band risponde ad una manciata di domande inviate al loro profilo dai fans di mezzo mondo. In un'ipotetica classifica dei più sovraesposti la parte del leone mi sembra la facciano Liam, Harry e Liam, con gli altri due un po' più sacrificati.
Scorre la setlist, e, benché permanga forte la sensazione di trovarsi dentro un talent show più che ad un concerto, su qualche pezzo, come Kiss you, Live while you're Young - la mia preferita - , C'mon c'mon, Diana , nemmeno io mi sottraggo al singalong (lo so, vi sarebbe piaciuto vedermi). Tra un effetto speciale e un gioco di luci, con What makes you beautiful si chiude lo show, in attesa dei bis, che, sotto un gradevole drizzle molto english, si aprono con You and I. E' poi il turno di Story of my life, che sarebbe anche un brano piacevole, se il titolo non mi riportasse all'omonimo pezzo dei Social Distortion e, che te lo dico a fare, con Mike Ness che ti rimbomba nella testa finisce ogni suggestione pop. Con Best song ever siamo ai saluti con tanto di coriandoli e stelle filanti.

Stefano, dopo un inizio concerto che l'aveva reso malmostoso (ancora oggi non  ne ho capito il motivo) è stato progressivamente sempre più coinvolto dallo show, al punto dal voler rimanere fino all'ultimo, nonostante la pioggia. Fuori dallo stadio la sua eccitazione è al massimo, e, come gli accade in questi casi, parla a manetta, rovesciandomi addosso impaziente domande e riflessioni a rullo. Lungo la strada antistante il piazzale dello stadio è interminabile la fila dei  genitori in piedi accanto alle auto parcheggiate sul marciapiede con le quattro frecce accese, che attendono il ritorno dei figli impegnati (immagino) nella prima libera uscita della loro giovane vita.
Ripensando al concerto, mi rendo conto che non ci sono state grosse sorprese rispetto a come me l'ero figurato. L'esibizione in se stessa mi ha lasciato proprio pochino, ma l'entusiasmo dei ragazzini, beh, quello è stato veramente contagioso e mi ha trasmesso vibrazioni positive, genuine. Penso che un giro da queste parti avrebbe fatto bene anche a tanti dinosauri musicali un po' snob che ormai la sanno tutta ancora prima che gliela racconti e che non vogliono avvedersi di come i giovanissimi fans delle pop star moderne potrebbero diventare i sostenitori di ben altra musica domani. D'altro canto, anche per molti di noi la curva di apprendimento è iniziata con una qualche passione che probabilmente oggi ci vergogniamo un po' a tirare fuori dagli armadi.
In fondo, per vedere gli AC/DC c'è sempre tempo.


lunedì 22 settembre 2014

U2, Songs of innocence


La premessa potrebbe durare poche righe o dieci cartelle, ma il concetto di base è semplice. Per quale ragione un gruppo (che è stato) seminale come gli U2 si ostina a voler continuare a proporre nuova musica, quando è evidente come, da quindici anni almeno (dico io, che salvo la loro produzione fino a All you can't leave behind compreso), non ne azzecca una che sia una? 
Non rispondete strofinando pollice ed indice a suggerire l'attaccamento al vil denaro: a parte lo stato di milionaria agiatezza già raggiunto, basterebbe un tour mondiale ogni tre anni, anche in assenza di materiale nuovo, anzi proprio per l'assenza della zavorra di materiale nuovo, per sistemare le quindicesime generazioni a venire di Bono e soci.
Anche perchè ormai di dischi se ne vendono talmente pochi che non rappresentano più la primaria fonte di guadagno di un artista, giusto? Sì, cioè no. 
Perchè proprio qui sta la genialata dei quattro: cedere i diritti del nuovo disco per una cifra abnorme (ho letto cento milioni di dollari ma non avevo voglia di sbattermi per cercare conferme) alla Apple, la quale a sua volta lo regala, inserendolo nella famigerata libreria itunes, ai propri utenti. Risultato economico, mediatico e di penetrazione del mercato raggiunti (si parla di quasi quaranta milioni di ascoltatori), ma rapporto con vecchi fans e puristi in picchiata verticale (rischio calcolato: sono la netta minoranza).

