sabato 31 dicembre 2011

Anna!

Anna Calvi
Anna Calvi
(Domino) 2011












Visto che l'anno è ormai giunto alla sua conclusione lo posso dire con certezza. E' quello di Anna Calvi, inglese, classe 1982, di origini italiane da parte di padre, il debutto discografico più promettente del 2011. Viso spigoloso e bellezza inquieta, la cantante/chitarrista ha fatto confluire nell'oceano della sua opera prima tutti gli affluenti che l'hanno ispirata dal punto di vista musicale, dando vita ad una creatura, ora elettrica ora intimista, che riesce, nonostante le marcate influenze, ad esprimere proprie personalità e carattere.


Il gioco dei rimandi e dei riferimenti apre infinite possibilità di partecipazione, alcune ovvie altre sorpendenti. Se ad esempio non si può prescindere dal tirare in ballo PJ Harvey (I'll be your man) e Patti Smith (Desire), indiscusse muse intergenerazionali per il movimento rock femminile, è una piacevole sorpresa scovare omaggi a Morricone (l'apertura strumentale e molto suggestiva di Rider to the sea e la chiusura di Love won't be leaving), melodie intonate in compagnia dello spirito di Jeff Buckley (The devil) o utilizzando il delicato approccio al canto di Roy Orbison (First we kiss).Così come affascina passare dalla tensione trattenuta di un pezzo dolce e al tempo stesso oscuro quale è No more words, alla vivacità di Suzanne and I, aperta da un intro di batteria che fa molto british rock degli ottanta.



Alla fine comunque sono proprio il fascino, il magnetismo, lo charme, a prevalere nella cifra stilistica dell'opera, relegando in secondo piano, dopo pochi ascolti, la valigia di influenze che Anna si trascina appresso con grazia. Considerando che si tratta di un'opera prima, c'è da essere fiduciosi.





venerdì 30 dicembre 2011

MFT, dicembre 2011

ALBUM

Chickenfoot
, III
Anna Calvi, omonimo
Kurt Vile, Smoke ring for my halo
Tom Waits, Bad as me
Black Sabbath, Reunion
Ryan Adams, Ashes and fire
The Black Keys, El camino
Nickelback,Here and now
Area, International POPular Group
Wilco, The whole love

Tom Waits, Bad as me
Low, C'mon

LETTURE

Don Wislow, Il potere del cane
Anthony Kiedis, Scar tissue

VISIONI

Fringe, stagione 2
Californication, stagione 3
Il trono di spade

giovedì 29 dicembre 2011

Five years

Alcuni amici, rientranti nel novero di persone di cui m'importa l'opinione, in maniera diretta o indiretta, si sono lamentati della svolta che ha preso il blog, cioè del dominio delle recensioni rispetto agli altri temi.


In effetti il blog non era stato concepito a questo scopo. Anche se l'amore per la musica era dichiaratissimo, rileggendo i primi anni di post mi sono reso conto che tentavo di spaziare molto di più tra gli argomenti rispetto a quanto faccio oggi.


Le ragioni che hanno portato Bottle of smoke ad essere in una fase di quasi monotematicità sono svariate. Intanto dopo cinque anni di post quello che c'era da dire su di me, o meglio, quello che ero disposto a confessare pubblicamente sulla mia persona, l'ho già detto, dovessi fare un'analisi del mio stato attuale ne uscirebbe una lunga sequela di lamentele di scarso interesse anche per il lettore più fedele. Mi limito a dire che ai miei vari difetti ho di recente aggiunto una misura significativa di ipocondria e d'insofferrenza verso tutto/i.


Quali sono gli altri argomenti che mi appassionavano? La politica. Si beh, la situazione italiana degli ultimi anni mi ha disgustato. Credo ci troviamo nella fase in cui i partiti hanno raggiunto una distanza tale dalle persone che per riempirla ci vorranno non so quanti lustri, fatica e leader credibili. Vedere un giovane che fa attività politica per passione e non per calcolo è raro come un gol di Milito. Lo stesso in qualche modo si può dire per il sindacato. Mi sembra che ormai la linea perseguita da Cisl e Uil (un sindacato "di sistema" e non di lotta, "di istituzione" e non di tessera) sia ben avviata. I precari vedono le organizzazioni confederali e i loro attivisti alla stessa stregua dei politici. Forse dovrà esaurirsi la riserva indiana dei lavoratori tutelati (che insieme ai pensionati costituiscono il grosso degli iscritti ) per dare uno scossa a tutto il sistema.


Per ciò che concerne gli spunti che rientrano nelle varie ed eventuali, anche quel poco di ispirazione che ogni tanto mi illuminava nei momenti della giornata più impensabili e che mi dava idee per inventarmi qualcosa di (spero) divertente da scrivere è da un pò in fase di appannamento, soffocata dalla saturazione del mio tempo libero, giacchè dall'intuizione alla scrittura, ogni spunto o l'interesse che mi aveva suscitato, sfuma.


