Che John Mellencamp non sia un tipo facile è ormai ampiamente assodato. Non per niente gli avevano appioppato il soprannome di Little Bastard. Orgoglioso, irascibile , dannatamente testardo, ha applicato i suoi tratti caratteriali anche alla gestione della sua carriera, andando ostinatamente sempre, e a prescindere, nella direzione artistica che si era prefissato. Questa determinazione, se nella vita privata gli ha provocato più di un conflitto, in quella discografica gli ha permesso, dal 1982, anno della release di American Fool, ad oggi, di pubblicare musica che non è mai uscita dal range che va dal buono allo straordinario e di girare il mondo in lungo e in largo per proporla dal vivo (evitiamo di tornare sulla parziale delusione dell'unica data italiana, arrivata solo tre anni fa e recensita qui e qui ). Per questa ragione l'assenza dalla sua discografia di un live ufficiale (diversamente dai bootleg, prodotti a bizzeffe) mi è sempre apparsa un'inspiegabile anomalia nella carriera di uno che è nell'ambiente da quasi quarant'anni.
Alla fine quel live tanto atteso è arrivato, ma per quanti si aspettavano una mastodontica operazione antologica sullo stile di Springsteen e dei suoi cinque LP (o tre CD) di Live 1975/85, è arrivata l'ennesima lezione dell'ex coguaro: Live at Town Hall propone per undici canzoni, sulle quindici complessive, la tracklist di Trouble no more, l'album del 2003 nel quale John aveva espresso una forte denuncia politica contro l'amministrazione Bush attraverso vecchie canzoni folk-blues riarrangiate con il suo inconfondibile stile roots fatto di fisarmonica, violino e (in questo caso) slide-guitar. Un disco coraggioso e intenso, ma non certo il suo più venduto. Laddove le vecchie rockstar tronfie suonano per intero i loro lavori storici per grattare un pò di popolarità e riportare i fans ai concerti, il Piccolo Bastardo, ancora una volta, ha deciso dunque di nuotare controcorrente.
La delusione che di primo acchito può aver pervaso i fans per l'impopolare decisione di escludere in pratica tutti i classici (gli unici presenti in scaletta sono Pink houses, Paper in fire e Smalltown ) è subito superata dall'eccezionale qualità di queste incisioni, con la band che riesce a ricreare un'atmosfera densa e pregnante e Mellencamp che offre interpretazioni appassionate ed evocative. La partenza ricalca l'incipit di Trouble no more: Stones in my passway di Robert Johnson e Death letter di Son House, poi però la scaletta assume un ordine diverso, emozionando con To Washington, indignando per le sopraffazioni cantate in Joliet Bound, piegando dolcemente sulle curve della memoria con Highway 61 di Dylan e con il tradizional John the revelator, fino ad una Small town rallentata ed intensa, durante la quale JM si diverte a modificare qualche strofa ("mia moglie aveva tredici anni quando ho scritto questa canzone / adesso è small town proprio come me"), e via fino ai saluti sull'immancabile Pink houses.
A sessantatre anni da compiere tra qualche settimana, con un ruolo da custode e diffusore della old time music americana che nessuno può negargli (in caso contrario si faccia un giro sul sopra citato Trouble no more o sul più recente, strepitoso, No better than this ) e a ridosso dell'uscita del suo ventesimo album in studio (Plain spoken), John Mellencamp ha messo a segno un altro dei suoi colpi. E se qualcuno la pensa in modo diverso può farsi fottere. O almeno così, ne sono certo, risponderebbe Little Bastard.
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