Bene. Ma...la musica? Ho voluto evitare la superficialità dei molti che hanno criticato il nuovo album di Springsteen senza nemmeno averlo ascoltato un paio di volte, e pertanto nell'ultima settimana ho messo in buona rotazione Songs of innocence, ricavandone un'impressione sì di mediocrità e futilità artistica unita ad arrangiamenti spesso ridondanti e incomprensibili, ma anche qualche spiraglio di luce. Ci sono sprazzi di cose buone in Every breaking wave che purtroppo si perdono nell'onnipresente e irritante falsetto di Bono, così come in Iris il cuore sobbalza nel sentire quel pattern di chitarra di The Edge, ma anche qui, quando sembra che abbiano azzeccato una melodia ci pensano quei dannati coretti uh-uuh a farti cambiare idea. Il meglio sta nella coda, con l'old style di Raised by wolfes (sull'IRA e il conflitto in Irlanda del Nord),una Cedarwood road che rimanda all' hard rock dei settanta, l'elegante l'elettronica di Sleep like a baby tonight (a ricordarci la produzione di Danger Mouse) e l'inevitabile slow finale The troubles, eseguita da Bono in duetto con Lykke li. 

In conclusione, se si trattasse davvero di un vecchio ed anonimo ellepì, come la spartana scelta della cover suggerisce, esprimerei due voti distinti per ognuna facciata: decisamente insufficiente la prima, più compiuta la seconda. 
Insomma, non siamo dalle parti dell'attesa resurrezione musicale, ma forse il becchino ha smesso, per un attimo, di piantare chiodi sulla cassa degli U2.


giovedì 18 settembre 2014

Io, Stefano e i One Direction (1/2)

All'inizio dovevamo vedere gli AC/DC. Non lo dico per giustificarmi, non mi vergogno per niente di aver assistito al concerto dei One Direction con mio figlio. Anzi, sono più che felice di aver condiviso insieme a lui questa sua prima volta. Ma, sul serio, qualche mese fa, quando si era sparsa la voce di un nuovo tour mondiale degli australiani, avevamo pattuito di andare a vederli (Stefano adora Thunderstruck e You shook me all night long) qualora fossero passati dalle nostre parti. Il rumor si è poi rivelato non veritiero (per dirla tutta, dopo la notizia del tour è circolata la voce di segno opposto di uno scioglimento della band  a causa di una grave malattia che ha colpito Malcom Young) ma tanto è bastato per farci assumere l'impegno di assistere asap (as soon as possible) al primo concerto che riscontrasse anche solo un poco del nostro interesse.

Ora, i One Direction non sono esattamente i cantanti preferiti da Stefano ("piacciono alle ragazze" la solida motivazione portata al dibattito), ma immagino che oggigiorno siano un po' la tassa da pagare per i teen ager che attenzionano la musica.
Semplice curiosità o interesse vero, qualunque possa essere stato l'elemento che ha fatto scattare la molla, l'adesione di mio figlio alla proposta di tornare a San Siro, stavolta per assistere ad un evento musicale e non ad una partita di calcio, è stata immediata. Io, con la sicumera del matusa, non mi sono preoccupato di recuperare in anticipo i biglietti, nella convinzione che il gruppo terzo classificato all'X-Factor britannico del 2010 non riuscisse a riempire due serate alla scala del calcio. Ebbene, questo errore di valutazione ha rischiato seriamente di rendermi artefice di una cocente delusione ai danni del ragazzo.

Infatti, nonostante l'anticipo di due ore con il quale arriviamo allo stadio il 29 giugno, le mie certezze sulla facilità di trovare i tagliandi vacillano. Laddove, quando c'è disponibilità di tagliandi i bagarini ti fanno la posta già ad un paio di chilometri da piazzale Lotto, ci troviamo invece a camminare tranquillamente fino ai cancelli senza che nessuno si proponga. Al contrario, pullula di persone che agitano il cartello "compro". L'apprensione che aveva cominciato a prendermi lo stomaco si trasforma ora interrore puro. Nonostante gocce di sudore freddo mi imperlino la fronte faccio finta di niente per non allarmare Stefano, ma ovviamente penso che il premio di peggior papà del mondo non me lo toglierebbe nessuno se l'avessi pompato per l'evento per poi farlo tornare a casa con le pive nel sacco.
Finalmente, dopo interminabili minuti di tremenda angoscia, veniamo avvicinati da un buon samaritano che ci propone un prato a cinquanta euro (il prezzo originario è di trenta). Sollevato, inizio l'inevitabile trattativa e quando troviamo una possibile mediazione intorno ai quaranta accade l'imprevisto: arriva la Guardia di Finanza e comincia a sequestrare i biglietti ad un gruppo di bagarini complici amici di quello con il quale sto mercanteggiando. Il tizio si allontana di soppiatto lasciandomi il corpo del reato (i biglietti) tra e mani, intimandomi con lo sguardo e il movimento all'insù del mento di seguirlo per effettuare il pagamento in luogo sicuro. Così, qualche decina di metri più avanti, sgancio, con una disinvoltura modello Bodie in The Wire, quattro banconote da venti ad un altro del giro che fa segno al mio che è tutto okay. Si può entrare.