In tutto questo contesto due cose almeno non sono cambiate. La passione per l'ascolto dei dischi e la volontà di aggiornare il più costantemente possibile (anche in condizioni di difficoltà di concentrazione estreme, mentre faccio altre cose) questo spazio. Coniugate i due elementi ed il gioco è fatto. Sarà sempre così d'ora in avanti? La piega è definitivamente presa? Onestamente non lo so. Restate (se vi va) e si vedrà. Anche perchè si avvicina a grandi passi il momento più temuto e atteso dai miei lettori. Quello delle classifiche di fine anno...

mercoledì 28 dicembre 2011

Il fuoco sotto la cenere

Ryan Adams
Ashes and fire
(Pax Am / Capitol Records) 2011


















Ogni tanto fa bene ricordarsi che per alcune opere non basta un'ascoltata frettolosa e via. Alcuni dischi, anche nell'era del digitale e del tuttosubito, hanno bisogno di sedimentare, di essere degustati a sorsate lente, per far emergere tutto il loro sapore dolce e il retrogusto amaro in fondo alla gola.
Fa bene ricordarlo perchè la voracità musicale incontrollata rischierebbe di farsi sfuggire piccoli gioielli intimisti come Ashes and fire, che sono concepiti giustappunto per uscire alla distanza.


Certo, nulla di nuovo sotto il sole di Ryan Adams, umorale genietto di Jacksonville, NC, qui alla sua tredicesima uscita in undici anni di carriera solista (senza contare dunque i lavori con i Whiskeytown), un ritorno semmai alle atmosfere languide ed introspettive di Love is hell e ad un buon stato di ispirazione, dopo che l'anno scorso l'autore si era tolto pure lo sfizio di pubblicare Orion, un album di rumorosissimo (e francamente evitabile) indie-metal.


Gli undici pezzi contenuti in Ashes and fire sono invece inni alla malinconia e alla dolcezza, tributi al cantautorato folk dei settanta ed ai suoi autori, da Joni Mitchell a James Taylor, anche se sarebbe ingeneroso non ricordare che questo stile qui caratterizza ormai da tempo il personale brand artistico di Ryan.


L'inizio del disco è una trepida brezza primaverile che accarezza l'anima, Dirty rain, Ashes and fire e Come home lasciano il segno con un abbraccio nel quale ci si perde morbidamente. Più avanti colpiscono in profondità anche la dolcissima Do i wait, mentre Chains of love roccheggia sugli U2 di The joushua tree e Save me è sublime nella sua dolorosa esortazione. Lucky you, che ha qualcosa di Springsteen, è il singolo che ha anticipato la release, ma malgrado sia in teoria il pezzo più commerciale è piazzato in fondo alla tracklist proprio prima dell'ultima canzone: I love you but i don't know what to say, che, manco a dirlo, è un'altra perla della raccolta, forse addirittura la più preziosa di tutte.



Se per le torrenziali uscite di Ryan Adams valesse la regola di quelle di Neil Young, cioè un disco di valore ogni uno-due buttati un pò lì, rassicuro tutti: questo giro è quello dannatamente buono.







martedì 27 dicembre 2011

Outlaw tales, 4 di 4



Hank III3 Bar Ranch Cattle Callin
(Megaforce Records/Hank III Records, 2011)






Non sono l'unico ad essere giunto senza entusiasmo al quarto capitolo della monumentale opera licenziata quest'anno da Hank III. Lo stesso Williams è rimasto senza il combustibile della creatività, se 3 Bar Ranch Cattle Callin propone per ventitre tracce praticamente la stessa allucinata canzone. Un cantato che usa lo stile scat per fare a gara con chitarre e batteria a chi va più veloce. In alternativa dei vocalizzi lamentosi tipo capre sgozzate e qualche growling piazzato qua e là. Va bene la provocazione, ma qui la prova di forza è arrivare alla fine dei settantadue minuti del timing complessivo dell'album senza dare di matti.


Ok Hank, fai la musica più indipendente di tutti. Ora però che ne pensi di tirare il fiato e ricominciare a creare qualcosa che abbia anche un senso?








lunedì 26 dicembre 2011

Ruffiani, ma di gran classe

The Black Keys
El camino (Nonesuch, 2011)





Pur essendosi costruito un nome ed una faccia, per molti anni Johnny Depp ha continuato ad accettare ruoli in piccoli, straordinari film ( Buon compleanno Mrs. Grape, Ed Wood, Dead Man, Paura e delirio a Las Vegas) nei quali ha consolidato le sue doti recitative, per intraprendere infine,trionfalmente, la strada del cinema mainstream e dei blockbusters.

I Black Keys (Dan Auerbach e Patrick Carney) mi sembra abbiano fatto lo stesso percorso. In quasi dieci anni e otto album (nel lotto anche il progetto Blakroc), più uno solista di Auerbach, si sono tolti tutti gli sfizi artistici possibili, trastullandosi con l'indie, il garage, il blues e persino con l'hip hop, allargando, in un crescendo costante, la loro cerchia di sostenitori tra critica e pubblico più attento. Fino ad arrivare ad oggi e a El camino, nel quale fanno i piacioni irresitibili proprio come Depp nei Pirati dei Caraibi.

