La musica rock, per chi scrive, è una cosa dannatamente seria. Anche se suoni un genere considerato poco nobile come il glam-metal, mi devi dire esplicitamente se ci fai o ci sei, se il tuo modello sono i Poison o gli Spinal Tap. I losangelini Steel Panther non sono ancora riusciti a convincermi su questo punto preliminare. Tutto nei loro atteggiamenti (guardate su youtube il loro tits contest del Wacken 2014), nel look e nei nomi d'arte dei singoli componenti del combo rimanda a quella stagione, nella seconda metà degli ottanta, quando le band agghindate in spandex proliferavano come lombrichi dopo un'acquazzone, ma la goliardia che li contraddistingue è spinta un pò troppo oltre, facendo nascere più di un sospetto sulla "serietà" dell'operazione.
Detto questo passiamo ad analizzare All you can eat, lavoro numero quattro del gruppo, degno successore di quel Balls out che me li ha fatti scoprire. L'opera non si discosta in maniera significativa da quello che ormai è il brand del gruppo: testi sbracatissimi nell'ambito del sesso e delle sue pratiche più border-line (vi basti come indizio Bukkake tears, titolo della traccia numero quattro) su basi musicali che rendono omaggio ai soliti grandi del passato (Ratt, Motley Crue, Poison, Cinderella, i Bon Jovi fino a Slippery when wet). L'album, dal quale sono stati estratti quattro singoli/video: Pussywhipped, Party like tomorrow is the end of the world, Gloryhole e The burden of being wonderful, scorre piacevolmente, strappando qua e là dei sorrisi rassegnati per linguaggio e "metafore" usate dal gruppo (mai una canzone d'amore si era intitolata Fucking my heart in the ass), ma non riesce a dissolvere quel maledetto dubbio iniziale. Alla fine me ne farò una ragione.
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