Già all'esterno dello stadio si sentiva distintamente, ma una volta dentro l'effetto diventa un onda in piena. L'entusiasmo del pubblico è incontenibile. Sul palco c'è la band di supporto e i ragazzini che affollano spalti e prato si scatenano sostenendoli a pieni polmoni. Il gruppo è quello dei 5 Seconds of Summer, combo australiano di pop punk per teen agers che, a quanto pare, sta facendo sfracelli con il suo disco di debutto. Perlomeno, a differenza dei 1D, appaiono come una vera band: suonano i loro strumenti (due chitarre basso e batteria) e propongono uno show più assimilabile ai concerti ai quali sono abituato piuttosto che ad uno show televisivo (ambito nel quale invece, come vedremo, si muovono gli headliner).
Il palco è qualcosa di enorme. Occupa due terzi in lunghezza del campo da gioco, ad ogni lato ha degli schermi grandi anch'essi come palchi e al centro una passerella che arriva quasi alle tribune opposte. I 5SOS si destreggiano bene (cosa non difficile, vista la predisposizione dell'audience) e toccano l'apice dell'eccitazione collettiva con il singolo Don't stop piazzato a metà esibizione.
 

Al termine della loro gig spiego a Stefano che ci vorrà una mezzoretta buona perché attacchino i One Direction,  per cui ci mettiamo a girare un po' per ammazzare l'attesa. Tra l'altro nel prato spazio ce n'è abbastanza, visto che il pubblico è tutto ammassato sotto palco e passerella. Attorno a noi, come prevedibile, molte ragazzine in età da scuola media accompagnate da genitori con atteggiamenti che attraversano tutta la gamma delle emozioni, dall'annoiato al partecipe, dall'imbarazzato al divertito. Di rigore il sorriso di complicità scambiato con una mamma che sfoggia una maglietta dei Sex Pistols quando le cade lo sguardo sulla mia dei Pantera.
Mentre i megaschermi ai lati del palco mandano le hit del momento (per dire dell'incontenibile eccitazione dei presenti, anche i video vengono accompagnati da robusti singalong) ci concediamo un'occhiata al merchandising e l'acquisto di una t-shirt dei One Direction che dura addosso a Stefano il tempo di scattare la foto qui sotto, visto il suo ripensamento sul portare in giro sti cinque faccioni che genera la richiesta (esaudita dalla gentile commessa) di scambiarla con una nera riportante il logo dei 5 Seconds, molto più rock style. Un paio di gelati più tardi arriva il momento tanto agognato dai presenti. S'interrompe la musica in diffusione, si spengono le luci e s'illumina lo stage. I cinque One Direction stanno per salire sul palco.
 


continua...

lunedì 15 settembre 2014

Orange is the new black, season 1 e 2

Piper Eressea Kerman nasce in una famiglia benestante di Boston con genitori e parenti avvocati, medici ed insegnanti. A 24 anni inizia una relazione sentimentale con una trafficante di droga durante la quale si presta  a trasportare e "lavare" soldi sporchi. Diversi anni dopo, a relazione sentimentale e attività criminale interrotta, è scoperta dall'F.B.I. ma, in relazione all'occasionalità delle sue attività illegali, del suo rango, della sua fedina penale pulita e della piena confessione resa, viene condannata a soli quindici mesi di reclusione in un carcere di minima sicurezza. Questa esperienza la porterà a scrivere un libro di memorie che la rete web netflix ha portato in tv attraverso una serie già dipanata in due stagioni.