Si perchè solo chi si è creato una solida reputazione in campo musicale indipendente può sfornare un disco paraculo come questo senza essere tacciato di disonestà intellettuale. Qui tutto è rigorosamente vintage, in un viaggio nel tempo che ferma le lancette agli eartly seventies: il sound (chitarre ruvide, tastiere di velluto, battimani, ritornelli catchy) la copertina dell'album, il video di Lonely boy, singolo che ha antipato la release. Proprio Lonely boy ha certificato lo sdoganamento del duo, diventando in brevissimo tempo feticcio delle radio più trendy e colonna sonora delle immagini di presentazione di molti servizi televisivi, con un utilizzo così massiccio da rischiare lo sfinimento. Prepariamoci perchè tra non molto lo stesso trattamento verrà riservato alle irresistibili Gold on the ceiling, Sister o Little black submarines.


Noi siamo comunque contenti, perchè sono pochi i gruppi che meritano la notorietà più dei Black Keys e poi perchè l'opera è effettivamente entusiasmante e ispirata, caratterizzata da un livello qualitativo che non si abbassa mai. Occhio però, che il difficile inizia adesso. Se per El camino gli aggettivi superlativi si sprecano, il rischio di cedere alla tentazione di replicare la stessa formula con i prossimi dischi è dietro l'angolo. Spero vivamente che non succeda. Jack Sparrow ha divertito solo nel primo film, poi è gradulamente diventato prevedibile.










domenica 25 dicembre 2011

sabato 24 dicembre 2011

Album o' the week / Mina, Piccola strenna (2010)



Disco della settimana in rigorosa sintonia con la ricorrenza. Piccola strenna contiene quattro sole tracce ed è stato regalato da Mina ad Aldo, Giovanni e Giacomo per il loro ultimo film, La banda dei babbi Natale. Sono due in particolare i brani che "creano l'atmosfera": uno è Mele Kalikimaka, divertente canzone natalizia hawaiana che ha il pregio, nel marasma delle solite composizioni natalizie, di suonare inedita e, al contrario, il classicissimo Silent Night in una versione però davvero intensa.

Buona vigilia a tutti.

giovedì 22 dicembre 2011

Querce



Chickenfoot

III (eOne Music, 2011)




Dunque è vero che quelli bravi fanno sembrare facili anche le cose che non lo sono. Il secondo disco dei Chickenfoot (Sammy Hagar;Joe Satriani; Michael Anthony; Chad Smith e a sto giro anche l'immenso Kenny Aronoff a dare una mano), chiamato burlescamente III (lo avevano fatto anche i mai troppo rimpianti Traveling Wilburys) dà esattamente questa impressione. Hard rock commerciale (io lo chiamo così anche le se definizioni si sprecano) di sicuro impatto per chi a questo suono, che ha avuto la sua massima affermazione da metà ottanta fino all'avvento del grunge, è generazionalmente legato.


In realtà ci provano in tanti a replicare codesta formula senza arrivare ai risultati pirotecnici dei giurassici componenti dei Chickenfoot. Già, perchè non è mica semplice fare un disco così perfetto, suonato e cantato da dio, senza una sbavatura ne una nota fuori posto o un riempitivo per allungare il timing totale, con un tiro da far impallidire ben più giovani e agguerriti competitors musicali.


Seguendo un canovaccio influenzato più dai lavori passati di Hagar e Anthony, che alla storia artistica degli altri due (seppur con alcune eccezioni), l'album alterna magistralmente pezzi potenti (se proprio devo pescare dico almeno Last temptation; Alright alright; Dubai blues), ballate AOR (Come closer; Different devil; Something going wrong) e persino riusciti pezzi di critica sociale (l'intensa Three and a half letters e l'hidden track No change, forse i miei preferiti).


Sul progetto trionfa, e c'è poco da fare, la voce inossidabile di Hagar che è anche l'unico a firmare (o co-firmare) la totalità delle composizioni. Bravi gli altri a creare un automatismo che non sbaglia un colpo. Danno tutti l'impressione di partecipare a qualcosa che li coinvolge, li appassiona e li diverte. Sarà mica questo (oltre alla classe cristallina) il segreto di quelli bravi?









mercoledì 21 dicembre 2011

True blood





Stavo per scrivere che la quinta stagione di Dexter è probabilmente una delle migliori della serie, quando mi è venuto in mente che probabilmente l'ho già detto per una stagione o due già trasmesse (qui tutti i post che ho dedicato al serial). Cosa significa questo? Beh, che gli autori del serial killer dei killer continuano a fare davvero un gran bel lavoro di scrittura.

Lasciatemi dire almeno che questa stagione (che io ho appena concluso mentre in USA è già ben avviata la sesta), è forse la più nera e violenta del lotto, ma anche quella che raccoglie meglio l'eredità degli esordi, in quanto a introspezione psicologica del personaggio, drammaticità della sua condizione e financo poesia di dialoghi e immagini.


