lunedì 25 gennaio 2021

Bruce Springsteen, Letter to you (2020)



Dopo essersi fatto attendere cinque anni per dare un seguito ad High hopes (2014) Springsteen rilascia due album in due anni. Accantonato lo stile bombastico (da me molto apprezzato) di Western stars, si torna dunque a casa, vale a dire con la E Street Band, vale a dire nella confort zone propria e dei fan. 
Grande entusiasmo ha generato questo ritorno al rock classico del settantunenne (eh sì...) artista americano, soprattutto, m'è parso di notare, dai vari addetti ai lavori che il disco l'hanno ascoltato e recensito in anteprima, raccontandone un semi-capolavoro. Il mio approccio all'album è stato invece molto più freddo, i primi ascolti mi hanno lasciato tutto sommato indifferente, a chiedermi cosa non stessi capendo, rispetto all'entusiasmo che le tracce stavano universalmente generando. 

Le dodici canzoni che compongono la tracklist sono, come da tradizione, tutte composte da Springsteen, l'apporto della E Street Band è attinente, credo, al solo arrangiamento (a tal proposito, Bruce, non sarebbe arrivato il momento di co-intitolare un album di studio alla banda? Quel "featuring" the E Street Band che compare solo sull'adesivo appiccicato sulla copertina, dopo quasi cinquant'anni di sodalizio, è francamente ingeneroso), anche se il marchio di quel sound ruffiano, temprato da milioni di ore passate a suonare assieme, è inconfondibile. E lo è non per le chitarre di Lofgren / Van Zandt, il basso di Tallent o il sax di Clemons (Jake), ma per le tastiere di Roy Bittan e la batteria di Max Weinberg, elementi oggi più che mai imprescindibili a garantire l'autenticazione del "made in E Street". 

Sorvoliamo sulla copertina, ormai mi sono stancato di criticare l'amatorialità con la quale vengono scelte, e concentriamoci sul disco, la cui apertura è deputata all'unico brano acustico della tracklist, l'innocuo One minute you're here, piazzato scaltramente in premessa, in modo da far deflagrare con più efficacia il mid-tempo rock della title track, indubbiamente uno dei pezzi inediti più riusciti del disco. Come suona lo Springsteen rock degli anni venti? Più che richiamare il sound dei vari Magic, Wrecking ball, Working on a dream o High hopes, l'uso quasi honky tonk delle chitarre mi rimanda piuttosto alla produzione dei primi novanta, a pezzi come Lucky town (dal sottovalutato disco omonimo). Sensazione confermata da una manciata di canzoni che considero poco più che filler e che ogni volta fatico a non skippare (spesso mi evito la fatica), e mi riferisco a Rainmaker, The power of prayer o Last man standing, nelle quali a prevalere è un malcelato mestiere. 

E veniamo al punto: se l'album si regge sulle proprie gambe è per il recupero di tre outtakes, amatissime dai fans, ma fin qui mai ufficialmente pubblicate da Bruce (nemmeno nell'imprescindibile cofanetto Tracks): Janey needs a shooter; If I was the priest e Songs to orphans. Tre canzoni meravigliose, in particolare If I was the priest, (che faceva parte del lotto di pezzi presentato alla prima mitologica audizione di Springsteen alla Columbia Records davanti a John Hammond) e Songs to orphans, un viaggio emozionale nel modo di scrivere di un giovanissimo artista che catturava ogni elemento, personaggio, vibrazione, buona o cattiva, proveniente dalla strada riportandolo nei suoi testi, come abbiamo imparato ad apprezzare nei suoi primi due album del 1973, Greetings from Asbury Park e The wild, the innocent, the E street shuffle e, in parte, con Born to run. Dentro l'esecuzione aggiornata di questi tre brani sì che emerge quello che può fare ancora oggi la E Street con uno spartito emozionale. Il timing smette di avere significato, si va oltre i sei minuti, si sfiorano i sette, eppure ne vorresti ancora e ancora, di questo Springsteen qui, che spazza via facile qualche altra composizione decorosa, come il mantra di House of a thousand guitars o lo stadium rock di Ghosts.

Cosa sarebbe stato Letter to you senza l'intuizione di questi tre recuperi, mi sembra scontato, il "solito" disco manieristico di un artista che deve rischiare (Western stars, The Seeger sessions), uscendo dal proprio perimetro di sicurezza per riuscire ad emozionare, perchè la sua ricetta ha già detto tutto quello che di grandioso poteva dire. Sarebbe tuttavia ingeneroso non sottolineare l'impatto anche politico che la personalità di Bruce riverbera ad ogni release. La campagna promozionale del disco, uscito il 23 ottobre, a pochi giorni dalle presidenziali americane (tempismo non casuale), ha permesso all'artista di dire in maniera forte ed inequivocabile cosa ne pensasse di Trump, nella certezza che i suoi giorni da presidente fossero finiti. E vedere, il 20 gennaio, Bruce, davanti ad una Capitol Hill deserta ma pacificata, imbracciare in solitaria la sua chitarra ed intonare Land of hope and dreams per l'elezione di Biden, beh, ti permette di ricordare perchè ami questo artista da quasi quarant'anni a prescindere da quello che, con autocitazionismo e sporadici lampi di ispirazione, riesce ancora a fare. 



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