La season one è quella più riuscita e conforme alla storia originale. Con un tono che va dal leggero al drammatico (riassunto bene dal termine anglosassone dramady: drama/comedy) assistiamo agli ultimi momenti di Piper Chapman (Taylor Schilling) con il fidanzato Larry (Jason Biggs) prima dell'ingresso nel carcere femminile di Litchfield. La narrazione fa perno sulla situazione della protagonista, una viziata w.a.s.p., tra disavventure e flashback, ma trova ulteriori elementi di forza nelle storie delle altre detenute, quasi tutte appartenenti a classi sociali più povere (molte nere e ispaniche, qualche bifolca del sud), nel personale della prigione e nella sagoma iperbolizzata della donna in carriera rappresentata dalla direttrice Figueroa. Linguaggio e dialoghi sono estremamente espliciti così come alcune scene, al livello di lesbo soft porno. Il divertimento è comunque assicurato da battute micidiali e situazioni paradossali, anche se, verso la fine della stagione, a prevalere è il tono più drammatico del progetto, fino all'apoteosi del cliffhanger della final season.

La seconda stagione si allontana dal soggetto originale e si vede. Innanzitutto la narrazione è molto meno piper-centrica, poi alcuni sviluppi risultano poco credibili (come la tresca tra Larry e Polly, migliore amica di Piper) ed infine il personaggio di Alex (la conturbante Laura Prepon) esce dalla storyline principale. Subentrano invece la scaltra e manipolatrice Vee e l'ingenua giappo-scozzese Soso. Gli highlights della stagione si registrano a mio avviso con alcuni flashback dedicati alla vita precedente alla detenzione di alcune inmates. In particolare vengono finalmente svelate le storie della Morello e del suo "promesso sposo" Christopher e di Mrs Rosa, alla quale è dedicata un'uscita di scena (?) spettacolare. Una vera e propria metamorfosi è quella che spetta invece all'ufficiale amministrativo Joe Caputo, che scopriamo bassista di una band, e che si prende una bella (effimera?) rivincita su quella stronza della Figueroa. 

Orange is the new black si è indubbiamente ritagliato il suo spazio nella fitta concorrenza dei serial americani, tutto sta a capire se la terza stagione (già confermata) tornerà ai fasti della prima o s'incaglierà come, a tratti ha fatto la seconda, in alcune secche di sceneggiatura. 


lunedì 8 settembre 2014

John Mellencamp, Live at Town Hall - July 31, 2003

File:Trouble No More Live at Town Hall album cover.jpg

Che John Mellencamp non sia un tipo facile è ormai ampiamente assodato. Non per niente gli avevano appioppato il soprannome di Little Bastard. Orgoglioso, irascibile , dannatamente testardo, ha applicato i suoi tratti caratteriali anche alla gestione della sua carriera, andando ostinatamente sempre, e a prescindere, nella direzione artistica che si era prefissato. Questa determinazione, se nella vita privata gli ha provocato più di un conflitto, in quella discografica gli ha permesso, dal 1982, anno della release di American Fool, ad oggi, di pubblicare musica che non è mai uscita dal range che va dal buono allo straordinario e di girare il mondo in lungo e in largo per proporla dal vivo (evitiamo di tornare sulla parziale delusione dell'unica data italiana, arrivata solo tre anni fa e recensita qui e qui ). Per questa ragione l'assenza dalla  sua discografia di un live ufficiale (diversamente dai bootleg, prodotti a bizzeffe) mi è sempre apparsa un'inspiegabile anomalia nella carriera di uno che è nell'ambiente da quasi quarant'anni.
Alla fine quel live tanto atteso è arrivato, ma per quanti si aspettavano una mastodontica operazione antologica sullo stile di Springsteen e dei suoi cinque LP (o tre CD) di Live 1975/85,  è arrivata l'ennesima lezione dell'ex coguaro: Live at Town Hall propone per undici canzoni, sulle quindici complessive, la tracklist di Trouble no more, l'album del 2003 nel quale John aveva espresso una forte denuncia politica contro l'amministrazione Bush attraverso vecchie canzoni folk-blues riarrangiate con il suo inconfondibile stile roots fatto di fisarmonica, violino e (in questo caso) slide-guitar. Un disco coraggioso e intenso, ma non certo il suo più venduto. Laddove le vecchie rockstar tronfie suonano per intero i loro lavori storici per grattare un pò di popolarità e riportare i fans ai concerti, il Piccolo Bastardo, ancora una volta, ha deciso dunque di nuotare controcorrente.
 