Il tutto con un crescendo di tensione che mette la freccia e supera senza eccessivo sforzo molti (presunti) thriller cinematografici. Davvero gli incastri del finale (con un geniale e, almeno per una parte, inconsapevole scambio di "favori" tra i fratelli Morgan ) funzionano come un orologio svizzero tenendo in equilibrio suspance, dramma e sentimento (nei minuti conclusivi dell'ultimo episodio, Dexter, osservando le coppie felici di amici che lo circondano riflette: "lo fanno sembrare così facile. Legare con un altro essere umano. E' come se nessuno gli avesse detto che è la cosa più difficile al mondo") riuscendo a non ripetersi in situazioni analoghe ad altre nel passato (la soluzione del rapporto conflittuale con il detective Quinn non ricorre ai rimedi estremi adottati con l'investigatore Doakes, nella season 2).


Oltre al lavoro degli sceneggiatori il merito della riuscita del serial va equamente distribuito tra il cast storico e le new entry. Su tutte, è giusto segnalare la prova di Julia Stiles, attrice dotata di una bellezza non canonica ma permeata di grande empatia alla quale è stato affidato il ruolo più pregnante del telefilm.



Davvero una serie che non smette di stupire.

lunedì 19 dicembre 2011

Avanti piano

Low

C'mon (Sub Pop, 2011)






Dopo tanti consigli inascoltati, nel 2005 ero finalmente riuscito ad apprezzare i Low con The great destroyer, un disco che però mi dicevano essere un anomalia nella produzione del trio di Duluth, Minnesota (tranquilli, non lo ricordo chi è altro ci è nato in quell'amena località) in quanto molto rock oriented rispetto alla tradizione della band.
Dopo essermi preso un'altra pausa dalle loro produzioni (nel 2007 ho ignorato l'uscita di Drums and guns), circostanze poco interessanti ai fini della recensione mi hanno portato sulle tracce della loro ultima opera, C'mon.

Dico subito che, pur essendo la cifra stilistica lontana dalla vivacità elettrica di The Great Destroyer, il primo impatto è stato ammaliante. L'album si apre infatti con Try to sleep, un pezzo onirico dall'ampio respiro, che trascina con dolcezza, contraddistinto da uno di quei refrain che ti elevano lo spirito. Aiuta probabilmente, nell'immedesimazione con il testo (Try to sleep/Don't look at the camera/Try to sleep/But then you never wake up) la mia condizione psicofisica attuale, che mi vede anelare un pò di riposo per quietare una spossatezza che sta diventando pericolosamente strutturale.
Tornando al disco. Qualche traccia ed è chiaro che la strada percorsa dalla band è quella dei pezzi dilatati e armoniosi, lenti e pregnanti. Prendiamo Witches ad esempio, che è sostenuta da un suono chitarristico elettrico-ma-acustico che rimanda immediatamente a Neil Young. Una distorsione che lotta per imporsi sul cantato di Alan Sparhawk, mentre si ode in lontananza, come un eco sommessa, un delicato ricamo di banjo. Especially me è invece cantata da Mimi Parker, componente femminile del trio, e si muove agile su suggestioni west coast folk dei sessanta/settanta.


Onestamente è molto difficile trovare un opera sviluppata su canoni introspettivi che non perda coesione e coinvolga con continuità l'ascoltatore, senza annoiarlo. L'obiettivo in questo caso è raggiunto grazie anche ad un cambio di marcia finale che intorbida le placide acque, con la lunga Nothing but heart (è ancora lo zio Neil a echeggiare) e lo spensierato pop-folk di Something's turning over.




Fin troppo facile definirlo un lavoro autunnale, da tepore domestico e pioggia che picchia sui vetri delle finestre (o sul parabrezza dell'auto, normalmente la mia condizione d'ascolto).







sabato 17 dicembre 2011

Album o' the week / Chemical Brothers, Dig your own hole (1997)



La consuetudine che mi ha portato alla pubblicazione di questa rubrichetta è la seguente: ogni sabato mattina scelgo un disco da diffondere per la casa, selezionato preferibilmente tra i miei supporti solidi (ellepì o ciddì) e, fatto salvo per la roba più pesa per la quale mi autocensuro con le cuffie, dò la sveglia alla famiglia (e a volte anche al condominio...). Stamattina butto giù la casa a suon di Block rockin' beats, Setting sun, Don't stop the rock: ammazza quanto spaccavano quindici anni fa i Chemical Brothers!

giovedì 15 dicembre 2011

L'arte del quasi

Wilco
The whole love (dBpm, 2011)






Per essere uno che arriva in conclamato ritardo sui fenomeni musicali importanti, ai Wilco sono giunto in largo anticipo. Si può dire anzi che seguo Jeff Tweedy da quando portava i calzoni corti e con Jay Farrar inventava l'alternative country attraverso la ragione sociale degli Uncle Tupelo.
Ho ascoltato i primi vagiti dei Wilco con il country-rock convenzionale di A.M. (1995), la svolta lisergico-acustica di Being there, il delizioso gioiellino beatlesiano Summerteeth, la collaborazione di due parti con Billy Bragg sugli inediti di Woody Guthrie (Mermaid Avenue I e II) per approdare infine a quello che è giustamente considerato uno dei must-have degli anni zero: Yankee Hotel Foxtrot, che la band riscattò per cinquemila dollari dalla etichetta Reprise, a fronte del rifiuto di quest'ultima a pubblicarlo (quando si dice la competenza!). I loro lavori successivi (A ghost is born, Sky blue sky, l'omonimo del 2009) si sono infranti contro la barriera dei primi ascolti, probabilmente per una mia saturazione, mentre per tutto il resto del mondo il credito del combo si affermava definitivamente.

