lunedì 12 aprile 2021

Hatebreed, Weight of the false self (2020)



Gli Hatebreed celebrano il giro di boa dei venticinque anni di carriera con l'ottavo album della loro discografia e il ritorno, o meglio, l'ennesima affermazione, del proprio brand musicale più radicale. 
Alla guida della band, unico superstite della formazione originale assieme al bassista Chris Beattie, c'è sempre Jamey Jasta, personaggio che, da sempre, vive la dimensione metal in maniera totalizzante, non solo per il numero di band nelle quali ha militato (Icepick; Kingdom of sorrow; Jasta), ma anche per i ruoli di conduttore del mitologico programma di MTV Headbangers Ball (nel periodo dal 2003 al 2007), di produttore (di recente anche per Dee Snider) e di figura di riferimento mediatica per la cultura heavy.
Weight of the false self (titolo niente male, così come la copertina) arriva quattro anni dopo il precedente lavoro (The concrete confessional) che forse era più orientato all'old-school thrash e al metalcore, e picchia duro, con mia enorme soddisfazione, in ambito hardcore e sludge. 

A scanso di equivoci o di bluff stilistici, qui le carte vengono svelate immediatamente: in quindici minuti scarsi (su trentaquattro complessivi, per dodici tracce) ci beviamo, come altrettanti shot di tequila e con il medesimo effetto stordente, cinque pezzi brutali e devastanti ma sempre dotati di un preciso senso melodico, sebbene strappa laringi (la lezione dei Black Flag, decenni dopo, è sempre presente), che permettono alla straripante potenza di essere costantemente sotto controllo ( Let it rot; Set it right e Cling to life). 
Altra lezione universale messa in pratica dalla tracklist è ovviamente quella dei Pantera e di Fillone Anselmo, riferimento volente o nolente immancabile in ogni disco composto con ingredienti  sludge.
Aggiungo che, comunque, dentro questo lavoro, i riferimenti alle varie articolazioni del metal estremo si sprecano ed ogni adepto del genere può dunque divertirsi a trovare affinità con questa o quella band. Perchè, di base, Jamey Jasta (un pò come, a livelli diversi, Michael Poulsen o Dave Grohl) è prima di tutto un innamorato di codesta musica e questa sua passione viscerale emerge sempre, facendo sì che un'opera con zero originalità (ma, attenzione, ottime canzoni) diverta abbestia ed assolva in pieno al proprio compito, liberatorio, di regalare all'ascoltatore momenti di puro sfogo metal  quale eccellente antidoto al logorio della vita moderna.

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