La delusione che di primo acchito può aver pervaso i fans per l'impopolare decisione di escludere in pratica tutti i classici (gli unici presenti in scaletta sono Pink houses, Paper in fire e Smalltown ) è subito superata dall'eccezionale qualità di queste incisioni, con la band che riesce a ricreare un'atmosfera densa e pregnante e Mellencamp che offre interpretazioni appassionate ed evocative. La partenza ricalca l'incipit di Trouble no more: Stones in my passway di Robert Johnson e Death letter di Son House, poi però la scaletta assume un ordine diverso, emozionando con To Washington, indignando per le sopraffazioni cantate in Joliet Bound, piegando dolcemente sulle curve della memoria con Highway 61 di Dylan e con il tradizional John the revelator, fino ad una Small town rallentata ed intensa, durante la quale JM  si diverte a modificare qualche strofa ("mia moglie aveva tredici anni quando ho scritto questa canzone / adesso è small town proprio come me"), e via fino ai saluti sull'immancabile Pink houses
 
A sessantatre anni da compiere tra qualche settimana, con un ruolo da custode e diffusore della old time music americana che nessuno può negargli (in caso contrario si faccia un giro sul sopra citato Trouble no more o sul più recente, strepitoso, No better than this ) e a ridosso dell'uscita del suo ventesimo album in studio (Plain spoken), John Mellencamp ha messo a segno un altro dei suoi colpi. E se qualcuno la pensa in modo diverso può farsi fottere. O almeno così, ne sono certo, risponderebbe Little Bastard.

venerdì 5 settembre 2014

martedì 2 settembre 2014

Donato Carrisi, Il suggeritore

 
 
Nel genere letterario del noir il filone dei serial killer è da tempo abbandonato dagli autori più importanti (che di norma l'hanno usato come fase di transizione per arrivare a temi più sviluppati) e, pur essendo una vena che continua a riscuotere vasto interesse, è ormai relegato ad una sorta di limbo o di seconda fascia che si rivolge esclusivamente ad un pubblico di affezionati, fidelizzato anch'esso alla serialità delle uscite dei personaggi creati dai vari Deaver, Cornwell, Reichs e compagnia bella.
Gli italiani che si sono misurati con il genere non si sono mai del tutto scrollati di dosso gli schemi narrativi dei maestri americani peccando spesso di poca originalità, per questo ho sempre guardato con sospetto l'enfasi dietro le loro (poche) opere di successo.
Ecco perchè, sebbene appassionato di thriller/noir, nel 2009 non mi sono scapizzato a leggere Il suggeritore, opera prima di Donato Carrisi molto apprezzata dalla critica e venduta in più di un milione di copie, con i diritti acquistati da mezzo mondo e in attesa di trasposizione cinematografica negli USA.
L'ho fatto solo qualche settimana fa approfittando di un week-end in montagna, nella consapevolezza che l'unico modo di riprendere la lettura sarebbe stato quello di dedicarmi ad un titolo che mi inchiodasse. Proposito raggiunto, visto che ho divorato le oltre quattrocento pagine del libro in meno di tre giorni.
Merito di opera che nasce da uno spunto interessante (la sparizione di sei bambine) ma facile da buttare nel cesso in mano ad uno scrittore che avesse puntato tutto su di un forte impatto iniziale ma con poca originalità nel gestirlo. Carrisi invece, seppur con qualche passaggio nel quale chiede un faticoso supplemento di sospensione dell'incredulità al lettore, costruisce un meccanismo ad orologeria strepitoso, nel quale i progressi compiuti dalla squadra di investigatori marciano di pari passo con lo schema architettato dal subdolo criminale, per arrivare ad una serie di colpi di scena finali che sfido anche il più sgamato dei lettori ad anticipare o prevedere.
Certo, parliamo di un romanzo d'evasione, ma scritto con tutti i crismi, la competenza e il taglio cinematografico (non a caso Carrisi si è occupato di anche sceneggiature) che si richiede ad opere di questa natura. Consigliato.