Fa piacere quindi riappropiarsi un pò della musica di Tweedy attraverso l'ascolto di The whole love, album in studio numero otto della band. La riconciliazione è in buona parte veicolata dalla lunga traccia di apertura, Art of almost, un pezzo che segue i cambiamenti di umori e le improvvisazioni che la band imprime al proprio sound e che qui trova sfogo con una coda strumentale elettrica che in realtà si prende più di metà timing complessivo. Una canzone magnetica, sospesa tra elettronica,acustica e jamming strumentale elettrica. Davvero il Wilco sound al suo massimo splendore.

Molto convincente anche la successiva I might, benchè suonata in maniera meno spiazzante e più convenzionale, ha una struttura appagante e un ottimo songwriting. Nell'ambito dei pezzi maggiormente introspettivi la palma del migliore va equamente divisa tra Black moon e Open mind. Con Sunloath e più giù, con le movimentate Dawned on me e Capitol City tornano a fare capolino echi delle sonorità dei Fab Four, elemento questo che ormai fa parte strutturalmente del suono della band e che mi fornisce lo spunto per affermare che l'album, nel suo complesso fa pensare quasi ad un abecedario degli stili e delle influenze della vita artistica dei Wilco, con accennti alt country, rumoristi, acustici, psichedelici, indie. Il perimetro del lavoro è delimitato dai due pezzi più lunghi, dei sette minuti di Art of almost ho già detto, mentre a chiudere il recinto ci stanno i dodici minuti di One sunday morning (Song for
Jane Smiley's boyfriend) che riabbraccia in maniera tradizionale lo stile country folk degli esordi. Le dodici tracce dell'opera sono espandibili fino a diciassette con le bonus della versione su iTunes e addirittura fino a ventuno con l'edizione speciale su due dischi.






Personalmente ho preso The whole love come l'atteso ritorno di un amico importante, perso di vista per mia unica responsabilità, da quasi dieci anni. Come spesso accade anche per i rapporti umani perduti, l 'ho trovato cambiato nei dettagli ma esattamente come lo ricordavo nell'essenza.






martedì 13 dicembre 2011

Il ritorno dei morti viventi, prima parte - stagione due





Con un impatto visivo meno spettacolare della prima stagione, The walking dead torna a narrare le disavventure del gruppo di superstiti ad un misterioso contagio che ha trasformato la maggior parte dell'umanità in zombie, concentrandosi maggiormente sull'introspezione, sulle paure dei personaggi e sui bambini, anelli deboli della catena.

Il protagonista della storia, lo sceriffo Rick Grimes, buono e affidabile come da copione classico, comincia ad avere pesanti incertezze sul suo ruolo a seguito di un attacco degli zombie che provoca gravi conseguenze alla comitiva e in seguito al ferimento del figlio durante una perlustrazione nei boschi. Questo avvenimento porta però con se uno sviluppo positivo: i fuggitivi trovano rifugio in una grande fattoria miracolosamente scampata agli attacchi degli zombie, abitata da diverse generazioni di una famiglia guidata da un anziano patriarca.

L'aspetto più incisivo della storia è a mio avviso, lo sviluppo, o se vogliamo la caduta in una spirale autoritaria e violenta, dell'amico di Rick, Shane Walsh, che sopravvive ad una missione suicida per reperire medicinali proprio grazie all'abbandono di ogni etica e lealtà e al trionfo del più primitivo e crudele spirito di sopravvivenza. Shane cambia anche nell'aspetto, nel modo di camminare, la sua fisicità si fa minacciosa, si scontra violentemente con Lori, Dale e con lo stesso Rick. La sua influenza negativa contagia progressivamente gli altri. In una coabitazione sempre più complicata con gli abitanti della fattoria, assume una decisione che mina la permanenza del gruppo in quell'oasi (quasi)incontaminata e risolve drammaticamente una vicenda aperta dopo l'attacco degli zombie a cui accennavo in apertura.

