Era l'8 di maggio del 1983, l'Inter disputava l'ultima di campionato al Meazza contro l'Udinese (il torneo si sarebbe definitivamente concluso la domenica successiva, con la trasferta di Catanzaro). L'anno succedeva all'epocale vittoria azzurra al Mundial di Spagna ma il contrappasso per i tifosi della Beneamata era stato una delle tante stagioni anonime della squadra nerazzurra: con lo spogliatoio lacerato dai clan interni, già in inverno eravamo fuori da corsa scudetto e coppa UEFA.
La società, in occasione della conclusione della serie A e vista la disaffezione dei tifosi, decide allora di aprire i cancelli ai ragazzi entro i quattordici anni (al prezzo simbolico di cento lire) per provare a riempire gli spalti e fidelizzare i supporters del futuro. Tra loro, non senza un po' di timore reverenziale, debuttavo anch'io insieme all'amico d'infanzia Giorgio.
Per dire delle piccole magie di questo sport, ancora oggi, a distanza di tre decenni, i ricordi di quella giornata restano indelebili, nonostante l'irrilevanza dell'incontro e la pochezza tecnica della squadra.
Quel giorno, in totale disprezzo alla primavera inoltrata, il pomeriggio era buio e pioveva a dirotto, ed essendo San Siro ancora privo della copertura (e del terzo anello), si assisteva alle partite completamente esposti alle intemperie. Ricordo distintamente che mentre tenevo il braccio all'insù per reggere l'ombrello, quello del mio vicino di posto gocciolava tenacemente, per tutta la durata della partita, all'interno della mia manica, lasciandomi alla fine dei novanta minuti una busta di pioggia condensata all'interno del gomito del giubbetto.
Per quello che riguarda il campo, l'Udinese passò subito in vantaggio con Gerolin, mentre i nostri erano inconcludenti e di norma tendevano a non passarla mai a Juary, il piccolo brasiliano che festeggiava i gol con un balletto attorno alla bandierina del corner, nonostante l'elegante e reiterato invito dagli spalti ("daghela al negheeer!!!") li invitasse a farlo. Così, quando all'inizio del secondo tempo fu proprio lui ad insaccare il pareggio, fummo in molti a pensare si trattasse della giusta punizione all'arroganza di quel manipolo di debosciati. Da lì in avanti le squadre si accontentarono del risultato e il match si trascinò stancamente alla conclusione. Nonostante tutti gli elementi della giornata avrebbero portato una persona normale ad abbandonare questo sport per dedicarsi a qualcosa di più sensato, per un ragazzino di quattordici anni, alla sua prima esperienza alla Scala del calcio , il danno era invece irrimediabilmente fatto e avrebbe prodotto guasti per gli anni a venire.
Non ho potuto evitare di ripensare a quel giorno quando, un paio di settimane fa, il solito amico intrallazzone mi ha regalato due biglietti ("così vai con tuo figlio") per Inter - Udinese di giovedì 27 marzo, posticipo serale del 31esimo turno infrasettimanale di campionato.
Premesso che a Stefano il calcio interessa quanto potrebbe interessargli una rassegna sul cinema sovietico, al punto che non ha mai seguito una partita per più di tre secondi di fila nemmeno alla televisione, pensavo che rimbalzasse con sdegno la mia proposta, e invece, non solo ha l'ha accettata al volo, ma si è progressivamente caricato d'entusiasmo mano a mano che la data si appropinquava.
Così, verso le 18 di giovedì, con lo zaino pieno di cibarie che nemmeno dovessimo fare la gita di pasquetta fuori porta, eravamo sulla circonvallazione interna di Milano, dopo un tempo biblico bloccati nel traffico stavamo parcheggiando ad una distanza siderale dal Meazza e giusto sull'annuncio delle formazioni prendevamo posto e cominciavamo ad addentare i nostri panini con un occhio alle squadre che entravano sul terreno di gioco.
Dopo pochi minuti è parso evidente che la partita, analogamente a quel giorno di trentuno anni fa, avrebbe oscillato tra l'ammorbante e l'irritante, con l'ulteriore aggravante di non aver prodotto nemmeno un gol (il risultato finale sarà infatti di 0-0), ma Stefano si è comunque appassionato al contesto: la grandiosità dello stadio, il prato verdissimo, i giocatori a pochi metri (eravamo al primo anello sotto i Boys); l'hot dog dei baracchini, i tifosi dell'Inter che a seconda dei momenti passavano dal disfattismo più totale all'esaltazione più inspiegabile. Ad ogni parolaccia che volava poi (e, come potete immaginare non ne volavano poche) mio figlio realizzava non senza soddisfazione che quel luogo era una sorta di zona franca dell'epiteto e questa consapevolezza gli stampava sul viso un sorriso di soddisfatta, sorniona complicità. Non sono mancati scambi con gli altri tifosi: il migliore di tutti se l'è aggiudicato il mio vicino di posto quando, di rimando al mio tentativo di spiegare alla prole che le partite di calcio non erano tutte così noiose, replicava sardonico "Quelle dell'Inter sì".
Avrei voluto che il debutto da interista di Stefano facesse da miccia ad una passione travolgente per il calcio, un pò come per il giovanissimo alter-ego di Hornby in Febbre a 90, che avvenisse al cospetto di una partita esaltante, una vittoria impetuosa, gol a raffica e campioni indimenticabili, ma in fondo il mestiere di interista è quello di avere spesso davanti una squadra mediocre, farcita di giocatori sopravvalutati, che fa soffrire tanto e che porta a lamentarsi in continuazione.
E allora, che diventi un ultras da stadio o un appassionato di danza classica, è bene che cominci presto ad abituarsi al pane duro che di norma rappresenta il mestiere di tifoso dell'Inter ed inizi a fare scorta di Maalox.