Steve Earle, I'll never get out of this world alive
New West Records, 2011
La sofferenza è il miglior combustibile per gli artisti veri? Secondo me sì e Steve Earle è una delle prove viventi più efficaci di questo assioma.
La sua carriera parla chiaro. La prima parte (1985/1990) è quella dei maggiori successi, che lo celebra prima come grande promessa del country-rock americano per poi consacrarlo artista affermato.
Ma è dalla spirale di tossicodipendenza nella quale precipita durante quegli anni, non facendosi mancare nemmeno scontri con le forze dell'ordine ( che lui ricorda come "ah sì, ho colpito con la testa il manganello del poliziotto") e periodo di detenzione, che Steve produce i suoi lavori migliori (1995/2002 dall'unplugged Train a comin' a The revolution starts now). Geniali, imprevedibili,indipendenti,liberi di contaminare il country-rock delle origini con il blues, il rock distorto, il reggae, persino il punk-rock. Successivamente Steve trova un (fin qui) stabile equilibrio affettivo, si trasferisce a New York e comincia produrre dischi paradossalmente (visto il coacervo di influenze rappresentato dalla grande mela) meno contaminati e più intimisti, improntati cioè ad un folk-blues con poche variazioni. Washington Square Serenade(2007) è il primo episodio della terza parte della carriera del 57enne musicista della Virginia, Townes (2009) il tributo al fratello di strada Van Zandt.
I'll never get out of this world alive (citazione di un noto pezzo di Hank Williams, l'album però non contiene il brano) esce in questi giorni e segue il canovaccio della recente vita artistica di Earle. Undici brani in tutto, meno di quaranta minuti di durata. Waitin' on the sky, la traccia che apre il lavoro, è tra le migliori, incedere imperioso, testo coinvolgente, ritornello di quelli che mi mandano al manicomio tanto mi si stampa in testa.
Gulf of Mexico e Molly-O aprono alla ballata irlandese (sopratutto la seconda), evocando atmosfere suggestive che accompagnano testi ispirati, mentre Meet me in the alleway è un blues alla Tom Waits, voce filtrata col distorsore, armonica e fitto tappeto di percussioni a tirare la carretta. L'intensa ballata Heaven or hell vede l'ormai consueta partecipazione come seconda voce della moglie di Steve, la folksinger Allison Moorer. Il disco recupera anche alcune loose tracks, che l'artista aveva in parte regalato ad altri (è il caso di God is God e I am a wanderer incise da Joan Baez nel suo disco del 2008 prodotto proprio da Earle), scritte per il cinema (Lonely are the free, dal film Leaves of grass di Tim Blake Nelson con Norton e De Vito) o per i serial televisivi (This city, per Treme, tf ambientato nella New Orleans post uragano). Alla fine i brani incisi apposta per il disco sono sette, di cui almeno quattro, i primi in ordine di tracklist, di ottimo livello. Anche la vena politica (Steve si definisce un socialista americano) continua ad essere presente, sebbene con un taglio più orientato al sociale.
I'll never get out of this world alive è in conclusione un buon disco che però ha il limite di essere qualitativamente discontinuo, con la prima metà del disco davvero eccellente mentre la seconda più canonica e prevedibile. Oltre a questo, l'opera aggiunge poco a quanto già sapevamo sulla cifra stilistica di Steve Earle.
Visto il contesto ci accontentiamo, con Steve anche viaggiare col pilota automatico garantisce una buona crociera.
Certo, una sferzata non farebbe male, ma voglio troppo bene a quest'uomo per augurargli che arrivi a ruota di altri traumi.
Per adesso, bene così.
P.S. Il titolo del post è un passaggio del brano di Hank Williams che dà il titolo al disco
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