La stagione due consta di tredici episodi, ma la produzione ha deciso di trasmetterne inizialmente solo sette, per poi riprendere a febbraio. A mio avviso la storia regge bene, quel che perde in spettacolarità viene parzialmente equilibrato nell'analisi dei personaggi (oltre a Shane anche Andrea, Daryl e Glen). E comunque l'adrenalina, anche se razionata, non manca e l'emozione è ben dosata (nell'ultima scena del settimo episodio la commozione ti afferra stretta la gola). Per essere un serial di zombie può bastare. Anche se magari sarebbe ora di riprendere qualche filo narrativo interrotto dalla prima serie e cominciare a svelare qualcosa sulle origini del contagio...

lunedì 12 dicembre 2011

Outlaw tales, 3 di 4

Hank III

Attention deficit domination (Megaforce/Hank III Records, 2011)





Chiusa l'analisi delle uscite country (in senso moolto lato della definizione) passiamo ai lavori metal della recente tetralogia di Hank III. Attention deficit domination è, seppur in tema di metallo pesante, una novità dello stile dell'outlaw texano che in genere si misurava con il cowpunk e tutte le derivazioni più sudicie dell'hardcore. Il genere qui interpretato è invece rigoroso doom: lento, angosciante e sofferto, suonato in tutte le sue parti strumentali e (ovviamente) cantato dal solo Hank.


Pur amando i Black Sabbath, che sono indicati dai più come inventori del genere, non sono un particolare appassionato dell'evoluzione che lo stile ha assunto negli anni. Il doom contenuto in ADD poi, con i suoi riff ossessivi, ipnotici, decadenti e (ahimè) ripetitivi non è probabilmente il massimo per un'eventuale iniziazione al sound. I Candlemass di Epicus Doomicus Metallicus per dire, sembrano quasi maggiormente accessibili rispetto a questo lavoro. Che poi qualche pezzo notevole lo contiene anche, I feel sacrificed per esempio,insieme a Make a fall, Demons mask o a Get str8, personalmente però, devo estrapolarli dal contesto complessivo per apprezzarli, perchè oltre cinquanta minuti di queste atmosfere, con tre pezzi che gravitano attorno agli otto minuti, sono troppi anche per un die-hard fan del cappelluto singer quale ritengo di essere.


Una considerazione sul cantato. Ascoltando il lavoro in più di un'occasione mi è scattato il collegamento tra il modo d'intonare i pezzi di Williams e quello di Layne Staley degli Alice in chains. Leggendo i crediti dell'album ho scoperto che proprio a lui è dedicato l'intero lavoro. Difficile a questo punto pensare ad una coincidenza.




La valutazione finale dell'album è dunque condizionata dalla mia scarsa tolleranza al sottogenere, e quindi strettamente personale (beh, come sempre del resto), un adepto del doom darebbe magari un giudizio completamente diverso. Per me, come dicevo, si arriva alla sufficienza e stop.






sabato 10 dicembre 2011

Album o' the week / AAVV, The songs of Jimmie Rodgers (1997)




Un tributo, un tipo di operazione che andava tanto di moda tra la fine degli ottanta e i novanta. In questo caso però un progetto di grande significato, per l'eccellenza della sovraintendenza (Bob Dylan), per gli interpreti coinvolti e, last but not least, per l'autore omaggiato. Trattasi di Jimmie Rodgers, 1897/1933, considerato il padre del country e dello stile yodel al suo interno.



Si misurano con le sue composizioni Bono (l'apertura è per la rilettura da brividi di Dreaming with tears in my eyes), Alison Krauss (il ragtime di Any old time), lo stesso Dylan, Willie Nelson, Steve Earle (In the jailhouse now), Jerry Garcia con David Grisman, John Mellencamp, Van Morrison, Aaron Neville, Dwight Yoakam(l'anthem T for Texas) e altri. Fatevi un viaggio nel sud degli states. Non costa niente e questa è la prima classe!

venerdì 9 dicembre 2011

Back at the top


Tom Waits
Bad as me (Anti, 2011)


La domanda da porsi è questa: perchè Tom Waits riesce nell'obiettivo di restare fedele a se stesso, al sound che ha eruttato fuori nel 1983 con Swordfishtrombone, senza eccedere mai in autorefenzialità? E perchè invece la maggior parte di suoi coetanei quando ci prova cade immancabilmente nell'autoplagio?

Le risposte possono essere multiple. La prima è che l'ispirazione, quella vera, sembra non abbandonarlo mai. Un'altra risposta è che probabilmente Tom non avverte il peso delle aspettative rispetto ai suoi lavori. Dà l'impressione di fottersene insomma. Non ha baracconi da portare in giro negli stadi un anno si e uno no. Le tournè le fa quando, come e dove gli pare. La qualità delle canzoni, infine, è sempre eccellente. Partiamo da Chicago, la prima traccia di questo Bad as me, e della fuga del suo protagonista verso un posto dove "tutto sarà migliore". Un pò come succedeva al fuggitvo di Singapore, apertura del seminale Raindogs. Una botta di futurismo rock scatarrata nel microfono.

Dopo un inizio pirtecnico e rumorista che si conclude con il twist allucinato di Get lost, il saliscendi di emozioni composto da Waits giunge finalmente al primo momento di introspezione che si traduce in un trittico di lenti. Il suggestivo Face to the higway, lo struggente Pay me e la ballatona Back in the crowd. E' questo uno dei momenti topici dell'album, oltre a servire per tirare il fiato prima di tornare al lato più scatenato del meltin pot di suoni del cantautore newyorkese, che si scrolla di dosso i sentimentalismi residui con l'animalesca title-track.

Ma ho fatto riferimento allo stile "rumorista" di Tom Waits, inaugurato quasi venticinque anni fa con Swordfishtrombone. Prima di esso l'artista americano aveva evoluto il suo personalissimo songwriting in ballate jazz disperate, notturne, fumose. Da club di terza categoria aperti tutta notte solo per i cuori infranti. La traccia numero nove, Kiss me, torna imprevedibilmente proprio da quelle parti, neanche fosse una outtake di Foreign affairs (lo stesso si può dire per la conclusiva New year's eve). Un pezzo suntuoso.

Dimenticavo gli ospiti. A coadiuvare il maestro tanta gente di qualità. Da Keith Richards, al fido Marc Ribot, a Les Claypool a David Hidalgo a Flea. Il disco è uscito in due versioni, quella normale consta di tredici tracce, la speciale ne annovera tre in più.

Un ritorno proprio come ce l'aspettavamo ma non per questo meno sorprendente. Ma come fa?!?




giovedì 8 dicembre 2011

Oltre il margine

Premessa doverosa: siamo nell'ambito del prodotto televisivo prescindibile . Non me la sentirei cioè di consigliare Fringe rispetto ad altre serie, anche a Lost, per esempio, con la quale condivide lo stesso autore (JJ Abrams) e alla quale si ispira in quanto ad atmosfere. Per essere più chiaro: siamo dalle parti dell'intrattenimento a spina del cervello staccata. Per goderne bisogna mettere totalmente da parte logica e razionalità, eludere le incongruenze e concentrarsi sull'aspetto più superficiale, immediato e visivo della storia.


In questo senso Fringe coniuga in maniera divertente il genere horror e quello di fantascienza, basandosi su una presunta organizzazione segreta che effettua esperimenti sul genere umano a colpi di mutazioni genetiche, malattie terrificanti, armi di sterminio di massa non convenzionali, realtà alternative, persino alieni da altri mondi.



Tutti questi elementi ruotano in qualche modo attorno al lavoro giovanile dell'anziano Dottor Walter Bishop(interpretato da John Noble), scienziato visionario che ha passato un lungo periodo in un manicomio, dal quale viene fatto uscire dall'agente FBI Olivia Dunham (Anna Torv) con l'ausilio del figlio Peter Bishop(Joshua Jackson), per fronteggiare un attacco batteriologico mortale su un volo di linea. I tre, sotto la direzione del colonnello Philip Broyles (Lance Reddick), costituiscono l'ossatura della sezione Fringe, specializzata nel prevenire e combattere eventi inspiegabili.



Il canovaccio della storia prevede che in ogni episodio si verifichi un caso, spesso orrorifico, che richiede l'intervento della squadra. Ogni evento sembra scollegato dagli altri e conduce sempre al lavoro del dottor Bishop. Alla fine emergerà il collegamento tra i diversi casi e tra di essi e il ruolo dei protagonisti.



Venendo a mancare, diciamo così, una trama spessa che sostiene la struttura delle puntate, a fidelizzare lo spettatore sono i carachters, tutti, con l'eccezione della semi esordiente australiana Anna Torv, volti noti delle produzioni perlopiù televisive. Reddick (Lost, Oz, ma sopratutto The Wire); Joushua Jackson, con una mimica facciale alla George Clooney, che in realtà di cinema ne ha fatto anche tanto, ma che tutti ricordano sempre e solo per Dawson's Creek. Ma il personaggio vincente della serie è senza ombra di dubbio Walter Bishop, interpretato da John Noble (anche nel Signore degli anelli) prototipo dello scienziato folle, affetto da vuoti di memoria e dedito al consumo di psicofarmaci ma dotato di capacità leggendarie. E' lui, con le sue uscite estemporanee ("Agente Dunham, ho un erezione. Ma non dipende da lei, è solo che devo orinare") la marcia in più della serie.





Come dicevo in premessa, niente di imperdibile. Tra l'altro, volendo approfondire, la serie è strutturata in modo da essere approfondita in rete attraverso gli indizi disseminati nelle varie puntate. Che è la strategia usata da J.J. Abrams anche per consolidare il seguito di Lost tra il popolo della rete. Io mi sono fermato al livello di coinvolgimento superficiale, ma se qualcuno di voi ha tempo da perdere...

martedì 6 dicembre 2011

Sparatutto Monti!

Magari c'era da aspettarselo, viste le premesse. Mi viene però difficile ipotizzare una manovra più pesante e,sì, iniqua di questa. Bisogna tenere a mente le motivazioni che hanno portato la squadra di Monti ad assumere codeste decisioni, cioè la crisi totale che sta sconquassando il Bel Paese, ma anche così faccio davvero fatica a digerirla.

A danno di lavoratori, famiglie e pensionati, direttamente (con trattenute e tasse) e indirettamente (con i tagli al pubblico,alla sanità) una mazzata terrificante, resa ancora più pesante dal fatto che, in tema di pensionandi, si interviene su individui in dirittura d'arrivo per la pensione e gli si sposta il traguardo o molto più in la o nella migliore della ipotesi di poco in avanti, ma penalizzandoli economicamente. In entrambi i casi comunque, il passaggio dal sistema retributivo (calcolo della pensione sugli ultimi dieci anni di lavoro) al contributivo (calcolo sui contributi di tutta la vita lavorativa) toglie euro sonanti dal reddito mensile passato dall' INPS. E' curioso poi come la classe politica ritenga "ricche" le pensioni che superano i €960 al mese. I ministri usano infatti questa giustificazione per bloccare, oltre quella soglia,la rivalutazione dell'assegno della previdenza pubblica (il che comporta ovviamente il taglio di altri euro). Non considerano i tecnici al governo, che spesso le famglie con dei pensionati sono le prime reti di salvataggio della società, avendo a carico i figli che studiano o che trovano lavori saltuari e che pertanto non possono permettersi l'agognata indipendenza. Impoverendo i loro redditi, le ricadute sono a cascata, altro che patto intergenerazionale.

Che dire dell'ICI? Ero tra quelli quasi favorevoli alla sua reintroduzione (anche se in parte era stata sostiuita dalle tasse regionali), per compensare quanto possibile i tagli operati dal governo precedente e quindi per permettere agli enti locali di fornire i servizi ai cittadini, oggi pesantemente a rischio. Ma diamine, qui si parla di rivalutare del 60% il valore catastale degli immobili (dato base per calcolare la tassa)! Dai primi conteggi effettuati si potrebbe arrivare ad un bollettino medio di seicento euro l'anno per la prima casa. E l'aumento dell'IVA, della benzina?Aggiungetelo al resto (e alle altre quattro manovre già licenziate quest'anno) e poi ditemi se non è un vero e proprio tracollo finanziario per le famiglie.

Dove sta l'equità? Nell'introduzione della tassa per gli Yatch o per gli elicotteri? E la patrimoniale, che, con tutti i se e i ma del caso, era stata avallata anche da Confindustria? Sparita. E l'aumento dell'IRPEF per i redditi oltre i 55mila e oltre i 76mila? Dissolto nottetempo. Altro che non mettere paletti, questa manovra sembra cucita addosso alla linea del PdL, e il PD chiaramente pagherà dazio, dato che gli altri partiti di sinistra, l'IDV, la Lega e i sindacati manifesteranno il loro dissenso, lasciando Bersani con il classico cerino in mano alle prossime elezioni.

Ce lo meritiamo per aver festeggiato troppo in fretta e senza ritegno la caduta del Cavaliere? Sarà. Non dimentichiamo però quanto l'ex Presidente abbia contribuito a questo risultato.

E comunque, tornando a Monti,se proprio dobbiamo prendere a prestito per rappresentarlo un personaggio dei videogames, fin qui direi che ci troviamo più in clima da massacri indiscriminati alla Duke Nukem, altro che il colorato mondo della favole di Supermario.

lunedì 5 dicembre 2011

Kenny Wayne's back

Kenny Wayne Shepherd
How i go (Roadrunner, 2011)





Kenny Wayne Shepherd, insieme a Johnny Lang e Joe Bonamassa, è un ex enfant prodige del rock-blues. Nato nel 1977, ha pubblicato il suo primo album già nel 1995 attirando su di se le attenzioni degli amanti del genere. Col tempo, nonostante la buona fattura dei suoi dischi (su questo spazio ci eravamo già occupati di lui), gli è mancata probabilmente una vera evoluzione personale. Cosicchè la sua figura si è vista sorpassare dagli altri giovani guitar hero, tant'è che, attualmente, fra i tre della premessa, il più quotato è senza dubbio Bonamassa.



Oggi il chitarrista del Mississippi torna in buona forma, con un perfetto lavoro di rock-blues bianco ben equilibrato tra pezzi al fulmicotone, lenti e bluesacci canonici. Tra i primi si stagliano dalla media l'opener Never lookin' back, Oh pretty woman (non è quella di Orbison), The wire mentre Show me the way back home, Anywhere the winds blow e Heat of the sun si muovono tra la seconda e la terza tipologia di cui sopra. Dark side of love esce dal classico stampo di B.B. King, mentre Yer blues è la cover del pezzo dei Beatles dal White Album. Ottima la trilogia che chiude la tracklist, con l'acustico quasi in odore di pop Who's gonna catch you now, il sofferto Black water blues e Strut, trascinante boogie-blues strumentale che strizza l'occhio a Steve Ray Vaughan. I pezzi in totale sono tredici ai quali ne vanno aggiunti quattro dell'edizione speciale.



How i go è un buon lavoro per chi apprezza il genere ma anche per chi normalmente non lo fa, visto il buon livello di accessibilità rispetto ai neofiti e il suo low factor di ripetitività. Bella lì, Kenny Wayne!